DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

I SEGNI. 27 Novembre 2018


27 NOVEMBRE BEATA VERGINE DELLA MEDAGLIA MIRACOLOSA. QUELLA CHE SANTA TERESA DI CALCUTTA PORTAVA SEMPRE CON SE' E DISTRIBUIVA A TUTTI 

“Una preghiera semplice e sublime insieme che l’Immacolata stessa, apparendo a Lourdes ha indicato, è il santo rosario. Esso divenga la spada di ogni persona che si affida all’Immacolata, così come la medaglietta (la Medaglia Miracolosa) è la pallottola che abbatte ogni male”. San Massimiliano Maria Kolbe


L' origine della Medaglia Miracolosa ebbe luogo il 27 novembre 1830, a Parigi in Rue du Bac. La Vergine SS. apparve a Suor Caterina Labouré delle Figlie della Carità di S. Vincenzo de Paoli, era in piedi, vestita color bianco-aurora, con i piedi su un piccolo globo, con le mani tese le cui dita gettavano fasci di luce.

La stessa suor Caterina ci racconta l'episodio dell'apparizione:
"
Il 27 novembre 1830, che era il sabato antecedente la prima domenica di Avvento, alle cinque e mezza del pomeriggio, facendo la meditazione in profondo silenzio, mi parve di sentire dal lato destro della cappella un rumore, come il fruscio di una veste di seta. Avendo volto lo sguardo a quel lato, vidi la Santissima Vergine all'altezza del quadro di San Giuseppe.

Il viso era abbastanza scoperto, i piedi poggiavano sopra un globo o meglio sopra un mezzo globo, o almeno io non ne vidi che una metà. Le sue mani, elevate all'altezza della cintura, mantenevano in modo naturale un altro globo più piccolo, che rappresentava l'universo. Ella aveva gli occhi rivolti al cielo, e il suo volto diventò splendente mentre presentava il globo a Nostro Signore. Tutto ad un tratto, le sue dita si ricoprirono di anelli, ornati di pietre preziose, le une più belle delle altre, le une più grosse e le altre più piccole, le quali gettavano dei raggi luminosi.

Mentre io ero intenta a contemplarla, la Santissima Vergine abbassò gli occhi verso di me, e si fece sentire una voce che mi disse: "Questo globo rappresenta tutto il mondo, in particolare la Francia e ogni singola persona...". Io qui non so ridire ciò che provai e ciò che vidi, la bellezza e lo splendore dei raggi così sfolgoranti!... e la Vergine aggiunse: "I raggi sono il simbolo delle grazie che io spargo sulle persone che me le domandano", facendomi così comprendere quanto è dolce pregare la Santissima Vergine e quanto Ella è generosa con le persone che la pregano; e quante grazie Ella accorda alle persone che le cercano e quale gioia Ella prova a concederle.

Ed ecco formarsi intorno alla Santissima Vergine un quadro alquanto ovale, sul quale, in alto, a modo di semicerchio, dalla mano destra alla sinistra di Maria si leggevano queste parole, scritte a lettere d'oro: "O Maria, concepita senza peccato, prega per noi che ricorriamo a te".
Allora si fece sentire una voce che mi disse: "Fa' coniare una medaglia su questo modello; tutte le persone che la porteranno riceveranno grandi grazie; specialmente portandola al collo. Le grazie saranno abbondanti per le persone che la porteranno con fiducia".
All'istante mi parve che il quadro si voltasse e io vidi il rovescio della medaglia. Vi era il monogramma di Maria, ossia la lettera M sormontata da una croce e, come base di questa croce, una spessa riga, ossia la lettera I, monogramma di Gesù, Jesus. 


 
In questo inesauribile piccolo "libro" della Madonna che è la Medaglia Miracolosa, troviamo anche una semplice, ma magnifica lezione "teorico-pratica" sulla tentazione. Maria si presenta a noi nell'atto di trionfare sulla tentazione e sul male: sotto i suoi piedi c'è il serpente, simbolo e sorgente dei nostri peccati, delle nostre ribellioni, dei nostri no a Dio. La tentazione è una prova e, in questo senso può essere permessa da Dio. Alcune volte, poi, è Lui stesso che ci mette alla prova. Come un orefice prova i suoi metalli preziosi col fuoco per saggiarne l'autenticità, così Dio prova la fedeltà dei suoi figli e le loro virtù anche con le sofferenze, per renderli più forti e per dare a loro una ricompensa ancora più grande, una gioia infinita che ripaga di ogni pena. La Madonna della Medaglia Miracolosa ci viene vicino e ci suggerisce i mezzi per vincere le tentazioni. 

1) Evitare le occasioni. La prudenza è una virtù che è stata praticata anche da Maria. Lei, che poggia i piedi sulla terra, schiaccia il serpente perché è ancorata a Dio: nell'apparire come la Madonna del Globo, Maria volge gli occhi e le mani al Cielo.
2) Meditare i dolori di Gesù e Maria, simboleggiati dalla Croce e dai due Cuori nel retro della Medaglia.
3) Avere un grande amore e una grande devozione all'Eucarestia, comunicandosi spesso, cosa che presuppone anche la confessione frequente.
4) Seguire la guida di un confessore che possibilmente sia sempre lo stesso. Questo ha raccomandato la Vergine anche a suor Caterina nella prima apparizione, insegnandole ad aver fiducia e a confidare tutto al suo confessore.
5) Ripetere spesso, specialmente nei momenti di più forte tentazione, la giaculatoria che Lei stessa ci ha insegnato, chiedendole, di aiutarci a vincere, ad ogni costo, per essere suoi veri figli e per dar gloria al Signore. Il solo pensiero di Maria, facilitato dalla Medaglia, è uno dei mezzi più efficaci contro la tentazione. Fra i raggi che partono dalle sue dita ci sono anche quelli che simboleggiano la grazia che Dio ha posto nelle Sue mani per aiutarci a vincere le tentazioni. Ma dobbiamo domandarla, questa grazia, perché scenda efficace sulle nostre anime! Non chiediamo solo ciò che si vede e che si tocca. Ma, se vogliamo sempre più svincolarci dal serpente e resistere alle sue seduzioni, è necessario fare un passo avanti: dobbiamo gettarci fra le braccia di Maria, dobbiamo stringerci al suo Cuore: là il serpente non potrà mai raggiungerci. La consacrazione realizza questa speciale unione con lei. Questo è il significato del globo che la Vergine tiene fra le mani, come una madre che stringe a sé e offre a Dio il suo bambino, per difenderlo dal pericolo. E se la tentazione dura e la lotta si fa più difficile, guardiamo il Cielo dove Maria ci aspetta: le stelle rappresentano il Cielo aperto, il Paradiso; là il Signore ci ha preparato un posto e là Maria ci vuol portare. San Francesco diceva: "Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto". Come l'Immacolata, teniamo anche noi gli occhi fissi al Cielo, senza dimenticare la terra nella quale dobbiamo dare testimonianza di vita cristiana, di generosità e di perdono; guardiamo a Lei che ci incoraggia, che ci sostiene nei nostri sforzi e ci premia per le nostre vittorie unendoci sempre più intimamente al suo Figlio Gesù. 

Impegno: Sotto lo sguardo di Maria, guardiamo alla nostra vita, alle nostre scelte, ai piccoli e grandi "no" che per debolezza o per egoismo diciamo a Dio e proponiamoci di fare al più presto una buona confessione. 
 
O Maria concepita senza peccato, prega per noi che ricorriamo a te. (Fonte: Preghiere a Gesù e Maria)


PER APPROFONDIRE

CATECHESI SU SANTA CATERINA LABOURE' DEL PADRE SICARI 

https://youtu.be/ERtgPlRXj8c

VITA DI SANTA CATERINA LABOURE' 

http://www.preghiereagesuemaria.it/santiebeati/vita%20di%20caterina%20laboure.htm 

LA MEDAGLIA MIRACOLOSA

http://www.cmroma.it/index.php?option=com_content&view=article&id=70&Itemid=180





PAPA: LA GENEROSITA' DELLE PICCOLE COSE ALLARGA IL CUORE, IL CONSUMISMO E' UNA MALATTIA 

Noi possiamo fare miracoli con la generosità. La generosità delle piccole cose, poche cose. Forse non facciamo questo perché non ci viene in mente. Il messaggio del Vangelo ci fa pensare: come posso essere io più generoso? Un po’ di più, non tanto … “E’ vero, Padre, è così ma … non so perché ma sempre c’è la paura …”. Ma, c’è un’altra malattia, che è la malattia contro la generosità, oggi: la malattia del consumismo. E consiste nel comprare, sempre, cose. Francesco ricorda che quando viveva a Buenos Aires “ogni fine-settimana c’era un programma di turismo-shopping”: si riempiva l’aereo il venerdì sera e si andava in un Paese a circa dieci ore di volo e tutto il sabato e parte della domenica si passava a comprare nei supermercati. Poi si tornava. Una malattia grossa, (quella) del consumismo, di oggi! Io non dico che tutti noi facciamo questo, no. Ma il consumismo, lo spendere più di quello di cui abbiamo bisogno, una mancanza di austerità di vita: questo è un nemico della generosità. E la generosità materiale – pensare ai poveri, “questo posso dare perché possano mangiare, perché si vestano” – queste cose, ha un’altra conseguenza: allarga il cuore e ti porta alla magnanimità. Si tratta, quindi, di avere un cuore magnanimo dove tutti entrano. “Quei ricchi che davano i soldi erano buoni; quella vecchietta era santa”, evidenzia il Papa che, in conclusione, esorta a percorrere il cammino della generosità, iniziando con “un’ispezione a casa”, cioè pensando a “cosa non serve a me, cosa servirà a un altro, per un po’ di austerità”. Bisogna pregare il Signore “perché ci liberi” di quel male tanto pericoloso che è il consumismo, che rende schiavi, una dipendenza dallo spendere: “è una malattia psichiatrica”. “Chiediamo - esorta - questa grazia al Signore: la generosità, che ci allarga il cuore e ci porti alla magnanimità”.

https://www.vaticannews.va/it/papa-francesco/messa-santa-marta/2018-11/papa-francesco-santa-marta.html?fbclid=IwAR2kQIpjh6ciidLC3VsBEOIPWIR4bs6b-hp6vR5l7t5HjBjrYB600SVHkcI


ALESSANDRO D'AVENIA: LEZIONI DALLA LUNA

La prima lezione che la Luna mi ha dato è che la vita è un compimento mai del tutto acquisito. Nella sua fase crescente la Luna ci ricorda che la fragilità è vitale: niente nasce già fatto, ma la nascita inaugura un paziente viaggio verso la pienezza. La perfezione (parola che significa compiutezza e non assenza di difetti) non è pero terrena, perché il desiderio umano è infinito mentre la vita è finita. Oggi l’essere «mancanti» spesso viene preso per essere «mancati», falliti: la nostra costitutiva fragilità, invece di essere accettata come inizio di quella ricerca e di quell’impegno che riempiono di senso la vita, viene vissuta come colpa da rimuovere. L’io insoddisfatto cerca di eliminare la sua incompletezza con le prestazioni: deve dimostrare che il suo esser nato ha un senso, quando è proprio il suo esser nato che gli conferisce un senso, cioè una direzione verso il compimento di un io che non c’è mai stato prima. La vita è tendere non pretendere: è proprio la mancanza che porta a evolversi, creare, amare di più. Che cosa ti manca?

La seconda lezione che la Luna mi ha regalato è che anche nella mutevolezza c’è stabilità. Un tempo il calendario era dettato dai mesi lunari: in 29 giorni, 12 ore, 44 minuti e 3 secondi la Luna, con incantevole regolarità, compie due noviluni. La realtà, nella sua molteplicità e mutevolezza, si regge su una stabilità che ci protegge, e che infatti definiamo in «leggi». Anche a noi a volte capita di perdere il filo della trama della vita: ci sfugge o si aggroviglia. Ma quale «legge» ci dà senso e ci permette di dire «questo sono io», sempre e comunque, anche quando ci perdiamo? La memoria. Le cose che sono lì conservate regolano la vita: la memoria ci garantisce continuità e novità, perché solo la consistenza del passato consente di agire per il futuro nel presente. Solo l’accettazione degli eventi negativi e la gratitudine per le cose belle può trasformare il destino in una destinazione. Spesso ci illudiamo di aver bisogno di una rivoluzione per ricominciare, ma il futuro sta dietro e dentro di noi: le piante crescono potando i rami non tagliando le radici, anzi nutrendole. I ragazzi smarriti sono quelli senza radici, senza maestri che li radicano alla vita. Chiedete loro: chi sono i tuoi maestri? E saprete il loro futuro.


La Luna poi ci racconta anche che la bellezza è inscindibile dalle ombre: l’ombra terrestre può persino eclissarla, ma in realtà è sempre lì, intera. Ci sono giorni in cui l’ombra offusca i volti delle persone a cui vogliamo bene e non le riconosciamo più, e rende opache le nostre relazioni, stanche e ripetitive. È una costante delle relazioni significative: eppure l’altro è ancora intatto e da raggiungere con una nuova missione, rinnovando lo sguardo che l’abitudine ha accecato. Noi smettiamo di vedere quando ostacoliamo la luce che cose e persone meritano, siamo noi stessi a far loro ombra, come la Terra con la Luna. Ma proprio grazie alle ombre impariamo a rinnovare i gesti, a ri-conoscere e ri-trovare cose e persone. Quando una relazione — d’amore, d’amicizia, educativa — si adombra è per richiamarci a guardare l’altro con più attenzione, a chiederci di cosa abbia bisogno, a ostacolare meno la luce con le nostre ingombranti aspettative. L’ombra non è la morte della relazione ma la sfida lanciata dall’amore proprio perché si rinnovi.


La quarta lezione è che la Luna, per quanto appaia mutevole, in realtà ci rivolge sempre la stessa faccia, con gli stessi crateri e rilievi, perché il suo moto di rivoluzione e di rotazione sono sincroni: un giro su se stessa dura lo stesso tempo di un giro completo intorno alla Terra. Della sua bellezza noi conosciamo solo una faccia, e per questo poeti e registi le attribuiscono un volto. Ma una parte resta sempre inafferrabile. Quando ci assestiamo su pregiudizi e false convinzioni, la vita si incarica di porre domande a cui non avremmo mai pensato di dover rispondere. A furia di guardare sempre la stessa faccia della vita, ne dimentichiamo il lato fatto di tutto ciò che non abbiamo pre-visto, ricordandoci che la vita è sempre più grande dei nostri schemi, del nostro limitato punto di vista, legato all’adesso, al «tra cinque minuti». Allora dobbiamo affidarci allo sguardo di chi ha indagato la faccia invisibile, il mistero della vita, per lo più i poeti: quando li avete letti l’ultima volta?


I PRIMI BAMBINI GENETICAMENTE MODIFICATI SONO NATI IN CINA. USATI COME CAVIE UMANE 

Il professore He Jiankui a Shenzhen ha fatto nascere due gemelli con un gene modificato perché diventassero immuni all’Hiv. Ma secondo gli esperti «l’Aids è solo una scusa per sperimentare la tecnologia»  

Il genetista He Jiankui, dell’università di Scienza e tecnologia di Shenzhen, ha modificato il Dna di Lulu e Nana con tecnologia Crispr/Cas9 per renderlo immune all’Hiv. Undici embrioni sono andati sprecati in tentativi falliti. La notizia è stata riportata dall’Associated Press, che ha anche intervistato il professore in esclusiva.
Nessuno prima d’ora aveva mai sperimentato la tecnologia Crispr, vietata negli Stati Uniti, su esseri umani, che potrebbero anche essere definiti “cavie”. «Sento una forte responsabilità: non voglio solo essere il “primo” a fare qualcosa, ma rappresentare un esempio», dichiara He all’Ap. Il genetista non si esprime sulla liceità del suo operato, perché «sarà la società a decidere che cosa farne».
Dopo anni passati a modificare il Dna di ratti, scimmie ed embrioni in laboratorio, ha deciso di fare il grande salto, cercando famiglie disposte a prestarsi all’esperimento. Le ha trovate attraverso un’agenzia di Pechino, chiamata Baihualin. Ventidue embrioni sono stati fabbricati in laboratorio utilizzando sperma e ovuli di sette coppie. Tra il terzo e il quinto giorno di vita degli embrioni, alcune cellule sono state rimosse e modificate geneticamente. Su 22 embrioni, 16 sono stati modificati geneticamente e 11 sono andati sprecati. Una coppia di gemelli è nata, anche se solo uno dei due presenta entrambe le copie del gene in questione (CCR5) “corrette” nel modo giusto. L’altro ha solo una copia del gene corretto e può, secondo il genetista, contrarre il virus Hiv come le altre persone. Il professor He non ha sottoposto lo studio ad alcun organismo indipendente. Gli scienziati che hanno visionato le carte fornite dal genetista, attraverso l’Ap, spiegano che i test fatti sono insufficienti per dire che l’esperimento abbia funzionato e per essere certi che non ci saranno danni dovuti all’esperimento. Nessuno sa, infatti, che cosa potrebbe succedere dopo la modifica del Dna, che potrebbe essere trasmesso alle future generazioni. Il professor He ha studiato alla Rice e Stanford University, negli Usa, poi si è trasferito in Cina, dove ha aperto un laboratorio a Shenzhen e messo in piedi due aziende che si occupano di genetica. Il suo socio nella ricerca è anche suo socio in affari, il professore americano Michael Deem, che lo seguiva nell’università americana dove ha studiato. «Questo si può a malapena chiamare editing genetico», commenta il famoso genetista George Church, della Harvard University. «Almeno un gemello presenta un miscuglio di cellule e ha solo una copia del CCR5 corretto». Questo bambino «non ha alcun vantaggio in termini di protezione contro l’Hiv ma è stato lo stesso esposto a rischi sconosciuti». Tutto questo suggerisce che «l’obiettivo principale non era evitare una malattia ma sperimentare una tecnologia» su cavie umane.
Inoltre, continua, chi non possiede i normali geni CCR5 ha più probabilità di contrarre altri virus, come quello del Nilo occidentale, e morirne. Per Kiran Musunuru, dell’università della Pennsylvania, «sono stati esposti bambini a un rischio inutile visto che ci sono molti modi efficaci per non contrarre l’Hiv e anche una volta infettati, il virus è trattabile a livello medico». Non è chiaro neanche lo scopo del progetto, visto che sul consenso informato dato alle coppie c’è scritto: “Sviluppo del vaccino per l’Aids”. Per quanto riguarda le coppie, non è chiaro se abbiano ricevuto un compenso: sicuramente il trattamento di inseminazione artificiale è stato loro “offerto”. «Se succederà qualcosa a questi bambini, proverò un profondo dolore. E la responsabilità sarà tutta mia», continua He. Questo è l’unico punto su cui non ci sono dubbi. Mentre su tanti altri, restano enormi punti interrogativi.


La storia della giovane ebrea olandese, morta ad Auschwitz 75 anni fa, che scriveva: «una volta che si comincia a camminare con Dio si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata»

Si vorrebbe esser un balsamo per molte ferite». Con queste parole si conclude il Diario scritto da Etty Hillesum, giovane ebrea olandese che il 7 settembre 1943 fu deportata ad Auschwitz dove morì, secondo un rapporto della Croce Rossa, il 30 novembre 1943, 75 anni fa. Di lei Benedetto XVI, ricordando a tutti che «la grazia di Dio è al lavoro e opera meraviglie nella vita di tante persone», disse: «Inizialmente lontana da Dio […], nella sua vita dispersa e inquieta Etty Hillesum Lo ritrova proprio in mezzo alla grande tragedia del Novecento, la Shoah. Trasfigurata dalla fede, si trasforma in una donna piena di amore e di pace interiore, capace di affermare: “Vivo costantemente in intimità con Dio”».  

Non ancora conosciuto come meriterebbe, il “Diario” (pubblicato in edizione ridotta e integrale da Adelphi, insieme al volume delle “Lettere”), consente di scoprire un seme di agape che, insieme ad altri, fu impiantato nel grembo insanguinato della storia del Novecento; un seme buono che può accompagnare e sostenere in modo speciale gli uomini e le donne del nostro tempo.  

Come una pattumiera  

Etty Hillesum era nata nel 1914 in Olanda, a Middelburg, in una famiglia ebrea non praticante. Trasferitasi ad Amsterdam, si era laureata in Legge e cominciava a studiare lingue slave e a dare lezioni di russo (la lingua della madre). Era una giovane donna colta, vivace, curiosa. E molto irrequieta. Dotata di grande capacità introspettiva, all’inizio del Diario (nel 1941), si descriveva con queste parole: «Io voglio qualcosa e non so che cosa. Di nuovo mi sento presa da una grandissima irrequietezza e ansia di ricerca, tutto è in tensione nella mia testa. […] Nel profondo di me stessa, io sono come prigioniera di un gomitolo aggrovigliato, e con tutta chiarezza di pensiero, a volte non sono altro che un povero diavolo impaurito. […] A volte mi sento proprio come una pattumiera; sono così torbida, piena di vanità, irrisolutezza, senso di inferiorità. Ma in me c’è anche onestà, e un desiderio appassionato, quasi elementare di chiarezza e di armonia tra esterno e interno».  

La gratitudine  

Intenzionata a mettere ordine nel suo caos interiore, Etty si rivolse a un allievo di Jung – Julius Spier – ebreo, fondatore della psicochirologia (scienza che analizzando le mani studia la persona), con il quale poi visse una relazione sentimentale. Alla morte di quest’uomo, da lei battezzato «l’ostetrico della sua anima», gli dedicò queste parole: «Tu mi hai insegnato a pronunciare con naturalezza il nome di Dio. Sei stato l’intermediario tra Dio e me […]. Ora sarò io l’intermediaria per tutti quelli che potrò raggiungere». La limpida gratitudine verso Spier, espressa in molti passi del Diario, contrasta l’odierna pressione culturale a “farsi da sé senza vincoli né debiti con alcuno” e invita a onorare e ringraziare quanti, ad ogni generazione, insegnano “a pronunciare il nome di Dio” consegnando un tesoro del quale poi ciascuno, a propria volta, ha la responsabilità nei confronti di altri.  

Purché tu mi tenga per mano  

Mentre la guerra infuriava e le condizioni di vita si facevano sempre più drammatiche per gli ebrei olandesi, le pagine del Diario restituiscono il percorso interiore di Etty, il suo volgersi a Dio e la fiducia con cui si abbandona a Lui: «Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo purché tu mi tenga per mano andrò dappertutto allora, e cercherò di non avere paura. E dovunque mi troverò, io cercherò di irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. […] Una volta che si comincia a camminare con Dio si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata». 

L’agape di Dio  

La preghiera, per Etty (lettrice attenta della Bibbia), non si configura come un ripiegamento narcisistico su di sé né come ricerca di una appagante relazione con Dio in cui immergersi ignorando il patire altrui. Sotto questo aspetto la sua esperienza aiuta a individuare la distorsione in cui oggi può incorrere la preghiera: nella nostra epoca, minata da un dilagante narcisismo, la preghiera è esposta al rischio di trasformarsi in una tecnica di autorassicurazione psicologica, una pratica da mettere in atto per raggiungere il benessere, per “stare bene con se stessi” (ormai diventato il diktat ossessionante delle società occidentali). Pregare significava, per Etty, coinvolgersi nella dinamica dell’agape di Dio per tutti i Suoi figli: «Dobbiamo abbandonare le nostre preoccupazioni per pensare agli altri, che amiamo. Voglio dir questo: si deve tenere a disposizione di chiunque si incontri per caso sul nostro sentiero, e che ne abbia bisogno, tutta la forza e l’amore e la fiducia in Dio che abbiamo in noi stessi e che ultimamente stanno crescendo meravigliosamente in me. O l’uno o l’altro: o si pensa solo a se stessi e alla propria conservazione, senza riguardi, o si prendono le distanze da tutti i desideri personali e ci si arrende. Per me, questa resa non si fonda sulla rassegnazione che è un morire, ma si indirizza là dove Dio per avventura mi manda ad aiutare come posso».  

La vita ricca di significato  

Intanto la repressione per gli ebrei olandesi era diventata durissima: i nazisti cominciarono a condurli nel campo di smistamento di Westerbork, ultima tappa prima di Auschwitz. Nel luglio del 1942 Etty iniziò a lavorare in una sezione del Consiglio Ebraico, organizzazione che faceva da cuscinetto tra i nazisti e gli ebrei: poco tempo dopo domandò di essere trasferita a Westerbork per prestare assistenza alle persone in transito, tornando alcune volte ad Amsterdam anche per ragioni di salute. Era chiara in lei la consapevolezza del destino che attendeva il suo popolo: «Bene, io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Non darò più fastidio con le mie paure, non sarò amareggiata se altri non capiranno cos’è in gioco per noi ebrei. Continuo a lavorare con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato». Le pagine del Diario ripetutamente restituiscono la celebrazione della vita: «Di minuto in minuto desideri, necessità, legami si staccano da me, sono pronta a tutto, a ogni luogo di questa terra nel quale Dio mi manderà. Sono pronta a ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella». 
 
Aprire la via a Dio  

Nel luglio del 1943 i nazisti stabilirono che la metà dei membri del Consiglio Ebraico presenti nel campo rientrasse ad Amsterdam, mentre l’altra metà avrebbe dovuto restare senza poter più uscire. Etty, che pure avrebbe potuto cercare salvezza nascondendosi, scelse di restare. Voleva prendersi cura di quella umanità dolente e spaventata: «Quanto sono grandi le necessità delle tue creature terrestri, Dio mio. Ti ringrazio perché lasci che tante persone vengano a me con le loro pene: parlano tranquille e senza sospetti e d’un tratto vien fuori tutta la loro pena e si scopre una povera creatura disperata che non sa come vivere. E a quel punto cominciano i miei problemi. Non basta predicarti, mio Dio, non basta disseppellirti dai cuori altrui. Bisogna aprirti la via, mio Dio, e per far questo bisogna essere un gran conoscitore dell’animo umano. I miei strumenti per aprirti la strada negli altri sono ancora ben limitati. Ma esistono già, in qualche misura: li migliorerò pian piano e con molta pazienza».  

Ogni atomo di odio  

In un tempo come il nostro – nel quale toni ringhiosi e parole di odio paiono diffondersi come un virus malefico – Etty sostiene e incoraggia quella moltitudine immensa di uomini e donne che anche oggi – ovunque sulla terra – con letizia, e non senza molti sacrifici, seminano quotidiane opere di agape: quelle infinite forme della custodia, dell’accudimento, della dedizione che tengono in piedi il mondo e che sono incanti quotidiani: mediaticamente invisibili, esistenzialmente decisivi. Annotava Etty: «L’assenza di odio non significa di per sé assenza di un elementare sdegno morale. So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più corta e a buon mercato? Laggiù (a Westerbork) ho potuto toccare con mano come a ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo si renda ancora più inospitale. E credo anche, forse ingenuamente ma ostinatamente, che questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto».  

Sino all’ultimo respiro  

Mostrando la convinzione che l’umanità formi una catena i cui anelli sono saldati gli uni agli altri, Etty pensava anche a quanti sarebbero venuti dopo di lei e scriveva: «Ho il dovere di vivere nel modo migliore e con la massima convinzione, sino all’ultimo respiro: allora il mio successore non dovrà più ricominciare tutto da capo, e con tanta fatica». Tutti gli esseri umani nascono “in debito” con altri e sono destinati a vivere “in favore” di altri: nel Diario di Etty questa verità granitica dell’umano risplende.