DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

1 Dicembre 2016




PREGARE PER I MORTI E PER I VIVI

Quanti modi diversi ci sono per pregare per il nostro prossimo! Sono tutti validi e accetti a Dio se fatti con il cuore. Penso in modo particolare alle mamme e ai papà che benedicono i loro figli al mattino e alla sera. Ancora c’è questa abitudine in alcune famiglie: benedire il figlio è una preghiera; penso alla preghiera per le persone malate, quando andiamo a trovarli e preghiamo per loro; all’intercessione silenziosa, a volte con le lacrime, in tante situazioni difficili per cui pregare. Ieri è venuto a messa a Santa Marta un bravo uomo, un imprenditore. Quell’uomo giovane deve chiudere la sua fabbrica perché non ce la fa e piangeva dicendo: “Io non me la sento di lasciare senza lavoro più di 50 famiglie. Io potrei dichiarare il fallimento dell’impresa: me ne vado a casa con i miei soldi, ma il mio cuore piangerà tutta la vita per queste 50 famiglie”. Ecco un bravo cristiano che prega con le opere: è venuto a messa a pregare perché il Signore gli dia una via di uscita, non solo per lui, ma per le 50 famiglie. Questo è un uomo che sa pregare, col cuore e con i fatti, sa pregare per il prossimo. E’ in una situazione difficile. E non cerca la via di uscita più facile: “Che si arrangino loro”. Questo è un cristiano. Mi ha fatto tanto bene sentirlo! E magari ce ne sono tanti così, oggi, in questo momento in cui tanta gente soffre per la mancanza di lavoro; penso anche al ringraziamento per una bella notizia che riguarda un amico, un parente, un collega…: “Grazie, Signore, per questa cosa bella!”, anche quello è pregare per gli altri!. Ringraziare il Signore quando le cose vanno bene. A volte, come dice San Paolo, «non sappiamo come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). E’ lo Spirito che prega dentro di noi. Apriamo, dunque, il nostro cuore, in modo che lo Spirito Santo, scrutando i desideri che sono nel più profondo, li possa purificare e portare a compimento. Comunque, per noi e per gli altri, chiediamo sempre che si faccia la volontà di Dio, come nel Padre Nostro, perché la sua volontà è sicuramente il bene più grande, il bene di un Padre che non ci abbandona mai: pregare e lasciare che lo Spirito Santo preghi in noi. E questo è bello nella vita: prega ringraziando, lodando Dio, chiedendo qualcosa, piangendo quando c’è qualche difficoltà, come quell’uomo. Ma il cuore sia sempre aperto allo Spirito perché preghi in noi, con noi e per noi. (PAPA FRANCESCO, CATECHESI GENERALE DEL 30 NOVEMBRE 2016)

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IN SIRIA I BAMBINI E I GIOVANI CRISTIANI RISCHIANO LA VITA, IN ITALIA LA METTONO A RISCHIO PER NOIA E VUOTO PNEUMATICO….

“Vi testimonio la mia grazia: vivere al fianco dei martiri cristiani in Siria”

Suor Maria Guadalupe, missionaria dell’Ive, racconta la sua esperienza e punta l’indice verso le bugie dei media occidentali e quelle potenze “che parlano di diritti umani e appoggiano l’Isis”
Tra le varie immagini che scorrono sullo schermo dietro di lei, ce n’è una che ritrae un gruppo di famiglie durante un pic-nic che sembra svolgersi in un parco di una pacifica città occidentale. Gli abbracci amichevoli, i volti distesi e sorridenti, gli abiti dignitosi suggeriscono che siano persone spensierate. Stupisce sapere invece che quella foto è stata scattata a un gruppo di cristiani di Aleppo, in Siria, non molti mesi fa. È gente, quella che sorride e che mantiene la schiena dritta, che convive quotidianamente con la morte, consapevole che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo di vita.
Questa immagine racchiude il senso delle parole pronunciate da suor Maria Guadalupe de Rodrigo, missionaria argentina dell’Istituto del Verbo Incarnato (Ive), nel corso della conferenza che ha tenuto ieri all’Università Europea di Roma a proposito della sua esperienza in Siria.
La suora dell’Ive non esita a definire “una grazia” il poter vivere al fianco di questi nuovi martiri della fede cristiana: persone d’ogni età e censo, che affrontano la spada degli estremisti islamici come un premio del Signore.
L’esperienza di suor Maria Guadalupe in Siria ha inizio nel gennaio 2011, a seguito di un periodo in Egitto. Dopo aver sperimentato la discriminazione che vivono i cristiani nel Paese delle sfingi, la giovane vede come un’occasione per rilassarsi il trasferimento ad Aleppo, un vero e proprio crogiolo inter-religioso, ove regna la pace, la convivenza, la prosperità.
Passano appena due mesi dal suo arrivo, tuttavia, e la situazione del Paese precipita inopinatamente. A marzo iniziano le prime manifestazioni di protesta contro il Governo di Assad. “I media occidentali parlavano di dimostrazioni pacifiche svolte da cittadini siriani per chiedere democrazia, ma noi che eravamo lì possiamo testimoniare tutt’altro”, spiega la suora.
La fase embrionale dei tumulti si è sviluppata a Dar’a, nell’estremo sud del Paese. Alcune ragazze originarie di quel villaggio, ospiti nel centro d’accoglienza per studentesse dell’Ive ad Aleppo, testimoniano a suor Maria Guadalupe e alle sue consorelle che “gruppi di stranieri, lo si notava dall’accento, entravano nei villaggi armati fino ai denti per uccidere i cristiani”.
Fin da subito l’elemento religioso si configura quindi come determinante. Eppure la stampa sembra non volersene accorgersene. Anzi, suor Maria Guadalupe ravvede una precisa volontà a disinformare l’opinione pubblica su quanto sta avvenendo in Siria.
Quando le proteste si estendono in tutto il Paese e giungono anche ad Aleppo, spiega la religiosa, “abbiamo visto dalle nostre finestre, con i nostri occhi, migliaia di persone scendere in strada per manifestare solidarietà ad Assad. Ebbene, dopo poche ore quelle stesse immagini nei media venivano fatte passare come sommosse contro il regime”.
Le accuse della suora sono rivolte a una stampa connivente con la comunità internazionale, vera responsabile della mattanza siriana. “La Siria era indipendente e ricca, per questo gente in giacca e cravatta ha voluto servirsi di gruppi armati per disgregarla”, denuncia. E lamenta inoltre che le sanzioni nei confronti di Damasco sono servite soltanto a sfinire la popolazione, aggiungendo un dettaglio spinoso: “Nel 2012 è stato rimosso l’embargo al petrolio, quando i pozzi erano in mano ai ribelli, anche all’Isis. Forse è stato fatto per permettere a questi gruppi di finanziarsi?”.
È una domanda che appare tristemente retorica dinanzi alla realtà descritta subito dopo da suor Maria Guadalupe. La coalizione a guida statunitense “ha fatto solo scena – accusa -, gli aerei passavano sopra le postazioni dell’Isis ma non bombardavano”. E questo – incalza – “vuol dire che li appoggiavano”.
Il terrorismo – spiega la religiosa – “è sostenuto da chi ci parla di democrazia e diritti umani”. E poi – si domanda – “perché dovremmo imporre la democrazia ai siriani? Perché dovremmo far cadere un Governo che loro stessi hanno scelto e che garantisce convivenza e pace?”.
La riposta è presto detta: per interessi economici e politici delle potenze occidentali. Questi scopi, per inciso, “vanno a coniugarsi con gli interessi religiosi dei fondamentalisti islamici, che vogliono eliminare tutti coloro che il Corano definisce come infedeli”.
Nel buio di una feroce persecuzione, si agita però un bagliore di luce che dona speranza. È quello della moltitudine di martiri che rafforza la fede cristiana. Si illuminano gli occhi di suor Maria Guadalupe, quando descrive la determinazione dei siriani fedeli a Cristo nel non rinnegare la propria fede dinanzi ai loro boia.
La religiosa parla di “miracoli” che stanno avvenendo nella Siria falcidiata dal conflitto.  Spiega che “prima della guerra, molta gente di Aleppo, città del divertimento e degli eccessi, viveva una fede un po’ superficiale, mondana. E la decisione, la disponibilità al martirio di quegli stessi cristiani oggi, è veramente un miracolo”. Si tratta – soggiunge – “di una grazia che il Signore sta dando loro”.
Considerare la morte come una possibilità concreta, di ogni giorno, “ci fa tornare all’essenziale”. Suor Maria Guadalupe spiega che i cristiani siriani investono la gioia non più su qualcosa che chiunque può toglier loro, bensì “nella vita eterna”.
“Questo spirito – prosegue – ci contagia, possiamo partecipare stando lì alla grazia dei martiri e non abbiamo paura, nonostante siamo ormai abituati ad ascoltare costantemente il suono delle bombe”.
Un contagio che dovremmo auspicare anche noi, per reagire . “Loro subiscono una persecuzione cruenta – osserva -, ma ce n’è una incruenta, che vivono i cristiani in Occidente, a causa di leggi contro la vita, il matrimonio, la famiglia, la libertà di esprimere la propria fede”.
A tal proposito suor Maria Guadalupe racconta che un cristiano siriano, profugo in Spagna con moglie e figli, lo scorso anno è rimasto impressionato dal fatto che l’amministrazione comunale di Madrid volesse vietare l’esposizione in pubblico di presepi. “Se questa è la vostra democrazia, meglio il nostro dittatore”, le parole dell’uomo.
E forse non è un caso che – come ha ribadito la religiosa – in Siria i cristiani li stanno difendendo non i Paesi europei, ma la Russia e l’esercito siriano. Questi ultimi stanno strappando Aleppo ai jihadisti proprio nelle ultime ore. (ZENIT)

L'ULTIMA FOLLIA, SDRAIATI DI NOTTE ALL’INCROCIO. NELLA SFIDA GLI ADOLESCENTI SI GIOCANO LA VITA


SENIGALLIA - La fotocamera dello smartphone è accesa, pronta a immortalare prove di coraggio da esibire sui social. Capita così che un giorno un genitore, sbirciando tra le frequentazioni del figlio, si imbatta in una foto che ritrae un suo amico sdraiato sullo Stop della segnaletica stradale. Un 18enne ripreso in quella che voleva essere una goliardata, esibita su Facebook forse per strappare qualche risata agli amici. Uno scatto che ha finito però per allarmare i familiari. Da qualche mese nella zona industriale della Cesanella, frazione di Senigallia, c’è chi si diverte a farsi immortalare in fotografie con le pose più assurde. Il traffico è scarso e i ragazzi possono fare di tutto indisturbati, anche sdraiarsi per strada e scattare una foto. La polizia municipale ha appreso solo ieri di quanto si sta verificando da qualche mese in quella zona e ha già previsto di intensificare i controlli. Goliardate sporadiche che potrebbero però rivelarsi pericolose. I giovanissimi della Cesanella nelle scorse settimane hanno fatto parlare di sé quando, sorpresi da un residente lungo la pista ciclabile del quartiere, sono stati visti picchiarsi. All’apparenza una lite ma di fatto solo un modo per provocarsi qualche graffio, così da poterlo poi immortalare e postare su Instagram. Il coraggio che si misura con i lividi. Negli stessi giorni a Marzocca alcuni ragazzini aspettavano sdraiati sulle strisce pedonali l’arrivo delle auto per poi spostarsi all’ultimo minuto in viale Maratea oppure accovacciati pronti a saltare sul marciapiede, per evitare di essere investiti in viale della Resistenza. Una lunga serie di aneddoti assurdi ma tristemente reali che annovera anche i giovani che piombano all’improvviso in mezzo alla strada in via Berardinelli, fermando le auto, come fosse una richiesta di aiuto, ma che poi scappano quando queste si fermano per non travolgerli. Pratiche folli dove spesso c’è il branco che incita a provare, come chi si è rifiutato, venendo emarginato, ha raccontato ai genitori. Dove in palio c’è la paghetta dei genitori. 
(LEGGO.IT)

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P OS T - T RU T H
Post-verità

Aggettivo. Denota circostanze
in cui, nel formare l’opinione
pubblica, i fatti oggettivi sono
meno influenti delle emozioni
e delle credenze personali.
Oxford English Dictionary


ECCO UNA PRIMA RASSEGNA DI POST-TRUTH (NON QUELLE CHE CI SMERCIA IL PENSIERO UNICO…)


1) VIOLENZA SULLE DONNE? SILVANA DE MARI

Nel marzo del 2012 ha fatto molto scalpore un dato rivelato da Ritanna Armeni, secondo la quale la violenza sulle donne "è la prima causa di morte in tutta Europa per le donne tra i 16 e i 44 anni". Un paio di mesi dopo Barbara Spinelli, sul Corriere della Sera, aveva fatto una rivelazione simile: "La prima causa di uccisione [morte] nel mondo delle donne tra i 16 e i 44 anni è l'omicidio (da parte di persone conosciute)". Nel giugno dello stesso anno è intervenuta sul tema Rashida Manjoo, special rapporteur dell'ONU sulla violenza contro le donne, secondo la quale "[...] in Italia la violenza domestica è la prima causa di morte per le donne fra i 16 e i 44 anni di età".
A queste affermazioni se ne sono aggiunte innumerevoli altre. La signora Boldrini parla di strage continua e appende drappi rossi. La signora Cirinnà ha affermato a un corso di aggiornamento dell'ordine dei giornalisti ( settembre 2016) che padre e madre sono uno stereotipo e un pregiudizio e ha aggiunto che le donne assassinate da un uomo sono più numerose di quelle morte di cancro ( 77000). 
Dio , in cui credo profondamente, mi dia testimonianza del fatto che la mia stima per le capacità cognitive delle suddette signore sta a un granellino di sabbia come il granellino di sabbia sta all'universo, ma nemmeno loro possono credere alla veridicità di questi numeri. 
Per coloro che si siano persi le puntate precedenti le donne assassinate ogni anno sono circa 130, gli uomini assassinati 400, gli uomini suicidi circa 3200, non mille come ho scritto io sbagliando in un precedente post. Le le donne suicide sono circa 800 e il suicidio è doppio nelle donne sole. L'emergenza di questo paese quindi è il suicidio, dovuto alla spaventosa situazione economica che strangola la gente, che obbliga uomini perbene a essere disoccupati, donne che vorrebbero essere madri a non osare farlo, famiglie a perdere la casa per pignoramento, imprenditori costretti a fallire per eccesso di crediti, anziani a cercare qualcosa nei cassonetti. Ci sono 208 pratiche mediche cui è stato tolto il carattere di gratuità: una di queste è la terapia antalgica per metastasi ossee e l'altra è la risonanza magnetica anche nei bambini a rischio di idrocefalo. L'emergenza è il suicidio di un paese morto, assassinato e venduto che sta chiaramente morendo senza un futuro. Perché hanno tutti mentito? Perché si sono tutti inventati che l'emergenza è il femminicidio e i medici obiettori ? Per distrarre l'attenzione dal suicidio, dalla disperazione, dall'impossibilità di vivere, dai 12 miliardi di euro spesi in un'accoglienza indiscriminata che sta causando disastri e morti in mare, certo, ma non è solo questo. Un regime per poter diventare in tutto e per tutto dittatoriale , anche a fronte di un'ancora apparenza di democrazia elettiva, deve scardinare di un popolo il passato e l'istituzione familiare. Contro il femminicidio la vera sfida è il cambiamento culturale, hanno affermato i geni: quindi la nostra cultura non va bene, va cambiata, la scuola, gli insegnanti, persone che eseguono le circolari del ministero spiegheranno il maschile e il femminile: l'etica dei figli amministrata dallo stato, mi viene la nausea solo a scriverlo. Quella che deve saltare è l'istituzione familiare, gli uomini che amano le donne, le donne che amano gli uomini. Una volta saltata la famiglia un popolo diventa spazzatura, lo zerbino. La vera violenza contro le donne è il suicidio. La vera violenza contro le donne è una tassazione talmente atroce che impedisce di diventare madri. La vera violenza contro le donne è la disoccupazione dei loro uomini. La vera violenza contro le donne sono i miserabili 4 mesi di congedo per maternità, il dover tornare al lavoro quando il piccolo ha 4 mesi e ha un disperato bisogno di mamma. la vera violenza contro le donne è la pornografia, la vera violenza contro le donne è la mostruosa nauseante filiazione di Vendola e Lo Giudice.
Giù le mani dai nostri uomini. Giù le mani dalle nostre famiglie. Giù le mani dai nostri figli. Andate al diavolo. 


2) “FIDEL” AL PUEBLO O A SE STESSO? MA  SAPPIAMO A CHI E’ DAVVERO FEDELE COLUI IL QUALE, NEL NOME DEL POPOLO O DELLA FIDANZATA, VENERA E SERVE SOLO SE STESSO…

 

PERCHE’ ALL’INCUBO SOPRAVVIVE IL SOGNO
Michele Serra su Castro e la “revolucion”

….E’ il fascino della rivoluzione come avventura di pochi che dirottano la storia; come evento improbabile eppure possibile, come se la storia fosse un romanzo ancora da scrivere, una trama ancora da decidere. L’esatto contrario di quella «fine della Storia» che divenne, sul finire del millennio, la deprimente ossessione di un Occidente impigrito, spaventato dalla sua propria inerzia, forse un poco istupidito dal benessere.
«Si può fare», questo è il racconto di Fidel; e si può fare persino sotto il naso della superpotenza che incombe a un tiro di gommone, e che passerà i decenni successivi nel tentativo al tempo stesso protervo e goffo di riportare all’obbedienza la piccola isola ribelle, in una delle più efficaci, impagabili ripetizioni del mito di Davide e Golia. Se Usa-
Urss era Golia contro Golia, il cozzo speculare tra due giganti ugualmente convinti di
incarnare la Verità, capitalismo contro comunismo, Ovest contro Est, Usa-Cuba è
il gigante che scopre il topo proprio sotto casa, e cerca di schiacciarlo; e non ci riesce,
perché il topo è scaltro, il topo è coraggioso.
Tutto quello che è venuto dopo – i fallimenti dell’economia pianificata, la persecuzione dei dissidenti, l’opprimente conformismo di ogni dittatura – è importante; ma evidentemente non quanto quello che è avvenuto prima. La rivoluzione castrista è più rimarchevole e più affascinante, per l’immaginario del mondo, del regime castrista. E quando il giovane Fidel disse «mi giudicherà la storia», lo sapeva benissimo che è dei giovani ottanta del Granma che rimarrà la narrazione, e molto meno di quanto è accaduto dopo.
È una delle (tante) cose che Donald Trump non può capire; e che Obama aveva probabilmente capito. (VANITY FAIR)


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E QUI UN POCHINO DI VERITA’, CELATA DIETRO ALLA SEDUZIONE DELLA PSEUDO-RIVOLUZIONE


Soldi, soldati e stragi Fidel padre padrone di tutti i terrorismi
In più di mezzo secolo Cuba ha appoggiato, armato e addestrato killer in tutto il mondo
Settantamila soldati inviati a combattere in sanguinose campagne d'Africa e al fianco degli arabi contro Israele, armi, addestramento e rifugio sicuro a Cuba per terroristi e guerriglieri di mezzo mondo in nome del marxismo leninismo.
Il libro nero del comunismo di Fidel Castro comprende un ampio capitolo internazionale, che oggi tutti sembrano dimenticare. A cominciare dai messaggi di cordoglio dei leader mondiali, compreso il nostro presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che soffrono d'amnesia sul mezzo secolo di regno di Fidel. E sulla destabilizzazione internazionale portata avanti da Castro in nome delle revolucion mondiale.
Fra gli anni Sessanta ed Ottanta le baionette cubane sono intervenute in mezzo mondo cominciando con Che Guevara in Congo ed in Bolivia, dove è stato ucciso. Nel 1973 durante la guerra dello Yom Kippur contro Israele, Castro inviò 4mila consiglieri per dar man forte agli arabi. Nulla in confronto alle sanguinose campagne d'Africa volute dal lider maximo su richiesta dell'Urss. Nel 1977 Cuba intervenne con 15mila uomini e armi pesanti in Etiopia per difendere il dittatore Menghistu nella guerra con la Somalia per l'Ogaden. Dieci anni dopo 55mila cubani con carri armati, elicotteri e caccia bombardieri hanno puntellato il governo filo sovietico di Luanda, in Angola, combattendo contro i ribelli appoggiati dagli Usa e truppe sudafricane. Il regime dell'apartheid è stato condannato dal mondo, ma Castro viene ancora oggi lodato. Nonostante le truppe cubane ed i loro alleati locali abbiano usato il napalm per distruggere interi villaggi lungo il confine con la Namibia uccidendo tutti i maschi dai dieci anni in su. L'area fu soprannominata «il corridoio di Castro».
A guidare le truppe d'intervento in Africa in nome della fratellanza comunista si era distinto il generale Arnaldo T. Ochoa Sánchez, detto «El Moro». Rivoluzionario della prima ora assieme ai fratelli Castro è caduto in disgrazia nel 1989. L'accusa di traffico di droga verso gli Usa in collaborazione con il cartello di Medellin e tradimento lo hanno portato davanti ad un plotone di esecuzione assieme ad altri alti ufficiali. Ancora oggi si sospetta che l'accusa fosse un paravento e che in realtà l'eroe della rivoluzione volesse opporsi a Castro in vista del crollo del muro di Berlino.
Solo lo scorso anno Cuba è stata stralciata dalla lista nera Usa dei paesi canaglia, sponsor del terrorismo. Nel mezzo secolo al potere il lider maximo ha appoggiato, armato ed addestrato guerriglieri e gruppi terroristici in America Latina, Africa e Medio Oriente. Negli ultimi anni il Dipartimento di stato americano non smetteva di denunciare che «il governo cubano continua a fornire un rifugio sicuro a diversi terroristi». Compresi gli spagnoli dell'Eta, ma in passato anche i terroristi dell'Ira hanno trovato riparo all'Havana. Nel dicembre 2015 Basil Ismail, rappresentante a Cuba del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) ha tenuto un accorato intervento in appoggio all'Intifada davanti ai rappresentanti del Partito comunista cubano come Clara Pulido Escandel, del Comitato centrale e Rene Gonzalez, eroe delle rivoluzione, a lungo incarcerato negli Stati Uniti. L'Fplp, che aveva contatti con lo stragista Carlos è ancora nella lista nera dei gruppi del terrore di Usa, Canada ed Unione europea.
Castro in persona ai lavori della Conferenza tricontinentale a Cuba del 1966 aveva annunciato il progetto di lotta armata internazionale dichiarando che «i proiettili non le le urne» servono a prendere il potere. Secondo il lider maximo il mondo era pronto «per una lotta armata rivoluzionaria» internazionale e gli stessi leader comunisti dell'America latina che non volevano farsi coinvolgere erano bollati come «traditori, destrorsi e deviazionisti». I cubani aiutarono i sandinisti a conquistare il potere in Nicaragua. Fin dall'inizio hanno dato man forte alle Farc colombiane e appoggiato le Pantere nere americane. I palestinesi, anche nel periodo del terrore di Settembre nero, sono sempre stati finanziati, addestrati e armati da Castro.  (F. BILOSLAVO, IL GIORNALE 30 NOVEMBRE 2016)

CUBA CAPITALE DELL'ABORTO

Tra i tanti crimini commessi, anche questa è un’eredità di sessant’anni di comunismo imposto a tutta l’isola da Fidel Castro, morto novantenne lo scorso 25 novembre.

Mentre in molti – troppi, pure in Italia – celebrano la sua figura, bisognerà che qualcuno ricordi chi è stato davvero il “Comandante in Capo della Rivoluzione cubana”. E cosa continua ad essere il regime da lui instaurato e guidato ora dal fratello Raúl.
Per ovvie ragioni, ci concentreremo sui temi inerenti la nostra mission.
A parte l’oppressione esercitata contro i cattolici, Fidel Castro ed il bandito Ernesto Che Guevara hanno violentemente perseguitato gli omosessuali.
Non è un caso che a Cuba l’aborto sia gratuito e disponibile su richiesta, nonostante per le ragazze di età inferiore ai 16 anni ci sia bisogno del consenso dei genitori. E non è nemmeno un caso che il tasso di omicidi di bambini innocenti prima della nascita sia tra i più elevati del mondo ed il più alto tra i Paesi membri dell’ONU. Tempo fa abbiamo raccontato la storia del medico cubano Óscar Elías Biscet, arrestato e torturato (e ancora tenuto sotto controllo dalla polizia) per il solo fatto di essersi rifiutato di effettuare aborti.
InterPressNews Service nel 2013 riferì che il numero di adolescenti cubane che abortisce supera di tre volte quello di quante decidono di portare a termine la gravidanza. Inoltre sono numerosissime le donne che tra i 15 e i 19 anni hanno già avuto uno o più aborti.
Di fatto, l’aborto è usato come mezzo di controllo delle nascite. 
E vantarsi, come fa il regime, di avere un basso tasso di mortalità infantile è una vera presa in giro. Ciò infatti è dovuto al gran numero di bambini ammazzati prima ancora di nascere. Cuba sta attraversando da tempo un vero inverno demografico, un problema solitamente tipico dei Paesi ricchi. Nel “paradiso” castrista però il motivo sta nella paura del futuro: i cubani temono di non poter sfamare i loro figli.
I danni morali portati dal comunismo sono incommensurabili. La mentalità abortista è ormai patrimonio comune. Anche a causa degli orribili programmi di educazione sessuale imposti nella scuola di regime.
Ecco il lascito di Fidel Castro a Cuba. Oltre – lo ripetiamo – a tutta la serie di morti, torture, persecuzioni perpetrate in sei decenni.
Destano dunque molta perplessità le parole di “profondo dolore” espresse per la morte del sanguinario dittatore dal Patriarca ortodosso di Mosca Kirill. Come mai in Russia promuove la campagna per l’abrogazione totale dell’aborto e poi piange l’abortista Fidel?
Federico Catani
Fonte: LifeSiteNews

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Apprendere solo osservando gli altri. Sartre scoprì i «neuroni-specchio»

L'enfer, c'est les autres, sosteneva Jean-Paul Sartre nel dramma “A porte chiuse”, intendendo con questo che se i rapporti con gli altri sono contorti, viziati, allora
l'altro per noi è l'inferno. Vero è anche il contrario perché, nel bene come nel male, noi
ci specchiamo nel volto degli altri e ciascuno ci rimanda qualcosa della nostra immagine contribuendo a farci pensare di noi quel che pensiamo e a diventare poi quello che siamo. Gli altri rappresentano un elemento essenziale per la conoscenza di noi stessi e del nostro stesso io, sosteneva Sartre che con il suo pensiero filosofico era arrivato esattamente là dove, anni dopo, avrebbero portato le ricerche di tre neuroscienziati dell' Università di Parma: Giacomo Rizzolatti, Vittorio Gallese e Leonardo Fogassi con la scoperta «casuale» dei neuroni specchio.
La chiamano Serendipity e la storia della Medicina, a cominciare dalla scoperta della penicillina, ne è abbastanza costellata ma, sicuramente, nel mondo delle Neuroscienze, questa scoperta ha rappresentato una vera e propria rivoluzione copernicana perché ha permesso di indagare su questioni una volta ritenute troppo soggettive e quindi lontane dalla oggettiva indagine scientifica, ponendo le basi neurofisiologiche dell'empatia, dell'amore, del desiderio e della bellezza, dell'identità e delle interazioni sociali. Come dunque il nostro cervello Ci mette in relazione con gli altri? «I neuroni specchio sono cellule motorie che si attivano sia durante l'esecuzione di movimenti finalizzati, sia osservando movimenti simili e seguiti da altri individui» spiega Gallese «In pratica, lo stesso neurone che controlla l'esecuzione di una propria azione risponde anche all' osservazione della stessa azione eseguita da altri». Questo meccanismo, definito di «rispecchiamento» è alla base dei comportamenti mimetici e di apprendimento imitativo. «Analoghi meccanismi sono presenti nel nostro cervello anche per le emozioni e le sensazioni» precisa il neuroscienziato «le stesse aree cerebrali che si attivano quando proviamo dolore o disgusto, oppure esperiamo una sensazione tattile, si attivano anche quando vediamo gli altri provare le stesse emozioni e sensazioni». Secondo Gallese
grazie al meccanismo della «simulazione incarnata» noi abbiamo la possibilità di accedere in parte al mondo dell'altro dall'interno.«L'altro è per noi anche qualcosa di più e di diverso da un oggetto da comprendere e interpretare. L'altro è un altro tu».
Gallese spiega che le Neuroscienze cognitive ci hanno fatto comprendere che il confine tra ciò che chiamiamo “reale” e il mondo immaginario e immaginato è molto meno netto di quanto si potrebbe pensare e che la nostra naturale propensione mimetica si manifesta al sommo grado proprio nell'espressione artistica e nella sua fruizione.
«Quando ci disponiamo a vivere un'esperienza estetica (guardando un quadro, leggendo un romanzo o andando a teatro o al cinema) in qualche modo noi abbassiamo la guardia nei confronti del mondo reale e liberiamo energie che investiamo in emozioni e sentimenti nel rapporto con la finzione narrativa che paradossalmente può dimostrarsi più vivida della realtà della vita quotidiana.
Vedere e immaginare di vedere, agire e immaginare di agire, esperire un’emozione e immaginarsela, si fondano sull'attivazione di circuiti cerebrali in parte identici, grazie alla “simulazione incarnata”». Secondo Gallese, lo stesso vale per stimoli veicolati da strumenti di comunicazione di massa come schermi video, computer, tablet e telefonini che portano ad un ribaltamento delle proporzioni tra reale e virtuale.
«Per milioni di uomini e donne il rapporto con la realtà avviene sempre di più attraverso la sua rappresentazione mediatica ed è reale solo ciò che i mezzi di comunicazione di massa rappresentano. Ciò vale per i telegiornali o i reality shows, come per i social
networks. "Gli errori di valutazione che spesso commettiamo su cosa pensino gli altri derivano almeno in parte dall'essere immersi in un mondo di informazioni condivi se con persone molto simili a noi, quasi tutte scelte da noi. 
Le Neuroscienze, avendo la possibilità di decostruire e comprendere le modalità con cui il corpo si interfaccia col mondo reale e con quello digitalizzato, possono " svelarne il gioco", fornendo strumenti per progettare nuovi contesti e nuove mediazioni e, forse in un futuro futuribile, persino i mattoni con cui realizzarli». (LIBERO, 1 DICEMBRE 2016)

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SCONNETTERSI SI PUÒ

Gli abitanti di Facebook sono 1,7 miliardi, 400 milioni in più rispetto a quelli della Cina. Tre su quattro però non sanno se resteranno ancora a lungo sul pianeta blu. È quanto emerge da una ricerca di Kaspersky Lab condotta su un campione di cinquemila persone in dodici Paesi, Italia compresa, secondo cui il 78 per cento degli utenti ha pensato di chiudere definitivamente il proprio account. Tecnicamente è semplice: per cancellarsi da Facebook basta andare nelle impostazioni e seguire la procedura indicata (stando attenti a rimuovere anche tutte le app collegate e i giochi). Nella pratica è tutto un altro paio di
maniche: chi ci prova è frenato da una serie di «alibi». Il 62 per cento degli utenti teme di non essere più in contatto con amici e parenti, il 21 ha paura di perdere foto e altri ricordi online, il 18 utilizza abitualmente le credenziali di accesso al social per usufruire di servizi sul web. Il 30 per cento, infine, è convinto che, qualsiasi cosa farà, continuerà
a essere spiato dal grande fratello internettiano. Caso per caso, proviamo qui sotto rassicurarli tutti. (VANITY FAIR)

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XAVIER DOLAN, SPECCHIO DEI TEMPI

«Senza lavoro, senza soldi, solo, perennemente fatto, e con capelli orribili»: ecco a voi l’adolescenza di XAVIER DOLAN. Poi, a vent’anni, il successo con il suo primo film.

Ho trascorso anni di niente: non avevo un lavoro, non avevo soldi, vivevo in un piccolo
appartamento ed ero perennemente fatto. I miei amici erano all’università oppure recitavano. Ero solo. Be’, a parte il gatto».

In un’intervista a Vanity Fair, un paio di anni fa disse che desiderava una relazione stabile con un uomo e avere figli. Ha fatto progressi in tal senso?
«Mi piacerebbe, ma a oggi non è successo. Sto cercando di capire se davvero abbia bisogno di stare con qualcuno per avere un bambino».

Potrebbe crescerlo da solo?
«Con un amico. Entrambi desideriamo avere figli e nessuno dei due ha una relazione. Ma è anche vero che prima di potermi prendere cura di un altro dovrei essere in grado di prendermi cura di me stesso. Cosa che non ho fatto negli ultimi otto anni». (VANITY FAIR)

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LO TSUNAMI NEL ROMANZO DI LAURENT MAUVIGNIER…

11 marzo 2011, lo tsunami provocato da un violentissimo terremoto al largo del Giappone fece quasi trentamila morti. Quello stesso giorno però, mentre la tragedia si abbatteva sull’isola del Sol Levante e sulla centrale di Fukushima,
molte altre persone in viaggio ai quattro angoli del pianeta amavano, soffrivano o morivano, magari guardando alla televisione quanto stava accadendo in Giappone. Proprio l’imprevedibile legame tra la catastrofe giapponese e le piccole catastrofi
individuali è al centro del nuovo affascinante romanzo di Laurent Mauvignier,
(Feltrinelli, trad. di Yasmina Mélaouah, pagg. 320, euro 18). Un romanzo come un lungo viaggio che snocciola una quindicina di storie da Gerusalemme a Mosca, dalla Tanzania alla Florida, da Roma a Dubai, dal Mare del Nord alle coste della Somalia. Sfruttando una lingua sempre carica di tensione, lo scrittore francese propone una ricca e variegata tela romanzesca in cui si trova di tutto – amicizia, amore, morte, sesso, follia, violenza, sogni e frustrazioni – e i cui personaggi sono colti nel momento in cui le loro vite giungono a un punto di svolta. Come se la scossa del terremoto giapponese avesse sconvolto anche il loro equilibrio interiore. Insomma, sfruttando il caso e la simultaneità, la circolazione delle informazioni e le differenze di condizione, l’ambizioso romanzo-mondo di Mauvignier si propone come uno specchio di quella globalizzazione in cui tutti siamo immersi. 
«Il romanzo è nato qualche anno fa durante un soggiorno a Villa Medici, a Roma», racconta il romanziere. «Nella vostracapitale s’incrociano i destini di moltissime persone provenienti da tutto il mondo. Lo stesso accade in moltissimi altri luoghi del pianeta. L’umanità non si è mai spostata così tanto».
I continui spostamenti cambiano la nostra relazione con i luoghi e la geografia? «Paradossalmente, la condizione itinerante annulla lo spazio. La velocità e la facilità dei viaggi rendono gli spostamenti quasi inutili, riducendo il mondo a una sequenza di scenografie intercambiabili. Anche nei posti più belli o interessanti i turisti
pensano innanzitutto a farsi i selfie, dimostrandosi spettatori distratti incapaci di cogliere la verità dei luoghi. Quello che però m’interessa è la soggettività dei viaggiatori del XXI secolo, i quali, ovunque vadano, si portano dietro storie, desideri, nevrosi». Come scrive nel romanzo, dietro l’esotismo ritroviamo i nostri terrori...
«Sì, dietro il bisogno di altrove, ci sono le nostre paure. In viaggio poi siamo lontani dai nostri riti quotidiani, perdiamo punti di riferimento e abitudini. Ci ritroviamo in una situazione di vuoto indefinito che favorisce la perdita di equilibrio, l’instabilità, la trasformazione. Forse il viaggio è il sintomo di una svolta possibile».
Molte delle storie presenti nelle sue pagine implicano la fine delle illusioni... «Spesso è così. Si viaggia per colmare un vuoto, per trovare qualcosa che ci manca nella vita, ma non è detto che lo si trovi in un altrove. Dietro i viaggi dei turisti c’è spesso una lacuna o un fallimento da cancellare. C’è qualcosa di misterioso».
Il suo romanzo sembra indicare che nel mondo della circolazione frenetica delle informazioni siamo tutti legati a uno stesso destino? «Certamente. Siamo tutti immersi
nella globalizzazione, anche se ciascuno per conto proprio. Siamo soli e spesso isolati, ma sempre dipendenti gli uni dagli altri. Per questo le storie del mio romanzo non sono singoli racconti indipendenti ma una suite di storie più o meno collegate le une alle altre. Senza dimenticare che in fondo abbiamo tutti le stesse paure, gli stessi desideri, le stesse incertezze. Il denominatore comune dell’umanità e proprio il terreno un po’ arcaico delle sensazioni e dei sentimenti. Che poi è quello che ci permette di capire gli altri anche quando sono molto diversi da noi, a patto però di mostrarsi aperti e disponibili».
Perché ha scelto lo sfondo del terremoto del 2011?
«Quel terremoto spostò di qualche centimetro l’asse della terra e l’onda dello tsunami impiegò un anno a spegnersi completamente dall’altra parte del pianeta. Al di là della catastrofe e delle migliaia di morti, queste due conseguenze esemplificano perfettamente il fatto che siamo tutti legati a un’unica realtà dove tutto circola. Quello che accade in Giappone ha un impatto sulla vita di chi sta dall’altra parte del pianeta».
Il denominatore comune è la tragedia? «Più che la tragedia m’interessava la sensazione di un’urgenza che nasce dalla possibilità di una catastrofe imminente, sensazione oggi molto diffusa. Viviamo come se ad ogni istante la terra potesse venirci a mancare sotto i piedi, proprio come durante un terremoto».
La globalizzazione oggi fa sempre più paura, tanto che si moltiplicano i muri reali e simbolici che cercano di limitarne gli effetti... «La cosa più inquietante è che si sta tornando all’idea che le differenze siano insormontabili, motivo per cui non sarebbe più
possibile comprendere gli altri».
Sulla scrivania ha una frase di Kafka: «Se un libro non ci sveglia con una botta sulla testa, perché leggere?». «Mi sembra una bella frase. I libri devono essere esperienze forti.
Devono lasciare una traccia in noi, devono cambiarci almeno un po’. Molti libri appena letti vengono subito dimenticati, altri però ci aiutano a cambiare il nostro modo di vedere il mondo e di resistergli. Mi piacerebbe che i miei romanzi appartenessero almeno in parte a questa seconda categoria». (LA REPUBBLICA, 1 DICEMBRE 2016)


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I bambini intelligenti? Non usano il tablet ma si sporcano nel fango e sI arrampicano sugli alberi

 

Secondo una ricerca condotta di recente, è emerso che un bambino su dieci oltre ad ignorare i comunissimi giochi come un-due-tre stella, campana, palla avvelenata, non sa andare in bici e non si è mai arrampicato su di un albero.
Tantissimi bambini passano, piuttosto, interi pomeriggi in casa, davanti al computer o alla televisione, perdendo tutta una serie di esperienze all’aperto estremamente importanti per la loro crescita. Nello specifico, la ricerca si è concentrata sulle abitudini di 12.000 famiglie con bambini di età compresa tra i 5 e i 12 anni; in più di dieci paesi è risultato che i bambini giocano all’aria aperta in media 30 minuti al giorno.
Negli Stati Uniti quasi il 50% dei bambini in età prescolare esce a giocare fuori casa solo alcuni giorni a settimana. Non cambia di molto la situazione sposandosi nel Regno Unito: il 20% dei bambini non ha mai provato ad arrampicarsi su un albero e il 64% gioca all’aperto anche meno di una volta alla settimana. Secondo quanto messo in luce, non esiste alcuna correlazione tra il tempo trascorso a giocare all’aperto, il reddito delle famiglie o la percezione del livello di sicurezza del vicinato. È una tendenza generale che esula dallo status socio-economico: sostanzialmente, i genitori non vogliono che i propri figli si sporchino nel fango, giochino da soli con altri bimbi o si arrampichino sugli alberi.
I bambini di oggi, diversamente dai bambini di un tempo, da adulti, sicuramente, non avranno ricordi d’infanzia legati al divertimento e giochi all’aria aperta. Allo stato attuale, soltanto il 21% dei bambini gioca all’aria aperta tutti i giorni, nonostante al 71% dei loro genitori veniva concesso.
Purtroppo, questa privazione è realmente penalizzante per i bambini. Giocare all’aperto con altri coetanei, sporcarsi di terra e fango, sono attività che, oltre a rendere i bambini più felici e attivi, hanno una positiva incidenza sulla loro salute e sul loro sviluppo fisico-emotivo. La sedentarietà dei bambini non è una loro scelta. In moltissimi casi, si tratta di genitori stanchi di mille altre attività che, per pigrizia, preferiscono restare in casa con i loro figli per occuparsi della gestione della casa e della vita familiare in generale. I bambini, piuttosto, devono essere spronati, quanto più possibile, a vivere e a giocare a contatto con la natura e con i coetanei, devono poter esplorare e sperimentare nuove attività.
La sicurezza, la salute, la pulizia sono soltanto scuse dei genitori per evitare ai bambini di fare particolari attività. Se i vestiti si sporcano…a casa si lavano! Il giusto compromesso è sorvegliarli, lasciandoli liberi di fare nuove esperienze. La natura, con i suoi parchi e boschi, rappresenta per i bambini, senza alcuna ombra di dubbio, un ambiente sano, ricco di stimoli e sfide, in grado di dare libero sfogo alla loro fantasia, grazie alla quale riusciranno a creare una moltitudine infinita di giochi e attività.
Perché i bambini devono giocare all’aria aperta e con i coetanei? Ci sono tantissime buone e valide ragioni perché i più piccoli trascorrono del tempo a giocare all’aperto con i loro coetanei. Giocare all’aperto rappresenta un’ottima lezione di vita per il bambino: può imparare ad autocontrollarsi, a risolvere i problemi, a prendere decisioni, a seguire le regole… Ad esempio, comprenderà che per essere accettato dal gruppo dovrà, non solo rispettare determinate regole, ma dovrà anche controllare alcuni dei suoi comportamenti. Con i coetanei, giocando all’aria aperta, spesso il bambino si troverà in situazioni difficili. Se vorrà uscirne a testa alta, deve necessariamente imparare a gestire le emozioni. Se esempio, vorrà arrampicarsi su un albero, inizialmente avrà paura, ma se sarà di fronte ai suoi amici, riuscirà a dominarla.
Quando un bambino gioca fuori casa sicuramente si sente molto più libero, ecco perché preferisce dedicarsi a giochi esclusivamente frutto della immaginazione, creatività ed intelligenza. Tutto quello che si incontra nella natura stimola l’immaginazione dei bambini: non si tratta di giocattoli concepiti per un uso specifico, piuttosto di cose che possono essere utilizzate a seconda della creatività di ognuno. Ecco perché i bambini che giocano all’aria aperta imparano ad apprezzare sin da subito le piccole cose della vita e ad essere responsabili e indipendenti. Quando il bambino gioca all’aperto con i coetanei, è lontano dai genitori; mancando la figura del mediatore adulto, imparerà a risolvere i suoi problemi da solo ma a sbagliare a sue spese, almeno finchè non troverà la soluzione giusta ai suoi bisogni. Tutto questo lo aiuterà a diventare un adulto più sicuro e consapevole. Nel gioco libero e non guidato, i bambini possono esplorare i loro interessi senza alcuna pressione.
Il bambino, senza la continua supervisione degli adulti, potrà sviluppare, più facilmente, le sue competenze sociali, sarà più empatico e sensibile. Il gioco sociale sarà un modo naturale per fare nuove amicizie, permetterà lui di imparare a stare con gli altri, di relazionarsi con gli altri in modo equo; gli permetterà di capire che per divertirsi ha bisogno di stare con i suoi compagni di gioco. Il gioco non è soltanto un’attività importante per lo sviluppo, è la fonte primaria della felicità, del benessere e della soddisfazione. Il gioco all’aperto libera l’energia del bambino e crea in lui una piacevole sensazione di serenità e tranquillità. Secondo quanto emerso da uno studio condotto presso la Cornell University, i bambini che vivono in città e che trascorrono poco tempo a contatto con la natura hanno livelli più elevati di ansia e stress, rispetto a quelli che vivono in zone rurali, i quali, a loro volta, anche molto più resistenti alle avversità.
A tal proposito, due scrittrici britanniche, Jo Schofield e Fiona Danks, hanno scritto di recente un libro intitolato “Go Wild -101 things to do outdoors before you grow up” (che tradotto significa “101 cose da fare all’aria aperta prima di diventare troppo grande”). Nel libro sono raccolte tutte le attività che i bambini possono fare usando la natura come vera e propria area giochi. Le attività spaziano da quelle più tradizionali a quelle più innovative quali nascondino, campana, palla avvelenata, mosca cieca, un- due -tre stella, ecc. Inoltre, per convincere i bambini a schiodarsi dal divano, pc e/o tv, gli Esperti del National Trust (Fondazione britannica nata per tutelare gli spazi verdi e i luoghi storici del Regno unito), considerate le basse percentuali di bambini che giocano all’aperto (1 su 10), hanno stilato un divertente elenco di attività da fare assolutamente prima dei 12 anni, tutte rigorosamente all’aperto.
Solo per citarne qualcuna:
Arrampicarsi su un albero;
Costruire un rifugio,
Far volare un aquilone,
Correre sotto la pioggia,
Lanciare palle di neve,
Rotolarsi giù per una collina,
Organizzare una caccia al tesoro
Mantenersi in equilibrio sul tronco di un albero caduto,
Correre a braccia aperte a mo’ di deltaplano….ecc.
http://www.scuola.store/


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