DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

INNOCENTI, 16 ANNI DOPO. I pedofili e satanisti della Bassa Modenese non erano né pedofili né satanisti. Così hanno ammazzato una comunità cattolica


INNOCENTI, 16 ANNI DOPO

di Lucia Bellaspiga

Il 12 novembre 1998, in piena notte e tra urla disperate, i loro quattro bambini erano stati portati via dalle forze dell’ordine. L’accusa per i due genitori, Lorena e Delfino Covezzi, era di far parte di una banda criminale di pedofili satanisti.

Per sedici anni da quel giorno non hanno più potuto vedere i loro figli (la più piccola aveva 3 anni, la più grande 11) cui nel frattempo è stato raccontato di quei due genitori orchi, responsabili di violenze inaudite, orge nei cimiteri, profanazioni, abusi su decine di bambini, persino decapitazioni delle piccole vittime.

Ieri, 4 dicembre 2014, la giustizia di questo Stato ha ammesso l’errore: assolti definitivamente per non aver commesso il fatto. Una sentenza che Lorena, 55 anni, ha potuto accogliere da sola, perché nel frattempo suo marito è morto, di infarto. Come don Giorgio Govoni, parroco amatissimo nella Bassa Modenese, presunto capo dei satanisti pedofili, assolto e riabilitato dopo il crepacuore che se l’è portato via nel maggio del 2000 nello studio del suo avvocato. E come altre sei persone di questa orrenda storia che da 17 anni sconvolge i tranquilli paesini della Bassa (un’altra delle mamme accusate si suicidò), e conta una ventina di bambini tolti all’epoca ai loro genitori.

“Il mio secondo pensiero è andato a mio marito – racconta in lacrime Lorena dopo l’assoluzione –. Il primo è andato ai nostri quattro figli, che ormai hanno dai 20 ai 27 anni e che non vogliono più nemmeno sentire nominare la loro mamma”.

È lo stesso copione tragico nel quale ci imbattiamo ogni volta che incontriamo un caso di falso-abuso: negli anni disperati della separazione i bambini, allontanati a forza dai genitori, si convincono non solo della loro colpevolezza, ma soprattutto di essere stati abbandonati. E non perdonano.

“Quando la maggiore ha compiuto i 18 anni, la zia paterna ha provato a parlarle, ma lei l’ha scacciata urlando che da 7 anni aspettava almeno una cartolina e che l’avevamo abbandonata”, spiega Lorena. Ci parla per telefono dalla Francia in cui vive: “Quando i servizi sociali di Mirandola seppero che aspettavo il quinto figlio, avvertirono il tribunale dei minori, così scappai a partorire all’estero, non certo per sottrarmi ai processi, tant’è che Delfino è rimasto in Emilia a difendersi, ma per salvare almeno Stefano”, il quinto figlio, l’unico che le è rimasto. C’era infatti un precedente, un’altra delle coppie accusate aspettava un bimbo e appena nato le fu tolto…

Innocenti, dunque. Ma Agnese, Enrico, Paolo e Valeria non lo sanno, non vogliono nemmeno saperlo, ormai cresciuti in famiglie affidatarie che si sono succedute al loro fianco, ma soprattutto sempre in contatto con quei servizi sociali e psicologi che combinarono il guaio:

“Tutto iniziò nel 1997, quando la nostra nipotina, una bimba di 8 anni con forti disagi psichici e quindi già in carico ai servizi sociali, prese a raccontare di orchi e uccisioni. Non c’era altro che i suoi racconti, ma venne creduta e man mano la valanga si ingigantì”. Il vero problema è il metodo utilizzato da psicologi e assistenti sociali, che interrogarono sempre più bambini con una tecnica americana oggi inconcepibile, allora ritenuta all’avanguardia: una suggestione progressiva del bimbo cui, a partire da sogni o da frammenti di colloqui, si suggerivano le risposte che da loro ci si aspettava.

Oggi la Carta di Noto e il Protocollo di Venezia impediscono questo scempio e i periti vengono formati a raccogliere le testimonianze dei piccoli senza suggestionarli, filmando e registrando ogni colloquio. Nel caso della Bassa Modenese, invece, i video sono un’eccezione e dai pochi che restano si vede bene come si arrivò a don Giorgio Govoni: Piccolina, chi era quell’uomo? Un dottore? Risposta: sì. Ma poteva anche essere un sindaco? Sì. Anche un prete? Sì. Poteva chiamarsi Giorgio? Hai mai sentito questo nome? Ovvio che sì.

La piccola raccontava di bimbi decapitati e poi buttati da don Giorgio nel fiume, così, anche se in paese nessun bambino mancava all’appello, fu dragato il Panaro, un’operazione da 280 milioni di lire…

La psicosi si diffuse, decine di bambini aggiunsero racconti a racconti, sempre interrogati col metodo “americano”, e 17 adulti finirono inquisiti, oltre a 7 preti poi risultati del tutto estranei. Sette persone morirono di crepacuore (la cognata di Lorena, madre della bimba psicolabile, perì in cella a 36 anni), ma soprattutto nessuno di quei venti piccoli allontanati vuole più rivedere i genitori.

“Se io e Delfino non siamo impazziti è solo grazie alla fede e alla totale solidarietà del paese, che ha sempre sostenuto la nostra innocenza – conclude Lorena –. Ora però vorrei tanto riuscire a farmi ascoltare dai miei figli, spiegare loro che li ho sempre cercati. Ho saputo dove vivono solo un anno fa, alla morte di mio marito, per la successione, perché i pochi averi li ha lasciati a loro… ma hanno rifiutato anche questo. Mi affido allo Spirito Santo, che mi aiuti”.

“La corte d’appello nella sentenza di assoluzione critica fortemente l’operato della ASL di Mirandola e parla a chiare lettere dell’impreparazione degli psicologi – sottolinea l’avvocato Pier Francesco Rossi –. Ora saranno verificate le responsabilità per avviare un’azione civile: qualcuno deve pur pagare”.

“Ma nessuno restituirà la vita a questa famiglia, che era bellissima”, nota don Ettore Rovatti, autore anche di un ampio volume su tutta questa storia, scritto nel 2003 e giudicato dal tribunale ineccepibile nei contenuti. “Ammiro la loro forza, hanno sempre avuto fiducia nel bene, anche nei momenti peggiori. Io mi chiedo: qual è il potere che ha il diritto di strappare per 16 anni i figli ai loro genitori? Lo Stato ha abusato del suo potere, questi quattro ragazzi sono rovinati per sempre”.

“Uno Stato che assolve una famiglia dopo averla distrutta”, conferma Carlo Giovanardi, che già nel 1998 come vicepresidente della Camera chiese al ministro della giustizia Diliberto di intervenire.



Avvenire



I pedofili e satanisti della Bassa Modenese non erano né pedofili né satanisti. Così hanno ammazzato una comunità cattolica  


Non erano pedofili, non erano satanisti, non rapivano i bambini seviziandoli in orge truculente. Dopo sedici anni (sedici anni!) si conclude con un’assoluzione l’incredibile vicenda di un piccola comunità della Bassa Modenese, in cui sono state coinvolte (e distrutte) le vite di famiglie, minori, sacerdoti. Tutti assolti. Ma a che prezzo? Al tremendo prezzo di esistenze triturate in un caso giudiziario che Tempiseguì sin dal principio, mostrando come le inoppugnabili prove presentate dai magistrati non fossero poi così inoppugnabili e dove solo qualche politico coraggioso (il senatore Carlo Giovanardi su tutti) ebbe il coraggio di protestare.
È una vicenda lunga, complessa e strabiliante. Ieri Lorena Morselli e Delfino Covezzi sono stati riconosciuti innocenti dall’accusa rivolta loro più di tre lustri fa. La sentenza dice che non hanno commesso il fatto.

HORROR DI PROVINCIA. Tutto cominciò il 12 novembre 1998, alle cinque di mattina, quando le forze dell’ordine irruppero a Massa Finalese (Mo) in casa Covezzi portando via i quattro figli (la maggiore aveva solo 11 anni). L’accusa per Lorena e Delfino era infamante: pedofili satanisti. Tutto era partito dalle accuse rivolte loro da una piccola cugina di otto anni con disturbi mentali e da un altro bambino, entrambi in carico ai servizi sociali, che raccontarono di strani riti in cui era coinvolto il parroco don Giorgio Govoni. Racconti pazzeschi, in cui genitori complici del sacerdote mettevano a disposizione i corpi dei propri figli in cerimonie orgiastiche nei cimiteri in cui avvenivano persino delle decapitazioni. In un’escalation granguignolesca, i piccoli venivano prelevati a scuola da un bus parrocchiale e portati in luoghi oscuri, dove la setta dei genitori compiva i suoi più atroci delitti.
«Durante queste messe nel cimitero, i grandi ci hanno fatto lanciare in aria dei bambini che poi ricadevano per terra e forse morivano», raccontò la bimba cui psicologi e magistrati diedero retta. Tutto tornava nella sceneggiatura del film horror di provincia: coppie all’apparenza irreprensibili e cattolicissime (Lorenza era insegnante nell’asilo parrocchiale), in combutta col sacerdote, compivano riti malvagi su bambini offerti loro, dietro compenso, dalle famiglie indigenti della zona. Si parlò addirittura di un fotografo che filmava e fotografava le pratiche per poi rivendere il materiale e di una bambina seviziata alle 13 di pomeriggio in un bosco vicino alla scuola, con una frasca di quaranta centimetri, dal nonno e da due zii.

SUGGESTIONI. I servizi sociali dell’Ausl avevano condotto i colloqui con i minori da cui erano partite le denunce. Coordinati da Marcello Burgoni, un ex seminarista, i servizi sociali avevano deciso di dare credito alle fantasie di quei due bambini. Di quei colloqui, si è scoperto in questi anni, non sono mai stati conservati né appunti né registrazioni. Oggi su Avvenire, Lucia Bellaspiga, racconta che «psicologi e assistenti sociali interrogarono sempre più bambini con una tecnica americana oggi inconcepibile, allora ritenuta all’avanguardia: una suggestione progressiva del bimbo cui, a partire da sogni o da frammenti di colloqui, si suggerivano le risposte che da loro ci si aspettava. Oggi la Carta di Noto e il Protocollo di Venezia impediscono questo scempio e i periti vengono formati a raccogliere le testimonianze dei piccoli senza suggestionarli, filmando e registrando ogni colloquio. Nel caso della Bassa Modenese, invece, i video sono un’eccezione e dai pochi che restano si vede bene come si arrivò a don Giorgio Govoni: Piccolina, chi era quell’uomo? Un dottore? Risposta: sì. Ma poteva anche essere un sindaco? Sì. Anche un prete? Sì. Poteva chiamarsi Giorgio? Hai mai sentito questo nome? Ovvio che sì».
La comunità del paese era incredula. Possibile che tutto ciò sia fosse avvenuto senza che nessuno si fosse mai accorto di nulla? Possibile che il medico della famiglia Covezzi non si fosse mai accorto della violenze sui bambini? Possibile che tutte le ricerche nel fiume – dove si diceva fossero stati gettati dal prete i corpi dei bambini – non avessero mai portato mai ad alcun ritrovamento? Intanto, però, le famiglie furono divise e tredici minori sottratti ai genitori della setta. Una congrega che secondo gli inquirenti coinvolgeva 17 persone e sette sacerdoti.

UN PROCESSO KAFKIANO. Qui inizia la storia di un processo che definire kafkiano è un eufemismo, con consulenti della procura che firmarono perizie in cui gli abusi erano solo presunti ma non verificati, periti di parte civile non ammessi. Intanto, però, il Tribunale dei minori continuò per mesi a firmare provvedimenti “provvisori”, impedendo i ricorsi ai Covezzi. È la storia di un processo in cui gli appunti dei colloqui coi bambini andavano incredibilmente “perduti” e bambine che si presumeva essere state abusate «cento volte» e che risultavano, invece, essere vergini. Con gli anni, tutte le accuse sono cadute man mano: la piccola violentata nel bosco vicino alla scuola? Il bosco non esiste, la minore uscì regolarmente da scuola coi compagni. E il nonno e gli zii pedofili? Quel giorno non erano lì: abitano a 85 chilometri di distanza.

MORTI DI CREPACUORE. Pian piano (molto piano) la verità è venuta a galla. E così si è scoperto che l’inferno non era quello prospettato da giudici e assistenti sociali, ma quello vissuto dalle famiglie coinvolte nella vicenda. Una delle madri si è suicidata. Sette persone sono morte di crepacuore; tra queste anche don Govoni, cadendo nelle braccia del suo avvocato un giorno prima della sentenza. Lorena è fuggita in Francia, lasciando in Italia il marito Delfino che ha proseguito nella battaglia giudiziaria di cui, tragica sorte, non ha potuto vedere la conclusione perché è morto d’infarto prima dell’assoluzione. Parlando con Avvenire, Lorena ha raccontato tra le lacrime le sofferenze di questi anni in cui i suoi quattro figli, affidati ad altre famiglie, hanno sempre rifiutato di incontrarla. «Se io e Delfino non siamo impazziti è solo grazie alla fede e alla totale solidarietà del paese, che ha sempre sostenuto la nostra innocenza. Ora però vorrei tanto riuscire a farmi ascoltare dai miei figli, spiegare loro che li ho sempre cercati. Mi affido allo Spirito Santo, che mi aiuti».

CHI PAGA? E’ GIUSTIZIA QUESTA? Ieri in aula al Senato, Giovanardi ha pronunciato un breve discorso per ricordare questa tragica vicenda, di cui – a parte Avvenire e Tempi – nessuno conserva più memoria. «Mi domando e domando a voi – ha chiesto il senatore rivolgendosi ai colleghi – che sistema giudiziario è quello che distrugge una famiglia, porta via ai genitori i quattro figli minorenni e solo dopo 16 anni comunica loro quello che fin dall’inizio si capiva e cioè che erano totalmente innocenti rispetto agli addebiti infamanti loro rivolti. E malgrado il fatto che fossero già stati assolti in appello, la sentenza è stata impugnata in Cassazione. Sono stati di nuovo assolti in appello e nuovamente la sentenza è stata impugnata in Cassazione. Parliamo di prescrizione e di tempi della giustizia, ma forse dovremmo parlare anche di consapevolezza, di servizi sociali, di assistenti sociali irresponsabili e di magistrati che, comunque vada a finire un processo, hanno già massacrati gli imputati, colpevoli o innocenti che risultino essere alla fine del procedimento. Ebbene: chi paga? Chi risarcisce questa famiglia dal fatto di essere stata distrutta? E perché l’opinione pubblica non è stata coinvolta? Perché lei era una maestra d’asilo, fra le altre cose cattolica e che lavorava in parrocchia, o perché lui era un povero fuochista che lavorava nel settore della ceramica? (…) Sono voluto intervenire per abbracciare le vittime di questa vicenda, la mamma che è rimasta, il papà che è morto ed i figli che hanno subito questo massacro, sperando che nel Parlamento e nella magistratura (a proposito della quale parliamo di responsabilità civile) vi sia la consapevolezza che quando si tratta della vita delle persone la giustizia deve dare una risposta in tempi utili; la giustizia deve stabilire se una persona è colpevole o innocente, ma non può far stare un presunto colpevole tutta la vita sotto processo, perché quando alla fine la giustizia arriva, dopo 16 anni, purtroppo arriva fuori tempo massimo».


Tempi.it