DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

L'eroe conservatore. Il “Diario di un disperato” dell’aristocratico Reck-Malleczewen, ucciso a Dachau, racconta come nessuno la vittoria dei dèmoni in Germania, e la loro sconfitta


Nicoletta Tiliacos
Il Foglio 11 febbraio 2015

Se questo Folle fosse stato ucciso in tempo,
Weimar avrebbe potuto sopravvivere
e l’attuale guerra avrebbe potuto essere
rimandata, o perfino evitata. Stando così
le cose, gli uomini devono morire con gli
occhi aperti, per compensare il cieco margine
del caso”. Era il 1942, quando Arthur
Koestler dava sull’Observer la sua interpretazione
sull’ascesa al potere di Hitler,
in un articolo intitolato “Il Grande Folle”.
L’autore di “Buio a mezzogiorno” non poteva
sapere che un uomo, in Germania, continuava
anche in quel momento a rimproverarsi
di non aver colto l’occasione, che
pure gli si era presentata dieci anni prima,
di uccidere colui che non era ancora il
Führer, ma che ai suoi occhi già rappresentava
la futura malattia mortale della
Germania.
Quell’uomo si chiamava Friedrich Reck-
Malleczewen ed era un aristocratico nato
nel 1884 nella Prussia orientale, in una famiglia
di Junker protestanti. Diventato
scrittore di libri per ragazzi e critico teatrale
dopo aver completato gli studi di medicina,
nel 1933 si sarebbe convertito al
cattolicesimo. La sua inflessibile opposizione
al nazismo – fu tra coloro che vissero
e morirono a occhi aperti, quando sopravvivere
significava spesso doverli chiudere
o distorglierli – lo avrebbe portato all’arresto,
nell’ottobre del 1944, e alla morte
nel campo di prigionia di Dachau, dove
fu giustiziato con un colpo alla nuca il 16
febbraio del 1945. Lasciò un diario che copre
il periodo dal maggio 1936 all’ottobre
del ’44: nascosto in una scatola di latta e
seppellito nella proprietà bavarese di
Reck, fu ritrovato dopo la fine della guerra,
ma dovette passare un quarto di secolo
perché fosse pubblicato. Si tratta di un documento
impressionante, sia per la carica
profetica (Reck riuscì a vedere la fine tragica
della Germania nazista nel momento
in cui essa sembrava invincibile, saldissima
all’interno e temuta dal mondo) sia per
l’assoluta originalità della prospettiva.
Quel documento – che non si fa fatica, dopo
averlo letto, a definire indispensabile,
per capire meglio come sia stata possibile
l’ascesa di Hitler – torna ora nelle librerie
italiane per Castelvecchi, che lo ripropone
nella traduzione di Matteo Chiarini pubblicata
da Rusconi all’inizio degli anni Settanta
e allora praticamente passata inosservata
(pesava, come è noto, l’etichetta “di
destra” di quell’editore). Si intitola, così
come voleva il suo autore, “Diario di un disperato”,
e nel 2013 ne è uscita una nuova
edizione anche in America, nella collana
Classics della New York Review of Books.
Ma ora lasciamo la parola a Reck e alla
sua occasione mancata, perché ne vale la
pena: “Fu in quell’autunno del 1932, carico
di apprensioni, quando la febbre colpì l’intero
paese. Ero a cena… all’Osteria Bavaria
di Monaco, quando entrò, solo e senza
le sue solite guardie del corpo. Colui che
nel frattempo era diventato uno dei tedeschi
più potenti sedeva lì, accanto al nostro
tavolo! Si sentì osservato ed esaminato in
modo critico da noi e divenne irrequieto. Il
suo viso assunse subito l’espressione cupa
di un piccolo impiegato entrato in un locale
a lui solitamente inaccessibile, il quale,
una volta seduto, pretende grazie al suo denaro
‘di essere servito e trattato bene come
i raffinati signori che gli sono accanto’.
Eravamo vicini al Gengis Khan vegetariano,
l’Alessandro astemio, il Napoleone
senza donne, la caricatura di Bismarck…
Ero giunto in città con l’automobile e, poiché
nel settembre del 1932 le strade non
erano più così sicure, portavo con me una
pistola carica. In quella sala semideserta
avrei potuto ucciderlo senza alcuna difficoltà.
Se allora avessi saputo quale ruolo
avrebbe assunto quell’infame, e gli anni di
sofferenza che ci ha fatto patire, lo avrei
certamente fatto. Ma allora lo consideravo
ancora un personaggio comico, e non sparai.
Non sarebbe comunque servito a nulla,
poiché la Provvidenza aveva già deciso
il nostro martirio. Se anche qualcuno lo
avesse incatenato ai binari, il treno sarebbe
deragliato prima di raggiungerlo”.
A differenza di Koestler, Reck era convinto
dell’ineluttabilità del baratro in cui
era precipitato il suo paese, ma almeno
dall’agosto del 1936 (data del brano prima
riportato) era altrettanto convinto di due
di Nicoletta Tiliacos
cose: il mondo stava andando verso la guerra
mondiale e la guerra si sarebbe conclusa
con la sconfitta di quella “colonia megalomane”
che era diventata la Germania.
Un anno dopo, nel settembre 1937, Reck si
rivolge idealmente agli amici già riparati
all’estero: “Dopo essere stati circondati da
tutti gli agi della civiltà, comprenderete
che la solitudine mortale della nostra vita
e l’atmosfera di catacomba satura di sofferenza
che respiriamo da tanto tempo hanno
reso i nostri occhi chiaroveggenti, capaci
di vedere nel futuro immagini che inizialmente
potrebbero spaventarvi? Che ne
è dell’ideologia del 1789, che vi circonda e
resta il fondamento della vostra vita e del
vostro pensiero, costituendo per voi qualcosa
di ovvio, come per il gambero la sua
corazza protettiva? Ma noi sappiamo che la
filosofia degli enciclopedisti, e ancor prima
quel processo di privazione del divino
iniziato con il Rinascimento, hanno prodotto
bagni di sangue… Non fatemi il torto di
considerare le mie intuizioni come fantasticherie
di un homo temporis acti o, peggio,
come allucinazioni di un uomo in preda
alla febbre perché contaminato dalla
peste che lo circonda! Ciò che subiamo oggi
in questo paese non è forse l’ultima conseguenza
del 1789?”.
Reck arriva, per vie di “chiaroveggenza”
(o, se si preferisce, di capacità di lettura
dei segni dei tempi), a conclusioni non lontane
da quelle che altri, come per esempio
lo storico francese François Furet, faranno
proprie nell’analizzare i fondamenti di tutti
i totalitarismi. Quella particolare “demenza
dello stato” che l’aristocratico tedesco
vede incarnata in un “nazionalismo
senza nazione”, dove “si vorrebbe che i nostri
occhi brillassero di gioia per ogni bottone
da pantaloni fabbricato in Germania”,
laddove nel 1500 la Germania era una “nazione
senza nazionalismo”, ha a che fare
con i nuovi idoli che hanno sostituito Dio
ma anche “i vecchi dèi”. I segni premonitori
della grande crisi mondiale sono per lui
evidenti nelle stesse “costruzioni della ragione
umana che vi sembravano così sicure”,
scrive ancora idealmente agli amici
esuli, che spera possano leggere, a incubo
finito, le sue parole. E non era stata forse
quella “negatività di tipo intellettuale (oserei
dire universitaria)” ad aver depotenziato
e ridotto al silenzio un genio come
Oswald Spengler? Il “Diario di un disperato”
si apre proprio con la morte dell’autore
del “Tramonto dell’occidente”, del quale
Reck disegna un ritratto al limite dell’irriguardoso,
ma senza mai attribuirgli inesistenti
connivenze con il nazismo. Spengler
appare come una specie di Pantagruel vestito
di tweed e avvolto da mantelli lussuosi,
ossessionato dalla gola e dal desiderio
di ricchezza, schiavo della cucina succulenta
della sorella-governante e capace di
mangiarsi un’oca da solo al tavolo dove siede
con altri commensali (tra i quali lo stesso
Reck) tranquillamente lasciati a digiuno,
all’epoca di razionamento del cibo
coincisa con la fine della Prima guerra
mondiale. L’aristocratico aveva più volte
ospitato Spengler nella sua proprietà di
Chiemgau, nell’Alta Baviera, quando ancora
il filosofo non era né famoso né ricco, e
prima che la “cricca” degli industriali tedeschi,
vista da Reck come l’accolita di corruttori
all’origine della degradazione della
Germania, se lo comprasse per qualcosa in
più che un semplice piatto di lenticchie.
Anche in ritratti dal vivo come questi –
o come le tante scene di vita quotidiana ai
tempi del Terzo Reich di cui è ricco il memoir
di Reck – troviamo una possibile spiegazione
del “come sia stato possibile”. Nelle
pagine del “Diario di un disperato” ci
imbattiamo in nobili asserviti al nuovo padrone
della Germania, dimentichi delle
elementari leggi dell’onore. Vediamo figli
rinnegare i padri e madri rinnegare i figli;
entriamo nelle case degli ebrei berlinesi
cacciati da vicini desiderosi di cogliere la
ghiotta occasione di allargare il proprio
appartamento; leggiamo e ridiamo (novembre
1939) “dell’incredibile lettera aperta”
con cui il compositore Hans Pfitzner “si lamenta
presso tutti i direttori di teatro e naturalmente
presso tutte le autorità naziste
competenti che si trascuri proprio lui, il
maestro tedesco per antonomasia, mentre
Verdi, i cui libretti sono violenti e sanguinari,
figura costantemente nei repertori…
E’ davvero curioso che Pfitzner, il quale ha
raffazzonato la musica più antimusicale
che io conosca, osi accostare il suo nome a
quello di un gigante come Verdi”; assistiamo
a una cena (maggio 1937) alla quale partecipa
una nipote di Churchill, Unity
Mitford, “figura che è una via di mezzo tra
la réclame del sapone da toeletta e l’arcangelo”.
La quale “siede alla corte di Hitler,
alla Obersalzberg, per diventare imperatrice
dei tedeschi e avviare la grande riconciliazione
tra la Germania e l’Inghilterra”
(Reck annuncerà, nel gennaio 1940, quella
che credeva fosse la morte della Mitford.
Aveva avuto un’informazione sbagliata,
perché la donna, disperata dopo la dichiarazione
di guerra della Gran Bretagna alla
Germania, sopravvisse a quello come a
un precedente tentativo di suicidio; sarebbe
morta nel 1948).
L’antinazismo di Reck è quello di un monarchico
fino al midollo, di un antimodernista
e conservatore accanito, di un aristocratico
sprezzante verso l’accolita di “dattilografe,
maestri di scuola ed ex ufficiali”,
i grandi sostenitori del Führer, vestiti di
pessime stoffe, con orribili stivali e – nel
caso delle dattilografe – di dozzinali calze
sintetiche Bemberg. A Hitler, prima ancora
degli orrori, Reck rimprovera la volgarità
mostruosa, il berretto da bigliettaio del
tram con i fregi argentati che fa risaltare
quel “viso rotondo stralunato, insulso, flaccido,
in cui due occhi vitrei e malinconici
spiccano come grani di uva secca. Così triste,
così incredibilmente insignificante e
rozzo che appena trent’anni fa, nel periodo
più oscuro dell’età guglielmina, sarebbe
stato impossibile trovare un ufficiale con
quel viso, non fosse altro che per ragioni
estetiche. Se avesse occupato la poltrona
di un ministero, gli avrebbero rifiutato subito
l’obbedienza – non solo gli alti funzionari,
ma persino i portieri e le domestiche”.
Reck scoppia di odio, ma questo non
gli impedisce di pensare. Vede nel nazismo
il risultato dell’asservimento dell’“uomo di
massa” (ma, scrive, “non rinuncerò mai alla
convinzione che l’uomo di massa è
tutt’altra cosa rispetto all’operaio, che lo si
può incontrare più frequentemente negli
uffici direttivi delle grandi imprese e tra la
dorata gioventù industriale”). Hitler è per
lui l’“Anticristo piccolo-borghese”, il “Tamerlano
vegetariano”, il “Machiavelli per
domestiche”.
Chi cerca buoni sentimenti democratici,
nel “Diario di un disperato” non ne troverà.
Troverà l’orrore per quel ragazzo della
gioventù hitleriana che stacca il crocefisso
dal muro della classe, a Monaco (è il
1936), e lo lancia dalla finestra piangendo e
urlando: “Sta’ lì, sporco giudeo!”. Troverà,
riportata integralmente e datata 22 settembre
1939, la lettera di un giovane capitano
dell’aviazione che scrive al suo vecchio e
“grande amico Reck-Malleczewen”, raccontandogli
l’entusiasmo per le prime missioni
sulla Polonia e chiedendogli di comprenderlo:
“Non so, Reck, se conosca la Polonia
e fino a che punto riconosca il nuovo
ordinamento che qui si è imposto in maniera
definitiva. So una cosa sola: questo ordinamento
resterà, a costo di ridurre l’Europa,
Inghilterra compresa, in cenere”.
Senza contare che “la sola idea che Vienna
è città del Reich tedesco, senza particolarismi,
mi procura ancora adesso in piena
guerra un piacere fisico”. Non è, chiosa
Reck, la lettera di un teppista o di un criminale
evaso dalla prigione. L’autore “è un
buon ragazzo dagli occhi azzurri luminosi,
con l’eterno sorriso da bambino, del tutto
inoffensivo nella vita civile… un uomo nato
in una buona famiglia borghese della
Renania non priva di tradizioni culturali.
Ma le sue parole sono il risultato di tutte
le vittorie ottenute senza difficoltà e
dell’‘ortodossia’ nazionalsocialista”.
Al cuore della resa della Germania al
nazismo, scrive Reck nel suo diario, c’è
qualcosa che può essere spiegato con il ritorno
di un antico dèmone, come se “le pulsioni
represse, morbose di una personalità
fallita si siano combinate con un capriccio
della storia che gli ha permesso di giocare
con le leve del suo congegno complicato,
come un tempo ad Atene l’ha permesso al
conciatore di pelli Cleone (il demagogo ateniese
che fu per qualche tempo padrone
della città, ndr). Penso che tutto questo sia
coinciso con uno stato febbrile di questo
popolo. Penso che questo dèmone, degno
solo di essere compatito, uscito da una
geenna fangosa di Strindberg, si sia presentato
nel momento di suppurazione di un
ascesso, come fu un tempo per Bockelson”.
Reck si riferisce al protagonista della vicenda
storica alla quale stava dedicando
un libro mentre teneva il suo diario. Quella
della città stato di Münster, fondata dagli
anabattisti nel XVI secolo: “Mi sconvolge la
lettura dei documenti medievali riguardanti
questa eresia tipicamente tedesca. In
ogni aspetto, perfino nei minimi particolari,
rappresenta un presagio di quello che
stiamo vivendo al giorno d’oggi. Proprio come
la Germania attuale, per anni Münster
si isola completamente dal mondo civile,
riporta successi per un lungo lasso di tempo
e sembra invincibile. E infine, d’un tratto,
oltre ogni aspettativa, crolla per un’inezia…
Come nel nostro caso, il grande profeta
è un bastardo concepito nei bassifondi,
di fronte al quale l’opposizione capitola
fra lo stupore del resto del mondo. Come
da noi – poiché recentemente, a Berchtesgaden,
delle donne impazzite hanno ingoiato
la terra che il nostro grazioso principe
degli zingari aveva appena calpestato!
– i sostenitori più attivi del regime sono
donne isteriche, maestri di scuola elementare,
preti scomunicati e la feccia di ogni
ceto sociale”. Nella Germania di Hitler,
“così come a Münster, un sottile strato di
ideologia nasconde un fondo di oscenità, di
avidità, di sadismo e di brama di potere”.
Reck considera “uno scherzo che la storia
ha anticipato di quattro secoli” la circostanza
che “Dusentschur, il ministro della
Propaganda di Münster, fosse zoppo come
Goebbels”. E concludeva (era l’11 agosto
del 1936, il nazismo è all’apogeo): “Mancano
giusto alcuni dettagli per coincidere
pienamente: nella città-stato assediata e ridotta
alla fame le persone inghiottivano i
propri escrementi e arrivarono a mangiare
i propri figli. Tutto questo potrebbe capitare
anche a noi, e su Hitler e i suoi accoliti
incombere la fine inevitabile di
Bockelson e di Knipperdolling” (un altro
dei capi anabattisti).
Dell’uomo che morirà a Dachau a poco
più di due mesi dalla liberazione del campo,
la filosofa Hannah Arendt scriverà che
fu tra i pochi che “si opposero senza esitazione
a Hitler”, e accosterà il suo nome a
quello del filosofo Karl Jaspers. Nell’aprile
del 1939, Reck annotava nel diario la
certezza che i giovani ufficiali arroganti e
rumorosi incontrati in un locale di Monaco,
che a prima vista gli ricordavano “un raduno
di eroi che hanno vinto il drago o di arcangeli
che hanno lasciato le loro ali in
guardaroba per venti pfennig”, prima o poi
sarebbero diventati “incapaci persino di
sospettare l’abisso della loro degradazione”.
Friedrich Reck lasciò in eredità un altro
avvertimento: “Una volta trascuravo l’idea
dell’unità europea, ma sono certo che
al giorno d’oggi non ci possiamo più permettere
il lusso di trascurarla. L’Europa,
culla di grandi idee, si trova di fronte a
questa scelta: o eliminare la possibilità di
nuove guerre civili, o polverizzare le sue
cattedrali e ridurre il suo paesaggio a una
steppa… Allora non resterà che bruciare
l’ultimo violino con l’ultima partitura di
Mozart, e rassegnarsi a tornare dei barbari”

(ottobre 1940).