DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi


Possiamo credere in Dio, perché Dio ci tocca,
perché egli é in noi e perché egli anche dall’esterno si avvicina a noi.
Possiamo credere in lui, perché esiste colui che egli ha mandato:
“Egli ha visto il Padre”, dice il Catechismo; egli “è il solo a conoscerlo e a poterlo rivelare”. Potremmo dire che la fede è partecipazione allo sguardo di Gesù.
Nella fede Egli ci permette di vedere insieme con lui, ciò che egli ha visto.
A motivo del fatto che egli è il Figlio, egli vede continuamente il Padre.
A motivo del fatto che egli è uomo, noi possiamo guardare insieme con lui.

Card. Joseph Ratzinger



I nostri occhi cercano il Padre. Da sempre. "Se quello che i mortali desiderano potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre"; così Telemaco, il figlio di Ulisse, testimoniava nell'Odissea l'angoscia di un figlio alla ricerca di suo padre. In fondo la vita non è altro che l'attesa di nostro Padre, ed ogni atto che compiamo nasconde l'esigenza insopprimibile. E' orfano chi non può vedere suo Padre. Abbiamo tutti un urgente bisogno di vedere il volto di nostro Padre, di conoscere le nostre radici, di scoprire un punto di appoggio per la nostra vita. La nostra è una generazione di orfani cui è stata preclusa la visione decisiva. Come si può vivere senza Padre? Impossibile, devastante. Nella vita morale regna il caos del relativismo, ogni opinione diviene via, verità e vita. L'esito è sotto i nostri occhi. Morte, coniugata in aborto, droga, divorzio, anoressia, bulimia, rave, e molto di più.

"Solo a partire da un’appartenenza posso immaginare un destino. Solo se vengo da qualche parte posso andare verso una direzione" (Claudio Risè). Vivere da orfani è dunque vivere disorientati, incapaci di soffrire, senza una spina dorsale. Gli eventi, siano essi felici o tristi, si abbattono sulla vita frantumandola. Chi non ha visto il Padre vive dissipato e senza una meta autentica. Scrive un lucido psichiatra: "Il padre è colui che espone il figlio all’esperienza del dolore, ed il suo segno è la ferita. Egli impone al figlio un sacrificio, lo sottopone alla prova. La natura della prova consiste nel chiedergli di affrontare la fatica delle rinunce necessarie per crescere bene, riuscire, avere buoni rapporti con gli altri ed essere davvero contento di sé... La ferita inferta dal padre riguarda esattamente questo: costringe il figlio a smettere di pensare la vita in termini infantili, quasi fosse un paradiso terrestre dove tutto è facile, senza fatica, dove nulla è richiesto per poter vivere e per avere un buon rapporto con gli altri… Il segno del rapporto con il padre è la “ferita” che il figlio porta con sé, nel suo carattere e nella sua concezione della vita, come conseguenza della difficoltà cui è stato sottoposto, che ha accettato e che ha positivamente superato. Il padre chiede al figlio di non fare del proprio “piacere” la misura ultima del bene e del male… Ma perché questo accada è necessario che il figlio attraversi l’esperienza della prova, termine messo al bando da una cultura che ha gettato nel discredito la sensibilità educativa maschile." (Osvaldo Poli).

Nel catecumenato della Chiesa primitiva, alle soglie dell'ultima tappa che schiudeva le porte al Battesimo, ai catecumeni veniva consegnata la preghiera del Padre Nostro. Al termine di un lungo percorso di iniziazione alla fede, fatto di ascolto ed esperienza, il catecumeno apriva gli occhi su suo Padre, autore e origine della sua vita. Lo aveva conosciuto sperimentando la sua presenza, la sua misericordia e il suo amore negli eventi della sua esistenza. La prova del dolore, il crogiolo della Croce ne aveva forgiato l'immagine, sino a renderla conforme a quella di suo Padre. "Sant’Ireneo dice in un passo che noi dobbiamo abituarci a Dio, come Dio si è abituato a noi, agli uomini nell'incarnazione. Dobbiamo familiarizzarci con lo stile di Dio, così da imparare a portare in noi la sua presenza. Con un’espressione teologica: deve essere liberata in noi l’immagine di Dio, ciò che ci fa capaci di comunione di vita con lui. La tradizione paragona questo con l’azione dello scultore, che stacca dalla pietra con lo scalpello pezzo dopo pezzo, in modo che divenga visibile la forma da lui intuita... poiché in realtà noi possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza" (J. Ratzinger). Al termine del cammino di fede il catecumeno recava ormai impressa la ferita che sigillava l'appartenenza esclusiva a Dio, la stessa ferita del Signore Gesù, e poteva riconoscere così quanto di lui era più corrispondente al suo essere, Colui dal quale era stato creato ad immagine e somiglianza, suo Padre. “Se l’occhio non fosse solare, non potrebbe riconoscere il sole” (Goethe). Il processo che conduce alla conoscenza del Padre è un processo vitale di assimilazione, un catecumenato, nel quale, passo dopo passo, il catecumeno giungeva ad accogliere in pienezza l'elezione ad essere cristiano, e, come San Francesco, poteva spogliarsi dell'uomo vecchio che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e rivestire l'uomo nuovo, il figlio di Dio.

«Non avete ricevuto uno spirito di schiavitù, per ricadere nel timore, ma uno spirito che vi rende figli, col quale gridiamo: Abba, Padre!» (Rm 8,15). Il figlio è libero, ha imparato a vedere il Padre attraverso la sofferenza che sorge dai passi della propria storia, quelli che conducono, a poco a poco, a compiere la volontà di Dio. Vedere il Padre è vedere Cristo, l'unico che ha compiuto la volontà di Dio. Vederlo è imparare da Lui, è lasciarsi attirare nella sua stessa vita che trascina nel passaggio dalla morte alla vita attraverso le ferite della Croce. Con Gesù si impara ad essere figli e ad obbedire dalle cose che patiamo, passando dall'infantilismo che fa "del proprio “piacere” la misura ultima del bene e del male", alla maturità di chi può soffrire per compiere il bene autentico. Gesù è via, verità e vita perchè ci insegna a vivere nel Getsemani, il luogo dove scaturisce, puro e abbandonato, il grido liberante: "Abbà, Padre! Tutto ti è possibile, allontana da me questo calice! Non però quello che io voglio, ma quello che tu vuoi".

Vedere il Padre con gli stessi occhi di Cristo, il nostro sguardo nello sguardo di Lui, nel quotidiano Getsemani che costituisce la nostra vita. I rapporti con i genitori, con il coniuge, con il figlio, con il fidanzato, con gli amici. La sessualità e lo studio, il lavoro e lo svago, tutto vissuto come figli nel Figlio, smettendo di "pensare la vita in termini infantili, quasi fosse un paradiso terrestre dove tutto è facile, senza fatica, dove nulla è richiesto". Vedere il Padre ci basta, perchè è sapere che esiste una volontà buona, giusta, bella e piena per la propria vita, ed essa coincide con il dono totale di sè. Vedere il Padre è non appropriarsi di nulla e nessuno, è rispettare e accogliere chi ci è vicino. Vedere il Padre è lasciarsi ferire dall'amore che nulla esige per sè ma tutto dona. Vedere il Padre è sapersi amati oltre ogni morte e dolore, di un amore più forte di qualunque peccato.

Vedere il Figlio è dunque vedere il Padre, e questo è quanto basta ad ogni uomo per essere felice, in qualunque circostanza. Ed il volto di Cristo si incarna pienamente nella Chiesa, corpo vivente e visibile del Signore. Così chiunque fissi e guardi la Chiesa può vedere Gesù, e, in Lui, il Padre, l'approdo di ogni vita, il destino di ogni uomo. La missione della Chiesa, e di ciascuno di noi, non è dunque altro che essere quello che già siamo, per incendiare il mondo con la luce di Cristo. Essere suoi. Essere uno con Lui. Rimanere nel suo amore.

Che Dio ce lo conceda, è questa davvero la Grazia più grande da implorare al Padre nel nome di Cristo: lo Spirito Santo che ci faccia intimi a Gesù, una sola carne e un solo spirito con Lui. Per noi, per il mondo. Perchè i figli, i genitori, gli amici, chiunque abbiamo a cuore possa vedere Dio, e credere in Lui. Quante volte soffriamo, ci scoraggiamo, perchè gli altri non si accorgono di Dio, non ne vogliono sapere. Certo, ognuno è libero, ma per esserlo davvero una volta almeno nella vita deve poter vedere Dio, toccare il suo amore. Poi potrà rifiutarlo. Per questo siamo stati chiamati nella Chiesa. Per questo prima di tutto, prima ancora che pregare per i figli, o per chiunque, è fondamentale chiedere a Dio d'essere suoi sino in fondo. E' l'evidenza di Dio in noi che aprirà al mondo lo sguardo su Dio. E' questo il fondamento della missione della Chiesa, dell'educazione, della testimonianza, della nostra stessa esistenza.

Esistiamo perchè Gesù possa prendere dimora in noi. Lui il nostro luogo, e con Lui nel Padre, nostra eterna dimora. E noi sua dimora, qui ed ora, nella nostra carne, ed eternamente, in un vincolo d'amore che nulla e nessuno potrà mai distruggere. Anche oggi, e in ogni istante. Che Dio ce lo conceda, al di là di ogni ostacolo frapposto dalla nostra debolezza.


“Non la mia volontà, ma la tua sia realizzata”. Che cos'è questa mia volontà, che cos'è questa tua volontà, di cui parla il Signore? La mia volontà è “che non dovrebbe morire”, che gli sia risparmiato questo calice della sofferenza: è la volontà umana, della natura umana, e Cristo sente, con tutta la consapevolezza del suo essere, la vita, l'abisso della morte, il terrore del nulla, questa minaccia della sofferenza. E Lui più di noi, che abbiamo questa naturale avversione contro la morte, questa paura naturale della morte, ancora più di noi, sente l'abisso del male. Sente, con la morte, anche tutta la sofferenza dell'umanità. Sente che tutto questo è il calice che deve bere, deve far bere a se stesso, accettare il male del mondo, tutto ciò che è terribile, l’avversione contro Dio, tutto il peccato. E possiamo capire come Gesù, con la sua anima umana, sia terrorizzato davanti a questa realtà, che percepisce in tutta la sua crudeltà: la mia volontà sarebbe non bere il calice, ma la mia volontà è subordinata alla tua volontà, alla volontà di Dio, alla volontà del Padre, che è anche la vera volontà del Figlio. E così Gesù trasforma, in questa preghiera, l’avversione naturale, l’avversione contro il calice, contro la sua missione di morire per noi; trasforma questa sua volontà naturale in volontà di Dio, in un “sì” alla volontà di Dio. L'uomo di per sé è tentato di opporsi alla volontà di Dio, di avere l’intenzione di seguire la propria volontà, di sentirsi libero solo se è autonomo; oppone la propria autonomia contro l’eteronomia di seguire la volontà di Dio. Questo è tutto il dramma dell'umanità. Ma in verità questa autonomia è sbagliata e questo entrare nella volontà di Dio non è un’opposizione a sé, non è una schiavitù che violenta la mia volontà, ma è entrare nella verità e nell'amore, nel bene. E Gesù tira la nostra volontà, che si oppone alla volontà di Dio, che cerca l'autonomia, tira questa nostra volontà in alto, verso la volontà di Dio. Questo è il dramma della nostra redenzione, che Gesù tira in alto la nostra volontà, tutta la nostra avversione contro la volontà di Dio e la nostra avversione contro la morte e il peccato, e la unisce con la volontà del Padre: “Non la mia volontà ma la tua”. In questa trasformazione del “no” in “sì”, in questo inserimento della volontà creaturale nella volontà del Padre, Egli trasforma l'umanità e ci redime. E ci invita a entrare in questo suo movimento: uscire dal nostro “no” ed entrare nel “sì” del Figlio. La mia volontà c'è, ma decisiva è la volontà del Padre, perché questa è la verità e l'amore.

Benedetto XVI