DISCERNERE
Uno sguardo profetico sugli eventi
Elogio del confessionale. Mezzo di disciplina spirituale e morale, altro che la morbosità delle Iene
Per i credenti è un luogo sacro dove si dicono
i propri peccati e se ne chiede la remissione.
Per chi non crede può essere un
posto ambiguo, anche spaventevole. Perché
lì si dice tutto di sé, più o meno come
dallo psicoanalista. Perché lì, a volte, c’è
chi va oltre il consentito. Il New York Times
lo scorso 25 marzo ha parlato degli
abusi su minori commessi dal reverendo
Lawrence Murphy proprio nel confessionale.
Padre Marcial Maciel Degollado, il
fondatore dei Legionari di Cristo, pare
usasse il confessionale per assolvere i discepoli
coi quali aveva avuto rapporti. Le
Iene tre giorni fa hanno fatto vedere su
Italia1 un video girato con una telecamera
nascosta: un presunto “prete molestatore”
cerca di abusare di un ragazzo. Immagini
che impressionano, tanto che ieri
il direttore di Avvenire Marco Tarquinio
ha scritto alle Iene per chiedere loro di
dire la verità: se il “prete molestatore”
esiste davvero “sputate fuori il nome e farete
un servizio alla verità”, altrimenti il
gioco è sporco. Monsignor Gianfranco Girotti,
numero due della Penitenzieria apostolica
(è l’organo vaticano che da secoli
assegna grazie, attribuisce dispense, sanzioni
e condoni) dice che il confessionale
è un luogo “dove si esercita un sacramento
con regole certe”. “Il prete e il penitente
sono collocati in compartimenti separati
e parlano tramite una grata traforata.
La norma è ancora quella. E anche se non
c’è relazione tra la prassi introdotta dopo
il Concilio Vaticano II, con molte confessioni
in confessionali senza grata, e i casi
di abusi commessi in queste circostanze
da dei preti, occorre ricordare che nessuno
ha mai abolito la grata”. Perché allora
c’è chi confessa senza grata? “Dopo il Vaticano
II, per motivi pastorali, è invalsa la
prassi che permette al confessore e al penitente
di guardarsi in faccia, ma è una
prassi, non la norma”. Cosa dice la norma?
“Dice una parola chiara: si esige. Si
esige la grata. Tra l’altro, secondo il codice
di diritto canonico, il sacramento deve
celebrarsi non solo in un luogo provvisto
di grata ma pure in un posto ben visibile
all’interno delle chiese”. Il confessionale
fu opera di Carlo Borromeo. Fu lui, il cardinal
nipote di Pio IV che aveva sovrinteso
alla conclusione del Concilio di Trento
e intendeva trasformare Milano nel laboratorio
creativo delle indicazioni pastorali
scaturite dallo stesso Concilio, a inventare
quella specie di scatola di legno con
due grate ai lati.
Il penitente s’inginocchia
fuori una di queste. Il prete può
riconoscerlo a stento, o non riconoscerlo
del tutto, e lui può non riconoscere il
prete. Troppi erano i rischi di contatto
tra le penitenti e il confessore nelle abitazioni
private di quest’ultimo. E poi c’era
da contrastare la Riforma che voleva
far passare l’idea della possibilità della
confessione senza prete: un contatto diretto
tra la coscienza e Dio. Trento ribadì
l’importanza della “confessione
privata”, appunto il duetto penitenteconfessore.
Perché la confessione è cosa
oggettiva, il momento dove si recitano
i peccati a un prete il quale “non è
uno psicologo dell’anima – ha detto Benedetto
XVI nella lettera con la quale
ha aperto l’anno sacerdotale – in quanto
la psicologia è portata a giustificare e
cercare attenuanti, mentre il senso di
colpa resta”.
Dice il vaticanista Sandro Magister:
“Non è secondario che Benedetto XVI,
quando si è fatto vedere in pubblico
mentre si confessava, il venerdì santo,
l’abbia fatto in San Pietro nel confessionale
tradizionale. Inoltre,
non è senza senso
un’altra indicazione.
Ratzinger ha voluto
l’anno sacerdotale.
E in quest’anno ha
voluto indicare come
modello il Curato
d’Ars, un prete
che passava ore e ore
in confessionale. E’
un modello controcorrente,
un sacerdote
che non ritiene la
confessione un momento
di confronto
confidenziale ma un sacramento
in cui, protetti
dalla grata, si dicono i peccati
commessi”.
Come Ratzinger anche Wojtyla viveva
la confessione nel segno tridentino. Le
cronache vaticane raccontano che il venerdì
santo amava scendere in San Pietro
quando ancora la basilica era
chiusa. Entrava in un confessionale
e aspettava che la basilica aprisse.
Chi si confessava non sapeva che il
confessore fosse Giovanni Paolo
II. La grata non permetteva d’identificarlo.
Dopo il Vaticano II la battaglia
liturgica fu aspra. Dentro
questa ci fu la battaglia sugli
spazi e gli arredi sacri: l’altare
verso il popolo, il tabernacolo
spostato in una
cappella laterale e anche
il confessionale. Tuonò
nel 1992, e la stampa lo riprese
con grande enfasi,
Giambattista Torello, sacerdote
psichiatra allievo
di Viktor Frankl, fondatore
della logoterapia. Sulla
rivista Studi Cattolici, vicina all’Opus
Dei, scrisse: “E’ stato il Vaticano
II a dare inizio al periodo della decadenza
del confessionale tradizionale, incoraggiando
un nuovo modo di pentirsi
davanti al sacerdote”. I confessionali divennero
“come dei piccoli ambulatori
insonorizzati dove al prete si va a raccontare
i propri problemi, come si fosse
dallo psicologo”. Il confessionale con la
grata, invece, “impone la raccomandabile
brevità del colloquio e la limitazione
all’essenziale” ed evita che il dialogo diretto
“con una donna e un giovane che
descrivono mancanze contro la castità
assumano un fascino morboso”. Insieme,
rende più facile per il prete mantenere
il ‘sigillum confessionis’, il segreto,
perché la grata permette al confessore
di non decifrare l’identità del penitente.
Nel XIII secolo fu il chierico inglese
Tommaso di Chobham a scrivere in un
Manuale di confessione il perché della
necessità di mantenere il segreto: “Il sigillo
della confessione deve essere segreto
perché lì il confessore siede come
Dio e non come uomo”.
Paolo Rodari
© Copyright Il Foglio 10 aprile 2010
Il confessore deve evitare il “complesso di colpa” nel penitente Intervento di mons. Gianfranco Girotti al corso in Vaticano sulla Confessione
di Mirko Testa
ROMA, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il confessore deve evitare il pericolo di creare l’“angoscia del peccato” o il “complesso di colpa” nel penitente e rendere visibile l’amore misericordioso di Dio. E' quanto ha detto mons. Gianfranco Girotti, Reggente della Penitenzieria Apostolica, intervenendo l'8 marzo al “Corso sul Foro interno” tenutosi presso il Papalazzo della Cancelleria a Roma.
Nel prendere la parola durante le recenti giornate di Studio sul Sacramento della Penitenza, promosse ormai da 21 anni dalla Penitenzieria Apostolica, mons. Girotti ha posto da subito l'accento sulla necessità che i sacerdoti siano consapevoli di essere “depositari di un ministero prezioso e insostituibile”.
Inoltre, ha aggiunto, “è assolutamente necessario che, per svolgere bene e fedelmente il suo ministero, ogni confessore, con uno studio assiduo, sotto la guida del magistero della Chiesa, e soprattutto con la preghiera, deve procurarsi la scienza e la prudenza necessaria a questo scopo”.
“Nei seminari, è vero, l’approccio alla confessione è solo quello della teologia o della morale”, ha ammesso. Tuttavia, per fare ben il confessore “occorrono anche conoscenze precise su quanto stabilisce la Chiesa riguardo a determinate situazioni che possono presentarsi in confessionale”.
Da qui la necessità per i sacerdoti “di prepararsi sotto il profilo culturale, psicologico e soprattutto ascetico, pensando che sono chiamati ad interessarsi di cose che non esaltano ma rivelano tutta la debolezza e talvolta la bassezza della condizione umana”.
Senza dimenticare, inoltre, che “la realtà umana è storica e dinamica, cosicché mentre il giudizio astratto può restare immutato, la valutazione degli atti concreti esige una sensibilità teologica e morale molto alta, per non accrescere l’evidente scollamento tra i fedeli e il Sacramento della Penitenza”.
In confessionale, ha continuato, si possono presentare anche i casi più impensati, che possono cogliere impreparato il sacerdote, come quando si affrontano i temi relativi alla bioetica.
Per questo ha invitato a non dimenticare “che il presbitero ha sempre una parola autorevole da dire nelle delicate questioni odierne riguardanti aspetti della pratica medica”.
“Può chiedere allora un po’ di tempo, di pronunziarsi sull’accusa, e consultare la Penitenzieria Apostolica, che entra in causa nelle situazioni in cui il sacerdote non ha la facoltà di assolvere, e nei casi in cui si può trovare impreparato o a disagio”, ha suggerito.
Tra i consigli offerti ai sacerdoti il Reggente della Penitenzieria Apostolica ha evidenziato il fatto che il penitente “ha bisogno di essere incoraggiato a riporre tutta la sua fiducia nell’infinita misericordia di Dio”, per cui ogni confessione dei peccati “deve prorompere in un canto gioioso di lode e di ringraziamento al Padre che 'per primo ci ha amati'”.
Inoltre, ha ricordato, “nell’imporre la penitenza bisogna badare alla sua concreta fattibilità da parte del penitente, privilegiando quelle forme che aiutano a crescere spiritualmente, come l’assistere a una S. Messa, il fare la comunione, o anche aiutare il prossimo in difficoltà o contribuire a sostenere le opere parrocchiali, coniugando vita interiore e impegno sociale, come via maestra del cristiano impegnato”.
“Ad un penitente che torna a confessarsi dopo lunghi anni che è stato lontano dalla Chiesa è imprudente dare penitenze complesse e defaticanti, mentre ad una buona monaca di clausura ordinariamente si può assegnare una diuturna preghiera”, ha aggiunto.
Nel penitente occorre però anche “curare la consapevolezza del peccato e delle sue conseguenze e far nascere la ferma decisione di aprire un nuovo capitolo nei rapporti con Dio e con il prossimo nel cuore della Chiesa”.
“E’ bene poi ricordare che il fedele che ha raggiunto l’età della discrezione è tenuto a confessare i peccati gravi almeno una volta l’anno”, e che il penitente “ha la possibilità di confessare i peccati al confessore che preferisce, legittimamente approvato, anche di altro rito”.
In più, il penitente “ha la possibilità di servirsi di un interprete”, “evitati ovviamente gli abusi e gli scandali e fermo restando l’obbligo del segreto”.
Mons. Girotti ha quindi passato in rassegna gli obblighi legati al sigillo sacramentale e al segreto dei penitenti, un tema che la Chiesa ha avuto sempre a cuore e per la cui violazione stabilisce pene severissime che risalgono al IV Concilio Lateranense del 1125, che promulgò la prima legge universale in materia.
A questo proposito, ha sottolineato che il Codice di Diritto Canonico (Can. 1550, §2, 2°) esclude, infatti, “come incapaci dal rendere testimonianza in giudizio i sacerdoti, relativamente a tutto ciò che hanno appreso nella confessione sacramentale, anche nel caso in cui sia stato il penitente a chiedere la deposizione”.
Diversamente, ha osservato, il confessore “peccherebbe d’ingiustizia verso il penitente e di sacrilegio nei confronti del sacramento stesso”, tradendo “la fiducia che il fedele ripone in lui, in quanto ministro di Dio” e rendendo “odioso il Sacramento della Penitenza agli occhi dei fedeli”.
Mons. Girotti ha poi ricordato che il Nuovo Codice di Procedura Penale entrato in vigore in Italia nel 1989 “riconosce il sigillo sacramentale, come parte del segreto professionale accordandovi una particolare tutela” e vincola al sigillo sacramentale esclusivamente il confessore, mentre “tutte le altre persone che per qualsiasi ragione venissero a conoscenza del contenuto di una confessione, come per es. l’interprete o altri che eventualmente ascoltassero, sono vincolati, invece dal segreto”.
“Tale distinzione di responsabilità determina, infatti, in caso di violazione, una diversità di pena”, ha spiegato.
Inoltre, ha proseguito mons. Girotti, “il sacerdote è tenuto al sigillo sacramentale verso chiunque, compreso il penitente. Se, infatti, il confessore desidera parlare con il penitente dei peccati confessati occorrerà il suo permesso, a meno che ciò non avvenga immediatamente dopo la confessione - in tale ipotesi questo sarebbe da considerarsi come la continuazione morale della confessione - oppure il penitente stesso, in successivi incontri, ritorni su qualche considerazione relativa alla precedente confessione”.
Inoltre, ha precisato, “neppure la morte del penitente potrà sciogliere il confessore da questo vincolo.
Infine, mons. Girotti ha ricordato che la Chiesa, a partire da un decreto emanato nel 1988 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, punisce con particolare severità anche “chi viola il segreto relativo alla confessione, registrando per mezzo di strumenti tecnici oppure divulgando per mezzo di strumenti di comunicazione sociale, ciò che viene detto dal confessore e dal penitente”.
“In questo caso – ha concluso –, l’interessato incorre nella pena specifica della scomunica latae sententiae”.
Come aiutare i coniugi in crisi
Padre Colombo infatti, precisato l'ambito del suo intervento e ribadita l'assoluta estraneità del sacramento della confessione alle tecniche psicoanalitiche, ha proposto un percorso di avvicinamento a questa delicata missione - tentare, cioè, di restituire vigore al sacramento del matrimonio in una coppia in difficoltà - che tuttavia mostra come la conoscenza dei basilari concetti della psicologia possa aiutare a penetrare meglio il misterioso ambito della coscienza dell'uomo, dunque della coppia.
Quale aiuto può offrire il confessore a coniugi che sentono venir meno ogni presupposto per la stabilità del loro rapporto matrimoniale? È la domanda che, nella sua semplicità, ha dato origine alla complessa risposta, che è stata poi la nervatura della lezione del prelato consigliere della Penitenzieria. Complessa perché dovendo innanzitutto favorire il discernimento delle ragioni e delle cause che hanno provocato o provocano la crisi coniugale, chiama in causa tutta una serie di implicanze concatenate le une alle altre. Padre Colombo si è riferito, per esempio, agli influssi del clima culturale odierno, caratterizzato dal consumismo edonistico.
Il malessere etico, come perdita di un senso unitario della vita con punti di riferimento certi - ha detto in sostanza padre Colombo - si associa al malessere e ai conflitti personali, coniugali e familiari. Questi trovano un terreno fertile nella cultura postmoderna, che ha sviluppato tendenze alla disgregazione di valori fondamentali quali la ragione e la fede, l'amore e la famiglia, la dignità e la responsabilità derivanti dal battesimo. A essi si è sostituita la provvisorietà e reversibilità di ogni scelta, la perdita del senso della storia e del legame tra generazioni, l'esaltazione della soggettività. Ne è risultata una cultura, che è stata definita utilitarista, narcisista, spontaneista e massificata.
Da tutto ciò deriva un impoverimento esistenziale il cui sintomo più grave è la mancanza di progettualità e il distacco da certi valori che finiscono per avere ripercussioni serie e riscontrabili sulla vita coniugale: dalla perdita del senso della gratuità del dono di sé, al prevalere del provvisorio sul definitivo e all'esaltazione del fattore emotivo. Situazioni che, nella logica esposta dal religioso, portano a carenze nella relazione di coppia - come senso di solitudine, conflittualità, incomunicabilità e risentimento - e carenze di maturità nelle persone come desideri e aspettative infantili, scoraggiamenti frequenti, individualismo narcisistico, rivendicazioni. Si tratta evidentemente di manifestazioni che, sebbene non siano esclusive in un rapporto di coppia, si aggravano proprio nel contesto coniugale.
Cosa può fare il confessore per aiutare la coppia? Padre Colombo ha distinto due ambiti: fuori e dentro il confessionale. Al di fuori della confessione il cammino da percorrere è quello della pastorale familiare. Nell'amministrare il sacramento della penitenza invece il confessore deve identificarsi con "Gesù medico delle anime", anzi deve "condurre il penitente all'incontro sanante con Gesù". Deve perciò "accogliere il penitente con l'atteggiamento misericordioso di Gesù", aiutarlo nel comprendere il senso della sua vita, quello della sua libertà e della sua responsabilità, da condividere, quest'ultima, con quella dell'altro coniuge. Si tratta sostanzialmente di aiutare le persone a rinnovare la propria vita alla luce della fede affinché possano "camminare verso la santità".
(©L'Osservatore Romano - 12 marzo 2010)
TUTTO CAMBIA QUANDO SPARISCE LA VOCE UNICA DELLA CONFESSIONE CHE “CANCELLAVA IL MALE CANCELLANDOSI ESSA STESSA”
Foucault voleva narrare una “leggenda
degli uomini oscuri” e dei “discorsi che nella
disgrazia o nella rabbia essi scambiano
con il potere”. Nel suo infinito scavo archeologico
si era imbattuto in frammenti
di vite minuscole, spulciando gli archivi
d’internamento dell’Hopital Général e della
Bastiglia. Vite illuminate per un istante
dal fascio di luce del potere, “che ha atteso
al varco queste vite, che le ha perseguitate,
che ha prestato attenzione… le ha segnate
con i propri artigli”. Storie ordinarie
e senza lode, oggi diremmo la bieca quotidianità
che merita, all’occorrenza stramba
o delittuosa, trenta secondi di tigì e un angolino
nel casellario giudiziario. Avrebbe
dovuto diventare “La vita degli uomini infami”,
ne resta solo una lunga introduzione.
Foucault si fece affascinare fino a non
riuscire a scriverne da questi brevi rapporti
che oggi sarebbero delazioni, chiamate
di correo, denunce per molestie,
comparsate da talk show, video galeotti
che bruciano in Rete, rapporti di psicologi
delle Asl. Comunque “vite vere” che
“sono state ‘giocate’ in queste poche frasi”.
Foucault parla per questo libro mai
scritto di una “vibrazione che ancora oggi
provo quando mi capita d’imbattermi in
queste vite infime, divenute cenere nelle
poche frasi che le hanno stroncate”. La vibrazione
che si sente ancora oggi leggendo
non è però legata al passato, ma al presente.
E alla lucida spiegazione che il filosofo
francese offre del perché le ritenga centrali.
I documenti cui attinge sono tutti datati
in Francia tra il 1660 e il 1760: “Archivi degli
internamenti, delle suppliche al re e
delle ‘lettres de cachet’”, con cui il potere
sovrano puniva i singoli al di fuori delle regole
giudiziarie. In questo periodo, spiega,
“scorgo un punto d’avvio”. Di quale punto
d’avvio si tratti, è argomento di gran parte
degli studi di Foucault. Qui lo sintetizza in
poche righe. “Il cristianesimo aveva in
gran parte organizzato attorno alla confessione
la sua conquista del potere sulla vita
ordinaria”. La confessione era “un
bisbigliare fugace e obbligatorio”,
e doveva “restare segreta,
non lasciare dietro di
sé altra traccia che il pentimento
e le opere di penitenza”.
Non è il luogo questo anche
solo per riepilogare le
idee dell’archeologo del sapere
sulla confessione e la religione.
Ma certo è geniale la sua intuizione
che in quell’universo si chiudesse
in qualche modo il cerchio
del delitto e del castigo: “L’occidente
cristiano ha inventato questa stupefacente
costrizione, che ha imposto
a chiunque di dire tutto per cancellare
tutto”. Poi avviene qualcosa,
questo meccanismo viene “superato
da un altro, il cui funzionamento
era molto diverso. Disposizione
amministrativa, non più religiosa;
meccanismo di registrazione, non
più perdono”. Alla giustizia divina si
sostituisce la supplica al re per aver giustizia
umana. E per tutto questo si utilizzano
sistematicamente nuove tecniche: “La denuncia,
la querela, l’inchiesta, il rapporto
di polizia, la delazione, l’interrogatorio. E
tutto quello che viene detto si registra per
iscritto, si accumula, va a formare incartamenti
e archivi”. Sparisce la voce unica
della confessione che “cancellava il male
cancellandosi essa stessa”. E il tempo diventa
“una sorta di memoria, crescente e
incessante, di tutti i mali del mondo”. Il
male non più rinviato al cielo, si “accumula
sulla terra sotto forma di tracce scritte”.
Che cosa impedisce di aggiungere, oggi:
tracce elettroniche, tracce audio, file video?
Attraverso il controllo della giustizia
sovrana e la tecnica di archiviazione quel
che era infimo, intimo, spesso turpe
ma spesso anche solo insignificante,
detto solo a tu per tu e
poi (divinamente) cancellato,
diviene traccia a verbale, argomento
per magistrati e sbirri. E
in futuro, come sappiamo dal
grande corpus degli studi foucaultiani,
giurisdizione per psichiatri
e medici, e carcerieri.
La sanzione giuridica diventa
l’unica forma di verità accettata
tra gli uomini, detta legge
“tra i componenti della
stessa famiglia, nei rapporti
di vicinato, d’interesse, di
rivalità, di odio e amore”. E’
in quell’epoca, che giustamente
Foucault considera
chiave, che “comincia a salire
un mormorio che non si fermerà:
quello per cui le variazioni
individuali della condotta, le vergogne
e i segreti sono offerti dal discorso all’impresa
del potere”. E da qui, conclude
nelle sue brevi pagine, “provengono per
noi, che osserviamo da lontano… strane
folgorazioni, qualcosa di stridente e d’intenso”.
E’ forse più di una “strana folgorazione”
quella che, leggendo, spinge a riflettere
che oggi, senza più Dio né Sovrano, viviamo
nel parossismo grottesco di tutto ciò. A
un potere giudiziario elefantiaco e invadente
si è alleato il potere dell’informazione
e la sua nemesi postmoderna, il potere
dello sputtanamento mediatico. Certo, nel
suo libro mai scritto Foucault parla di miserabili
e senza storia. Ma il meccanismo
rancoroso di questi poteri senza grazia che
decidono le carriere pubbliche così come
le vite private è universale.
Le “strane folgorazioni” di Foucault si
riflettono sull’oggi con l’attualità di un
pamphlet. Difficile leggere qualcosa di più
pertinente, e di allarmante, a proposito
del caso Marrazzo o del caso Boffo, della
politica ridotta a esposizione del privato,
dei pizzini dei pentiti. Oggi sguazziamo nei
cascami di quella profonda mutazione, divino-
umana, quella che in Europa fa
confondere il peccato con la norma giuridica,
e il peccato privato in (presunto) delitto
pubblico. Per cui è obbligatoria la
sanzione pubblica della propria debolezza,
in un fosco clima da “autodafé” continuo
in cui allo sputtanamento deve seguire
la lettera di scuse resa pubblica, la richiesta
di perdono ai parenti e persino al
Papa. Da secoli non c’è più un Dio a sorvegliare
(e punire) e magari a perdonare, c’è
al massimo una Coscienza privata che si
autoassolve, mentre la Coscienza pubblica
condanna (quando vuole). Ma Foucault
meravigliosamente ci ricorda che tutto
questo non è un’innocua parodia: è qualcosa
di cupo e ossessivo nascosto sotto l’aspetto
quotidiano, di allegro delirio immorale,
di ciò che da tempo chiamiamo il circo
mediatico-giudiziario. Quello che resta
della leggenda mai narrata degli uomini
infami sono una sessantina di paginette,
oggi riproposte dal Mulino (la prima edizione
italiana è del 1977). Lasciano l’allarme,
la “folgorazione” che abbiano qualcosa
a che fare non solo con le vite (infami)
degli altri.
Maurizio Crippa
Il Foglio 5 dic. 2009