DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Sconsagrada familia. Prima di pensare ai nuclei familiari che già esistono, bisogna capire come farne nascere altri

di Roberto Volpi
Tratto da Il Foglio del 30 ottobre 2010

Francia e Irlanda. Dietro il Regno Unito, i tre paesi della penisola scandinava (Finlandia, Norvegia e Svezia), la Danimarca e infine l’Olanda. Impossibile, a leggere la classifica europea dei paesi col più alto tasso di fecondità totale (numero medio di figli per donna), non ricavarne la doppia regola che ad agevolare il fare figli siano soprattutto il tasso di partecipazione femminile al mondo del lavoro e la dotazione di servizi per l’infanzia, a cominciare dai nidi. Quegli otto paesi, infatti, primeggiano per entrambi questi caratteri.

L’Italia non primeggia né per il tasso di occupazione delle donne né per il numero di posti-nido ogni cento bambini fino a tre anni, entrambi largamente al di sotto della media Ue-15 e pure – meno – di quella dell’Europa allargata. E fa tanto pensiero democratico avanzato sostenere che in Italia i figli non si fanno per qualche tara che derivi dall’azione dei governi e nient’affatto da quella dei suoi abitanti. Dateci i servizi, dateci il lavoro e vedrete quante famiglie, quanti figli. Si dà però il caso che l’Emilia Romagna, già dalla fine degli anni Sessanta all’avanguardia tra tutte le regioni italiane (con un indice di posti-nido ogni cento bambini migliore di quello europeo, il cento per cento di posti nelle scuole materne e un’occupazione femminile di livello europeo) abbia assistito, dall’alto di questi record, al precipitare delle nascite di anno in anno fino all’inconsistenza di 0, 9 figli per donna nel pieno degli anni Novanta: un livello da estinzione pressoché fulminea della popolazione e record del mondo ancora ineguagliato attestante la più cupa depressione delle nascite. Dalla quale l’hanno salvata non le italiane beneficiate da tanta abbondanza di lavoro e di servizi per l’infanzia ma un esercito crescente di stranieri arrivato a risollevare dall’implosione demografica intere province come quelle di Modena e Reggio Emilia, giusto le più ricche.

Il modello non ha funzionato in passato, allorquando a tenere sul fronte dei figli è stato il mezzogiorno senza lavoro e servizi, e non il nord con l’uno e gli altri, né mostra di voler funzionare molto di più oggi. Almeno quattro regioni dell’Italia del nord (Lombardia e Trentino Alto Adige, Veneto ed Emilia Romagna) reggono il confronto coi paesi che citavo all’inizio per tasso di occupazione femminile, posti-nido e scuole materne, ma assieme considerate arrivano a un tasso di fecondità delle italiane che, dopo tanto faticoso arrancare, sfiora oggi gli 1, 3 figli e non raggiunge gli 1, 5 figli in media per donna nonostante che in quelle regioni oltre un nato su quattro abbia almeno un genitore straniero. E tutto questo mentre i paesi che guidano la graduatoria europea oscillano tra il tasso minimo di oltre 1, 7 figli in media per donna dell’Olanda e quello massimo di 2 figli della Francia.

Vediamo bene allora dove sta il problema. Intanto nella non famiglia. Da anni abbiamo a che fare con un tasso dei matrimoni che non riesce a schiodarsi dal 4 per mille annuo o poco più, tra i più bassi d’Europa, e con una età media al “primo matrimonio” continuamente crescente, passata negli ultimi vent’anni, per quanto riguarda le donne, da 25 a 30 anni: tra le più alte d’Europa. Si obietta: non ci si sposa perché non c’è lavoro, e non ci si sposa ma aumentano le coppie di fatto. Obiezioni che non tengono. Le coppie di fatto sono ancora oggi stimate saldamente al di sotto del 5 per cento delle coppie e dunque, per quanto in aumento, non riescono a sollevarsi dalla marginalità. Di modo che si arriva dritti alla domanda: non si dovrebbe ancor prima di guardare a cosa fare per la famiglia che c’è, che esiste, volgere l’attenzione alla famiglia che non c’è? Che non vede la luce?

Quanto alla mancanza di lavoro che impedirebbe ai nostri giovani di metter su famiglia è il momento di una riflessione un po’ più approfondita. I dati per farlo ci sono, in un’indagine svolta dall’Istat nel febbraio 2007 (resa nota nel 2009) e riguardante un campione di 10. 000 individui già precedentemente intervistati in occasione dell’indagine “Famiglia e soggetti sociali”, condotta dall’Istat nel novembre 2003. Il dato di gran lunga più decisivo che quell’indagine ha messo in luce è che, dei giovani di 18-39 anni che “erano occupati già al 2003 e continuavano a esserlo al 2007” (quando la loro età era aumentata in corrispondenza, portandosi a 21-42 anni), solo 27 su 100 hanno lasciato la famiglia di origine nei tre anni e mezzo intercorrenti tra le due date. Ci si aspetterebbe che quanti hanno un lavoro di buona stabilità avessero anche un tasso di “uscita di casa” più alto di coloro che invece un lavoro non ce l’hanno. Doppia illusione. Intanto perché 27 su 100 che se ne sono andati in tre anni e mezzo è un dato in sé sconfortante. Eppoi perché quanti non erano occupati nel 2003 e neppure nel 2007 hanno lasciato le famiglie di origine in 18 su 100, appena un terzo in meno. Questi dati ci dicono in maniera inconfutabile che i nostri “giovani” tra i venti e i quarant’anni sono assai blandamente stimolati a uscire dalle famiglie di origine per farsene di proprie dal possesso di un lavoro stabile.

Tra il 1988 e il 2006-07 (ultimi dati disponibili) le famiglie fino a due componenti sono passate da 43 a 54 famiglie su cento, mentre le famiglie con almeno tre componenti (una coppia con figli) sono scese da 57 a 46 su cento. A questi dati occorre aggiungere, per completare il quadro, che di dieci nuclei familiari (con esclusione dunque delle famiglie formate da una sola persona) appena uno ha come persona di riferimento un giovane (si fa per dire) di meno di trentacinque anni, mentre gli anziani di 65 e più anni sono rappresentati alla testa delle famiglie in misura quasi doppia rispetto alla loro proporzione nella popolazione. Stando così le cose si capisce bene come, più che dalle parti della famiglia, si continui a scivolare in Italia dalle parti della “non” famiglia.

E’ il profilo della famiglia italiana che minaccia di non tenere. Contrariamente a quel che si pensa, c’è poca famiglia in Italia. Non si fa famiglia, non si creano famiglie, istituzionali e non, ai ritmi che sarebbero necessari. Il nodo, dunque, occorre che venga sciolto a cominciare dall’inizio. Non si tratta soltanto di avviare finalmente una organica politica per le famiglie e dunque di servizi per l’infanzia, bonus alla nascita, quoziente familiare – ovvero una fiscalità che tenga conto delle fonti di reddito per un verso e del numero ed età dei componenti delle famiglie per l’altro. Da noi si tratta anche di mettere nel conto una battaglia culturale di lunga lena alla quale non ci si può più sottrarre (e che passa attraverso le scuole, le famiglie, la politica, il tessuto delle associazioni culturali e solidaristiche, la chiesa e le parrocchie) per tornare a crescere giovani svegli che non abbiano paura di affrontare la vita e che rivaluti la valenza solidaristica e comunitaria di una famiglia ricordata oggi solo nel male, bistrattata da stampa e intellettualità, raccontata come fuori moda e anacronistica, cellula dell’egoismo invece che dell’apertura al mondo. E si tratta anche di cercare di abbassare i livelli di difficoltà che si incontrano per mettersi in coppia e fare famiglia “quando si è ancora giovani”. Intanto rivalutando il senso della concreta, fattiva, operosa ricerca del lavoro già dalla scuola e segnatamente dall’università. E’ grottesco, non trovo un’altra parola, che nel mondo di oggi i nostri studenti universitari comincino a guardarsi attorno per vedere quel che possono fare e come e dove, dopo aver acquisito la laurea mediamente a 26-27 anni. L’università italiana si è venuta trasformando nella più formidabile fabbrica di disoccupati, sottoccupati, male occupati e mai occupati a memoria d’uomo. Abbiamo proporzionalmente meno laureati degli altri paesi europei, che però trovano più difficoltà che in tutti gli altri paesi europei a trovare un’occupazione congrua rispetto a quel che hanno studiato. Occorre creare una reale, operosa e reciprocamente conveniente, continuità tra i due mondi, facendo sì che l’uno, quello degli studi, sfoci pressoché naturalmente nell’altro, quello del lavoro, qui compiendosi e definendosi pienamente. Le tappe lungo questa strada vanno forzate al massimo, ignorando il fuoco di fila, sin troppo facile da preventivare, di quanti lamenteranno (lo fanno già oggi, figurarsi) l’aziendalizzazione dell’università, la privatizzazione degli studi e simili “figure” ideologiche. E’ da qui che occorre partire per cercare di “scollare” i giovani tanto dai divani di casa come dai palasport che ospitano le migliaia e migliaia di partecipanti ai concorsi per un qualsivoglia posto pubblico.

Bisogna poi prendere di petto il problema della casa per le giovani coppie. E non importano neppure grandi piani casa o quel che sono. Stato e regioni, che spendono un sacco di soldi per servizi che non servono letteralmente a nulla (avete presente, che so, la miriade di sportelli informativi e informa giovani che non informano su alcunché? Oggi poi con Internet, figurarsi. Le migliaia di musei totalmente inventati dove non va mai nessuno? O, su un altro fronte, i vaccini antinfluenzali e i parti cesarei spropositati? L’elenco delle spese inutili è sterminato: hai voglia di finanziare), possono bene riproporsi di creare le condizioni per bassi affitti per giovani coppie. Trovare casa in tempi rapidi e alla portata delle tasche normalmente “povere” di quando si comincia a entrare nella vita e nel lavoro con le proprie gambe è la prima condizione non soltanto per poter iniziare concretamente una vita a due ma per poterla anche soltanto immaginare, “pensare”.

Tremonti ha benedetto il posto fisso, procurandosi consensi a 360 gradi. Brunetta ha proposto cinquecento euro al mese al giovane che si decida a uscire di casa. Siamo concreti. Perché si esca di casa occorre intanto trovarne un’altra decente, in tempi ragionevoli e senza svenarsi. E avere una prospettiva di lavoro che dev’essere maturata già nel tempo degli studi, non a studi bell’e conclusi, magari a trent’anni. E’ da qui che si deve partire.