DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

D'Avenia o Moccia: parlare d'amore?

Autore: Erica  Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
domenica 3 luglio 2011

Bianca come il latte rossa come il sangue, nella rilettura di una diciottenne
TRAMA: Leo è un sedicenne come tanti: ama le chiacchiere con gli amici, il calcetto, le scorribande in motorino e vive in perfetta simbiosi con il suo iPod. Le ore passate a scuola sono uno strazio, i professori “una specie protetta che speri si estingua definitivamente”. Così, quando arriva un nuovo supplente di storia e filosofia, lui si prepara ad accoglierlo con cinismo e palline inzuppate di saliva. Ma questo giovane insegnante è diverso: una luce gli brilla negli occhi quando spiega, quando sprona gli studenti a vivere intensamente, a cercare il proprio sogno.
Leo sente in sé la forza di un leone, ma c’è un nemico che lo atterrisce: il bianco. Il bianco è l’assenza, tutto ciò che nella sua vita riguarda la privazione e la perdita è bianco. Il rosso invece è il colore dell’amore, della passione, del sangue; rosso è il colore dei capelli di Beatrice. Perché un sogno Leo ce l’ha e si chiama Beatrice, anche se lei ancora non lo sa. Leo ha anche una realtà, più vicina, e, come tutte le presenze vicine, più difficile da vedere: Silvia è la sua realtà affidabile e serena. Quando scopre che Beatrice è ammalata e che la malattia ha a che fare con quel bianco che tanto lo spaventa, Leo dovrà scavare a fondo dentro di sé, sanguinare e rinascere, per capire che i sogni non possono morire e trovare il coraggio di credere in qualcosa di più grande.

Bianca come il latte, rossa come il sangue” non è solo il racconto di un anno di scuola; è un testo coraggioso che, attraverso il monologo di Leo, ora scanzonato e brillante, ora più intimo e tormentato, racconta cosa succede nel momento in cui nella vita di un adolescente fanno irruzione la sofferenza e lo sgomento e il mondo degli adulti sembra non aver nulla da dire.


PERCHÉ PROPRIO QUESTO TITOLO?
“Bianca come il latte, rossa come il sangue” rappresenta i due colori della vita di Leo. Imparerà a conoscerli così profondamente bene fino a quando le due parole si uniranno a dare come risultato un termine terribile perché incomprensibile agli occhi di un giovane: la leucemia. Leo, attraverso un percorso fatto di dolore darà un nuovo significato ai due colori. Il bianco non sarà più il vuoto, il nulla, l’assenza. Diventerà il colore della purezza, della pulizia, dell’innocenza, della nascita. Il rosso non sarà solo l’amore ma diventerà il colore del movimento, dell’attività e del coraggio. Il coraggio della crescita. Attraverso la realizzazione dei suoi sogni. Evitando, una volta realizzati, di vederli come spesso accade agli adulti, pieni di difetti.
PERCHÉ IL NOME BEATRICE?
Lo scrittore ha scelto il nome Beatrice per vari motivi.
Innanzitutto voleva ancorare la sua storia ad un testo che ama e che gli ha cambiato la vita, e che secondo lui troppo pochi leggono (La Divina Commedia ovviamente).
Voleva che la sua Beatrice fosse un personaggio di confine tra terra e cielo, come è stata per Dante. Senz’altro nel romanzo Leo idealizza Beatrice, ma Beatrice è la realtà, non un’idea di donna. La sfida che D’Avenia ha cercato di affrontare è stata quella di raccontare che a volte il paradiso si nasconde nella realtà anche più incomprensibile e dolorosa. Beatrice porta Leo nella realtà, come accade a Dante e come accade ad ogni uomo che trovi sul suo cammino una donna vera.

In un intervista fatta allo scrittore gli viene posta la seguente domanda:
«I giovani, agli occhi degli adulti, vivono un lungo letargo che li fa apparire apatici: l’adolescenza. Leo ha una vibrazione che lo rende maturo, vivo, partecipe del mondo. È sempre necessario un passaggio attraverso il dolore per imparare?»

Alessandro risponde:
«Non è necessario il passaggio attraverso un dolore potente come quello che Leo sperimenta, ma l’adolescenza è in sé dolore in quanto fase di passaggio dal mondo magico dell’infanzia alla fatica della vita vera, piena di incertezze. Ogni rito di passaggio nella vita è doloroso, ma il dolore del transito dell’adolescenza è un dolore di “parto”: nasce una creatura nuova; un uomo e una donna capaci di affrontare l’unica vita che hanno a viso aperto».

Per lo scrittore gli adolescenti non cambiano nel profondo. Le domande, le battaglie, i sogni, le sconfitte sono le stesse di tutti gli uomini da secoli. Ciò che è cambiato è la rapidità con cui si entra in contatto con il mondo. Molti anni fa tutto era più graduale; adesso tutto ti arriva addosso subito e la quantità di messaggi confonde la possibilità di decodificarli in una età di per sé già confusa per i mutamenti personali.
Nel romanzo questo si vede nel continuo cambiare di Leo, che si lascia guidare dalle emozioni, ma a poco a poco trova la rotta...
D’Avenia ci dice dunque che occorrono parole che i ragazzi capiscano, gesti che loro apprezzino. Come ha saputo fare in quell’unica ora di supplenza in una quinta ginnasio di un liceo classico di Roma il “professore”. Delicatamente, ma anche per caso, si è intrufolato nella loro quotidianità. Rubando loro solo un’ora. Ma rendendosi comprensivo e partecipe con le sue storie, con la sua sensibilità. E sarà anche grazie all’incontro con questo professore che Leo inizierà il suo totale percorso verso il cambiamento.

Se riflettiamo un attimo, è la stessa esperienza affrontata da Dante. Come Dante conosce? Attraverso degli incontri che gli svelano ciascuno un pezzo di realtà, attraverso i diversi personaggi che lo introducono a tutti gli aspetti della vita; uomini che lo incuriosiscono e a cui lui può domandare. Fino all’ultimo incontro, nel paradiso, in cui gli sarà svelata la totalità della realtà.
Così dovremmo fare con tutto! Per esempio lo studio: se non fa parte della meravigliosa avventura della conoscenza di sé, se ognuno non fa esperienza nel quotidiano del grande viaggio di Dante, a che pro studiare? Studiare è incontrare pezzi di realtà, persone che hanno qualcosa da dire alla nostra vita! Non dobbiamo pensare che i momenti difficili, le paure, i dubbi non ci saranno mai, perché ciò è inevitabile. Lo stesso Dante, come noi, era confuso, impaurito. Ma poi ha incontrato Virgilio, Beatrice, Bernardo. Degli amici. Occorre incontrare qualcuno che ti prenda per mano e ti introduca alla conoscenza della realtà. Occorre un maestro. Qualcuno che non si sostituisca a te, ma che ti richiami, ti sostenga, che tenga sempre desto il tuo cuore. E che ti incoraggi quando sbagli, perché anche l’errore fa parte dell’avventura del conoscere! Dovremmo imparare a vedere la scuola come luogo di educazione, come luogo in cui un ragazzo è introdotto alla conoscenza di sé e della realtà.
Proprio all’inizio del viaggio nel Purgatorio, Catone si rivolge a Virgilio e lo sollecita a cingere i fianchi di Dante con un giunco; poi lo invita a lavargli il viso e gli occhi per liberarlo di tutto il sudiciume accumulato durante il viaggio all’Inferno, perché non sarebbe conveniente presentarsi a un angelo del paradiso con gli occhi offuscati dalle nebbie infernali.
In queste parole è contenuta una grande idea. Catone invita Virgilio a lavare il volto e gli occhi di Dante; lui da solo non è in grado di farlo. Ci sono sui suoi occhi delle squame, che gli impediscono di vedere chiaramente la strada che lo conduce verso la luce, la chiarezza, la realizzazione della felicità. Si sono depositate nel tempo a causa dell’abitudine al male, della distrazione, dei condizionamenti del potere, dei cattivi consiglieri. Uno non può far nulla per togliersi queste squame, il più delle volte neanche se ne accorge. Perciò viviamo così, con la vista offuscata. Ci vuole il sapone, ci vuole l’acqua. Cosa sarà mai questa saponetta, questo detergente? Chiaro, è la vera amicizia, il vero amore!
Ma come è raro oggi trovare gli amici veri, che abbiano una grande passione per noi, per il nostro destino, per il nostro bene.
E ancora più raro è trovarlo in un’ esperienza di innamoramento. Sia l’amicizia che l’amore tendono a diventare possesso, uso, strumentalizzazione dell’altro, delle proprie idee, del proprio piacere, della propria istintività.
Ci vuole una riscossa, che consiste nell’incontrare qualcuno che avendo scoperto la grandezza del proprio cuore, ami a tal punto la grandezza del nostro da dirci: alza lo sguardo, tu sei fatto per le stelle, tu sei fatto per la luce, non la luce artificiale, abbagliante della discoteca, ma la luce della verità. Ma cosa è questa verità? Un uomo che è presente! Un uomo che conosce il tuo cuore, che non ne rinnega la grandezza. Uno che scommette sul tuo cuore perché è certo che quel che tu desideri è possibile. Questo è il vero amico e il vero amore!

ALESSANDRO D’AVENIA PER ME...
Un giovane ma serio e grande uomo questo D’Avenia. Leggendo il libro sono rimasta assolutamente colpita dalle tematiche affrontate dall’autore. Non è stata la semplice storiella d’amore tra due adolescenti… Penso di non aver mai letto un libro in cui venivano sfiorati tutti gli interrogativi, i pensieri, le paure che provo anch’io, ma che provano credo anche gli adulti. Per me leggere questo romanzo è stato un vero e proprio percorso, un viaggio, che è servito a Leo, ma devo ammettere anche a me, a conoscersi davvero, a riscoprirsi piano piano e infine a rinascere. E’ riuscito a fare esperienza della morte di Beatrice e a ridare appunto al bianco e al rosso due significati più profondi e completi, diversi da quelli di partenza. Ciò che traspare dalle righe è uno scrittore, ma prima di tutto un uomo umile; si vede che ci tiene ai suoi personaggi, tanto da sembrare reali, quasi come fossero i miei compagni di classe e il mio professore. Sono sicura che qualsiasi scrittore che pubblica libri esclusivamente per far successo, guadagnare, diventare noto, non riuscirebbe a scrivere neanche un decimo di “Rossa come il sangue, bianca come il latte”. E sinceramente mi fanno solo sorridere alcuni critici che lo hanno definito “troppo semplice”. Io dico che si possono usare le parole più semplici, banali, scontate, ma quello che mi ha lasciato questo romanzo, il suo significato, è più profondo di un manuale di 2000 pagine di chissà quale autore; e il motivo è semplice: D’Avenia ha parlato della pura realtà di tutti i giorni, dei problemi che coinvolgono tutti gli uomini. Eccezionale, questo è l’aggettivo che attribuirei ad Alessandro e al suo libro!

CONFRONTO TRA ALESSANDRO D’AVENIA E FEDERICO MOCCIA
Leggendo qualche articolo in Internet molte volte ho trovato commenti di persone che associano i libri di Federico Moccia (es. “Tre metri sopra il cielo”, “Ho voglia di te”, “Amore 14”), al romanzo di D’Avenia.
A mio avviso non esiste il minimo paragone perché D’Avenia mostra di conoscere bene le inquietudini, le paure e i desideri di noi ragazzi.
Nei libri di Moccia, l’amore è solo un sentimentalismo fatto di emozioni effimere, false, vaghe, teso al reciproco possesso e alla soddisfazione sessuale. 

In questo libro si respira invece un’autenticità che permette di comprendere che l’amore, anche quello adolescenziale, è fatto d’attrazione, follia, capacità di sacrificio, offerta di sé, di lacrime, ma anche di gioia, che sprizza da tutti i pori; insomma che l’amore vero è un dono imprevisto.

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