DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

L’amore (imperfetto) di ogni giorno. Appassionato e faticoso: lo stare insieme che attraversa le stagioni della vita


di Silvia Avallone

Una delle immagini più
spietate che conservo
della mia adolescenza
è questa: il Corso affollato
il sabato pomeriggio di
una quasi estate, si fatica a
camminare; siamo tutti impegnati
a risaltare in bellezza o in
faccia tosta facendo avanti e indietro
instancabilmente; quello
che vogliamo è fare incetta di
sguardi, affermare la nostra
esistenza; non c’entra nulla con
l’amore questa battaglia, eppure
è il solo nome che diamo alla
ricerca forsennata di una dichiarazione,
addirittura di un
appuntamento. Ma l’immagine
a cui accennavo all’inizio non è
centrale, non ci passeggia a
fianco. Si staglia su una panchina
in fondo, tra un bancomat
e un’agenzia di viaggi. Sedute
perché in piedi non riuscirebbero
a starci, il corpo
fiaccato dalla decrepitezza, tre
vedove o zitelle. Non l’ho mai
saputo, perché fossero sole.
Era, per ironia della sorte, il periodo
in cui studiavamo
«L’umorismo» a scuola, e le tre
anziane sembravano lì apposta
per incarnare il saggio di Pirandello:
agghindate con gioielli,
fiori finti e spille, truccate così
pesantemente che i pomelli rosa
del fard potevi distinguerli
anche da molto lontano. Se ne
stavano spudoratamente in vetrina.
Volevano la nostra stessa
cosa.
Ricordo quanto ferocemente
le abbiamo prese in giro.
Piano, senza farci sentire: «Al
cimitero lo troveranno, il fidanzato
». Ma quella era l’epoca
dell’amore crudele, che ritenevamo
il solo plausibile; che a
noi spettava di diritto e a loro
no. Erano i nostri sedici anni
contro i loro ottanta, lo strapotere
del corpo in fioritura. E
noi vincevamo. E loro, senza
riuscire ad ammetterlo, finivano
di appassire.
Questo è l’amore che dura
una sola stagione. Dopo si
scompare, semplicemente, come
i gatti che vanno a morire.
Dopo le donne diventano madri
e non amano più. Si prendono
cura dei figli, sopportano
i mariti al ritorno dal lavoro,
escono di casa «infagottate».
Meste, in tuta e ciabatte, a sorvegliare
i desideri degli altri, a
soffocare i propri, perché il loro
momento di gloria è passato.
Se non lo accettano, allora
fanno ridere e pena.
Anche gli uomini, quelli in
compagnia di giovani badanti
straniere, quelli che pagavano
l’amore illudendosi di non farlo,
ci facevano lo stesso effetto
«umoristico». Perché l’amore
era lotta e conquista: spettava
al più forte, a chi aveva la natura
dalla sua parte. Così, pur
senza dirmelo, devo aver ragionato
da adolescente, in quella
stagione dell’amore immaginario,
raccontato fittamente
alle amiche.
Ricordo com’era abbacinante
quell’immaginazione, priva
di opacità e di difetti. Quanta
epica nei resoconti concitati di
finestrini infranti per gelosia,
di scenate cinematografiche in
mezzo alla strada, di possibili
fughe e «fuitine». Non ci ho
mai sentito descrivere, in quelle
circostanze, persone reali,
ma sempre fantasmi da noi
creati, quasi personaggi letterari.
Tutti i romanzi d’amore che
leggevo parlavano in fondo di
questo: dello struggersi per
un’idea. E più l’altro era assente,
difficile da conquistare e da
comprendere, più il desiderio
ingigantiva e idealizzava.
Imbattibile è L’educazione
sentimentale di Flaubert:
Frédéric Moreau butta via la
sua giovinezza per una causa
persa in partenza. Non avrà

mai Madame Arnoux, sposata
e inaccessibile. Eppure è lei
che vuole, è il desiderio impossibile
a cui non intende rinunciare.
E finché non l’avrà, potrà
tenersi al riparo. E il tempo
passerà inesorabile: imbiancherà
i capelli, si divorerà
l’amore rimasto pulito: perché
mai conosciuto, mai vissuto.
Leggere, scrivere è puro desiderio,
puro erotismo, e volontà
di sapere come andrà a
finire. L’amore, questo di cui
sto parlando, risponde alle
stesse leggi: divorare pagine,
dettagli, arrivare a svelare un
segreto esplosivo, bruciare in
questa attesa, navigare dentro
lo straordinario. E più sei bugiardo,
più sai raccontare. Più
giochi con la suspense, il pathos,
il dramma, più l’amore
feroce della conquista ti prende.
È una ricerca affamata, uno
sfiorare senza mai afferrare, un
mistero che ti tiene incollato
fino all’ultima pagina, fino all’altare.
Poi il libro è finito.
È difficilissimo raccontare
un amore coniugale che non
sia fatto almeno di litigi furibondi
e piatti scaraventati contro
i muri. Raccontare è attività
clandestina, fedifraga. Immaginare,
lo stesso: l’amore scritto,
filmato, cantato, invocato,
che non rincasa, non si sporca,
non invecchia. Questa è l’ebbrezza
del volere e non avere.
Ciascuno desidera vivere la
propria vita come un romanzo,
in un perenne stato nascente,
d’innamoramento che non si
consuma. Si può fare, a patto
di mentire molto bene, di sapertela
magistralmente raccontare:
questa illusione di essere
in due anziché tu con la
tua fantasia. E ti puoi anche divertire,
anzi devi: godere di
questa magnifica bugia. Tenendo
conto di una differenza:
che l’amore raccontato è immortale,
ma la vita è mortale
eccome.
Non ha niente di romanzesco:
è muta. Ha a che fare con
la «smarginatura» che Lila avverte
al fondo di tutte le sue
esperienze nell’Amica geniale
di Elena Ferrante. La vita non è
trama, non è intreccio. È caos,
spesso, incomprensibile. E
l’amore, non nella sua menzogna,
ma nella sua verità, appartiene
a questa vita nuda senza
parole. Non è mancanza che
genera sogni, ma il «privilegio
della presenza» di cui parla
Wislawa Szymborska in una
poesia difficile, straziante, perché
dice della solitudine immane
dopo la morte del suo
compagno, vissuta di fronte a
una primavera che ritorna.
L’amore mortale non è un
inizio che si rinnova a ogni
passo, e non si dissolve nel desiderio
di una perfezione. Credo
abbia piuttosto la consistenza
dei giorni che passano,
e non tema il sentimento di
una fine, laggiù da qualche
parte. L’ho trovato in quel
«gatto in un appartamento
vuoto» — per citare ancora la
mia poetessa preferita — che
aspetta un uomo amato ogni
mese, ogni anno, che non può
tornare. È questa assenza cruda
incisa dentro le cose, questo
limite inaccettabile del
tempo, che fa da contraltare all’atto
di presenza quotidiano
che per me è la forma reale dell’amore.
Una presenza appassionata,
difettosa, faticosa, che non abbiamo
mai finito di imparare.
Di fronte alla quale non valgono
pose né strategie. Con cui
abbiamo diviso le cose che
non fanno clamore, quelle che
non si possono dire. Non perché
ne avessimo bisogno. Ma
perché a un certo punto, dopo
molte titubanze, ne abbiamo
trovato il coraggio.
L’amore, per come lo vedo
adesso, è il contrario di tutte le
menzogne che ci diciamo per
raccontarci la vita che non stiamo
vivendo. Non è crudele,
non dura una sola stagione,
non si esibisce e non si trucca.
L’amore è esattamente, nel tuo
volto preciso, nei tuoi modi
imperfetti di fare, il tempo che
forse non ci darà ragione, ma
che abbiamo deciso di vivere
insieme.

Corsera 13 febbraio 2015