DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Scandalo in Curia. Castrillón Hoyos, il cardinale che difende il diritto paterno dei preti a sondare il peccato in segreto, senza “trasparenza”

di Paolo Rodari

Siccome il diavolo non fa i coperchi,
la pentola è scoperchiata. Ad
aprirla è stato il cardinale Darío Castrillón
Hoyos, conservatore, capo del
clero sotto Giovanni Paolo II. Dopo
aver subìto una dura reprimenda pubblica
da parte del portavoce vaticano,
padre Federico Lombardi, il cardinale
non si è tirato indietro e ai microfoni
della Cnn ha detto quello che molti
in Vaticano pensano in silenzio: la
chiesa non ha niente da rimproverarsi
per come ha trattato, con discrezione
e riservatezza, i casi di pedofilia tra
i preti. Altro che rimorso.
La tesi di Castrillón è diametralmente
opposta a quella sostenuta due
settimane fa dall’arcivescovo di Vienna,
il cardinale Christoph Schönborn,
e non collima di certo con la sostanza
della lettera pastorale del Papa al
clero irlandese. Per Schönborn nella
curia romana ai tempi di Wojtyla c’era
chi lavorava per coprire i casi riguardanti
preti accusati di pedofilia,
tra questi quello del suo predecessore
Hans Hermann Groër. Per Castrillón
nessuno insabbiava. La prassi era
quella di trattare ogni caso con discrezione,
il più possibile al riparo
dai media.
Dice al Foglio un presule che negli
ultimi anni di pontificato di Wojtyla
ha avuto un ruolo di responsabilità
nella curia romana: “Ha ragione Castrillón.
Tutti in curia erano convinti,
e secondo me lo sono ancora, che la
discrezione sia l’arma migliore per affrontare
casi delicati. La giustizia della
chiesa si muove su un altro livello
rispetto alla giustizia ordinaria. E non
sempre i due livelli possono combaciare.
Anzi, in certi casi, è opportuno
lasciarli distinti, anche per il bene
delle vittime. I giornali vorrebbero
imporre una ‘totale trasparenza’. Vorrebbero
obbligare la chiesa a denunciare
alle pubbliche autorità ogni
reato i suoi preti commettano. E’ una
richiesta subdola. Perché presuppone
senza provarlo che fino a oggi la
chiesa abbia lavorato per occultare
chissà che cosa. Ed è ingannevole
perché afferma che soltanto la denuncia
alle autorità civili sia la strada
legittima tramite la quale la chiesa
può trattare questi casi. Si dimentica
che la chiesa ha verso i suoi preti
una paternità spirituale che nessun
tribunale può offrire. Certo, se un tribunale
decide di indagare su di un
prete nessuno nella chiesa lo ostacolerà.
Ma obbligare la chiesa a denunciare
i suoi sacerdoti ai tribunali non
ha senso. E’ un diritto umano (e non
ecclesiastico) che un padre decida di
non consegnare un suo figlio all’autorità
civile nel momento in cui una terza
persona muove un’accusa contro di
lui. E’ un diritto che soltanto un rozzo
furore giustizialista non riesce ad accettare.
La chiesa tratta questi casi
con criteri diversi da quelli del mondo
e sa che esistono la pietà e la misericordia.
Che tra un crimine e una
debolezza umana c’è un’enorme differenza.
E che esistono il pentimento
e il proposito di non peccare più. E
che, ancora, esiste il processo canonico
le cui pene, se il delitto è accertato,
sono per la chiesa ben più importanti
degli anni di prigione che un tribunale
civile può sentenziare nei confronti
di un colpevole”.
Ma Ratzinger nel 2003, all’interno
delle linee applicative del Motu proprio
“Sacramentorum sanctitatis tutela”
pubblicato nel 2001, nel quale avocava
alla Dottrina della fede la competenza
di tutti i casi di abusi su minori
commessi da preti, non aveva
scritto che “va sempre dato seguito alle
disposizioni della legge civile per
quanto riguarda il deferimento di crimini
alle autorità preposte?”. Risponde
il presule: “Certo. Ma un conto è
chiedere che si seguano le leggi. Un
altro è obbligare i vescovi a denunciare.
Questo obbligo non c’è in moltissime
leggi civili. Né Benedetto XVI ne
ha mai parlato”.
Darío Castrillón Hoyos non è un
cardinale qualunque. Ha guidato il
clero per otto anni. Per nove è stato a
capo dell’Ecclesia Dei mediando con
i lefebvriani per un finale rientro nella
comunione con Roma. Oggi è un
porporato ancora molto attivo: gira il
mondo a celebrare messe col rito antico
suscitando, anche nella chiesa,
sentimenti opposti. Domani, ad esempio,
avrebbe dovuto essere al Santuario
Nazionale dell’Immacolata Concezione
di Washington per celebrare
una messa antica. Ma le recenti sue
dichiarazioni sulla pedofilia nel clero
hanno provocato le proteste di un
gruppo di vittime di abusi sessuali da
parte di preti e così ha dovuto declinare.
Prima del 2001 era Castrillón
che fungeva da punto di riferimento
per i vescovi che nelle proprie diocesi
avevano a che fare con casi di pedofilia
del clero. E oggi è lui a sollevare
un tema divenuto, nelle ultime
settimane, tabù.
Tutto comincia pochi giorni fa. Il sito
cattolico-progressista francese Golias
pubblica la fotocopia di una lettera
scritta l’8 settembre 2001 da Castrillón.
La lettera è indirizzata al vescovo
francese Pierre Pican, oggi a riposo,
il quale è stato poco tempo prima
condannato a tre mesi con la condizionale
per aver rifiutato di denunciare
alle autorità civili un suo sacerdote,
René Bissey, condannato nell’ottobre
del 2000 per abusi sessuali su
minori compiuti tra il 1989 e il 1996.
Castrillón si congratula con il vescovo
francese e gli scrive: “Lei ha agito bene,
mi rallegro di avere un confratello
nell’episcopato che, agli occhi della
storia e di tutti gli altri vescovi del
mondo, ha preferito la prigione piuttosto
che denunciare un prete della
sua diocesi”. Castrillón ricorda che
anche san Paolo fu messo in catene. E
comunica che la Congregazione del
clero “per incoraggiare i fratelli nell’episcopato
in una materia così delicata,
trasmetterà copia di questa missiva
a tutti i vescovi”.
Grazie a Castrillón, Pican viene indicato
come esempio per tutti. Pican,
il vescovo che non denunciò alle autorità
civili un prete accusato di aver
abusato di minorenni, viene lodato da
uno dei principali collaboratori di
Wojtyla. E viene lodato tramite l’invio
di una lettera a tutti i vescovi e, dunque,
con il placet di Giovanni Paolo II.
Il 15 aprile scorso, alla lettera inviata
da Castrillón a Pican e pubblicata dal
sito Golias, risponde padre Federico
Lombardi. In un comunicato sconfessa
l’operato di Castrillón: “Questo documento
è una riprova di quanto fosse
opportuna l’unificazione della trattazione
dei casi di abusi sessuali di
minori da parte di membri del clero
sotto la competenza della Congregazione
per la dottrina della fede, per
garantirne una conduzione rigorosa e
coerente, come avvenne infatti con i
documenti approvati dal Papa nel
2001”. Ma Castrillón reagisce. E poche
ore dopo ai microfoni della Cnn rivendica
la giustezza del proprio agire.
E insieme porta alla luce un tema che
in queste settimane nessuno nella
chiesa osa toccare: la trasparenza come
il mondo la intende non fa parte
del dna della chiesa. Questa non vuole
nascondere nulla. Ma nello stesso
non dimentica che l’uomo è peccatore.
E che il peccato si combatte in modi
diversi.
Dice Castrillón: “Se un vescovo
sposta un prete responsabile di abusi
su minori da una parrocchia a un’altra,
non significa che lo sta coprendo
ma semmai che gli sta comminando
una giusta punizione”. E, pur rilevando
che se il prete è colpevole di abusi
occorre procedere immediatamente
col processo canonico e la sospensione
da ogni incarico, spiega: “Quando
una persona commette un errore,
che molte volte è stato un errore minimo,
e questa persona viene accusata
e confessa il suo delitto, il vescovo
la punisce secondo quanto può fare
per il diritto, la sospende o la manda
in un’altra parrocchia. Questo significa
punirla, non significa che la si vuole
lasciare impunita. Questa non è copertura,
ma è rispettare la legge, come
fa la società civile, come fanno
medici e avvocati, che non perdono
per sempre il diritto di esercitare la
propria professione”.
Benny Lai scrive di cose vaticane
dai tempi di Pio XII. Dice: “I vescovi
hanno sempre trattato i preti come
dei loro figli. Il loro atteggiamento è
sempre stato paterno, di correzione
ma anche di comprensione e per questo
motivo guardano ancora oggi con
un certo sospetto la chiamata alla trasparenza
totale fatta dai giornali e
dall’intellighenzia laica del mondo. Il
loro è un rapporto filiale e non giustizialista
verso i sacerdoti. Se necessario
puniscono i propri preti, li sospendono
o nei casi più gravi tolgono
loro l’abito, ma senza mai dimenticarsi
di aver pietà di loro e dei loro
errori. Sanno, insomma, che il peccato
è di ogni uomo e diffidano di quelli
che, pur criticando quotidianamente
la chiesa, la vogliono immacolata
esigendo che siano dei tribunali
civili a certificarne il grado. Certo, se
un prete ha davvero commesso abusi
su minori deve essere punito dalla
chiesa come anche dall’autorità civile.
Ma ciò non cambia la sostanza: la
trasparenza non è il modo con cui la
chiesa agisce”.
Gabriella Sartori, storica, biblista,
già vicepresidente del Movimento per
la Vita del Friuli Venezia Giulia, sorride
quando le si parla delle richieste
di maggiore trasparenza fatte in questi
giorni alla chiesa. Dice: “Sento in
continuazione personalità del mondo
laico chiedere alla chiesa di fare pulizia,
di essere più trasparente. Non
credo che la chiesa possa prendere lezioni
da questa gente che mentre non
fa nulla per tutelare i minori decide
di stracciarsi le vesti contro la chiesa”.
Tonino Cantelmi è presidente dell’Associazione
italiana psicologi e psichiatri
cattolici (Aippc) e insegna psicopatologia
presso la Pontificia università
gregoriana. Racconta: “Quando
si chiede più trasparenza si chiede
una cosa giusta, sebbene nessuno nella
chiesa intenda nascondere nulla.
Però occorre sapere bene di cosa si
parla. I casi di pedofilia nel clero sono
pochissimi. La maggior parte degli
abusi sono casi di efebofilia e cioè riguardano
minori post puberali. La pedofilia
è l’attrazione verso bambini
pre puberali. Questa si divide in due
tipologie. Quella segnata da profondi
sensi di colpa. In questi casi il soggetto
rivolge le sue attenzioni, spesso soltanto
a livello di fantasia, verso gli
adolescenti e una corretta terapia
può portare dei risultati nel tempo.
L’altra è la pedofilia antisociale, priva
di sensi di colpa, caratterizzata da
un narcisismo maligno. Questo secondo
tipo di pedofilia ritengo non possa
essere curato. Per questo secondo tipo
di patologia occorre puntare al
contenimento sociale. E così la chiesa
ha sempre cercato di agire. Tra l’altro,
in tutta Italia ci sono centri dove
queste persone, se davvero hanno
problemi, vengono curate”.
Una cosa è la malattia. Un’altra è il
peccato. Quest’ultimo la chiesa l’ha
“gestito” sempre in forma comunionale.
Coi suoi metodi e i suoi mezzi. Perché
ogni situazione è diversa dall’altra.
E anche perché, per lei, il peccato
è una cosa seria. Dice Giorgio Carbone,
domenicano, docente di Bioetica e
teologia morale presso la facoltà di
Teologia di Bologna: “Esiste il sacramento
della riconciliazione, volgarmente
chiamato confessione. Il sacramento
prende il nome dall’azione che
Dio compie. Il penitente si confessa e
si pente. Dio, invece, riconcilia. Ovvero
risana, guarisce. E’ una ‘terapia’
che nessun tribunale civile può dare”.
Una terapia sulla quale la chiesa ha
sempre imposto il segreto. Perché?
“Confessarsi è già di per sé una penitenza.
E’ un sacrificio. Il segreto è stato
imposto per non rendere ulteriormente
odioso questo sacramento. Il
confessore non può dire nulla, assolutamente
nulla, di quanto viene a sapere
nel confessionale. Nemmeno può
svelare particolari irrilevanti e che
nulla hanno a che fare con i peccati
confessati se questi particolari vengono
esposti durante il sacramento. E
nessun giornale, nessun giudice, potrà
esigere la violazione di questo segreto.
La pena, del resto, è terribile: per
il confessore scatta la scomunica latae
sententiae. Nella chiesa Dio agisce. E
il mondo non accetta, o probabilmente
non capisce, questa azione”.
In fin dei conti questo sembra volere
il mondo quando esige una chiesa
luogo dell’assoluta trasparenza: il tribunale
civile al posto del confessionale.
La sentenza al posto della remissione
dei peccati. La condanna al
posto della penitenza e del perdono.
Fu Joseph Ratzinger a scrivere in proposito
una pagina memorabile nel
1990. Tenne una conferenza intitolata
“Una chiesa sempre riformanda”. Un
capitolo lo dedicò alla morale, al perdono
e all’espiazione: categorie spesso
non comprese dal mondo, non accettate.
Categorie che invece Ratzinger
ha indicate come l’unico vero centro
di effettiva riforma della chiesa: la
chiesa che si rigenera grazie alla misericordia
e al perdono concessi a chi
sbaglia. Nessuna trasparenza. Nessuna
democraticità. Solo l’azione di Dio
che dall’alto rifà la sua chiesa rigenerandola
quando questa si riconosce
peccatrice.
“Penitenza”, non a caso, è una parola
spesso ripetuta da Benedetto XVI
in questi giorni difficili. Disse Ratzinger
nel 1990: “Là dove il perdono, il
vero perdono pieno di efficacia, non
viene riconosciuto o non vi si crede, la
morale deve venir tratteggiata in modo
tale che le condizioni del peccare
per il singolo uomo non possano mai
propriamente verificarsi. A grandi linee
si può dire che l’odierna discussione
morale tende a liberare gli uomini
dalla colpa, facendo sì che non
subentrino mai le condizioni della sua
possibilità. Viene in mente la mordace
frase di Pascal: ‘Ecce patres, qui
tollunt peccata mundi!’. Ecco i padri,
che tolgono i peccati del mondo. Secondo
questi ‘moralisti’, non c’è semplicemente
più alcuna colpa. Naturalmente,
tuttavia, questa maniera di liberare
il mondo dalla colpa è troppo
a buon mercato. Dentro di loro, gli uomini
così liberati sanno assai bene
che tutto questo non è vero, che il peccato
c’è, che essi stessi sono peccatori
e che deve pur esserci una maniera
effettiva di superare il peccato. Anche
Gesù stesso non chiama infatti coloro
che si sono già liberati da sé e che
perciò, come essi ritengono, non hanno
bisogno di lui, ma chiama invece
coloro che si sanno peccatori e che
perciò hanno bisogno di lui. La morale
conserva la sua serietà solamente
se c’è il perdono, un perdono reale, efficace;
altrimenti essa ricade nel puro
e vuoto condizionale. Ma il vero perdono
c’è solo se c’è il ‘prezzo d’acquisto’,
l’‘equivalente nello scambio’, se
la colpa è stata espiata, se esiste l’espiazione.
La circolarità che esiste tra
‘morale – perdono – espiazione’ non
può essere spezzata; se manca un elemento
cade anche tutto il resto”. Morale,
perdono, espiazione: tre fasi per
rinascere davanti a Dio e lontano dagli
occhi del mondo. E’ questa la giustizia
della chiesa.

© Copyright Il Foglio 23 aprile 2010




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