DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

“Madri” col seme di un fratello


di Omar Ottonelli

La celebrazione dei falsi miti del progresso
ci ha da tempo abituati a leggere
storie ai limiti dell’incredibile;
vicende grottesche che spesso, dietro
l’esaltazione di una pseudo-modernità,
nascondono una violenza che l’opinione
pubblica sembra ormai incapace persino
di riconoscere. Non passa giorno che le
cronache non diano notizia, ad esempio,
di figli prodotti in laboratorio da una pluralità
sempre più confusa di genitori o di
bambini costretti a crescere in ambienti
familiari sempre più liquidi, sfuggenti, privi
di contorni definiti.
A questo drammatico elenco possiamo
da qualche giorno aggiungere un’ultima
storia, quella raccontata da Mary Portas,
inglese, classe 1960, celebre esperta di
moda e marketing, twittatissima autrice
della fortunata serie Mary Queen of Shops
(trasmessa dalla BBC) e recentemente
scelta da David Cameron come consulente
per un piano di rilancio del commercio
al dettaglio.
Ecco la storia: madre di due figli avuti dal
suo primo (e ultimo) marito, Mary si scopre
lesbica e, messa fine a un matrimonio
di quattordici anni, si lega alla sua attuale
compagna, Melanie Rickey, della quale è
prima civil partner e poi, dal dicembre del
2014, vera e propria consorte (proprio dal
2014 l’Inghilterra ha infatti esteso l’istituto
matrimoniale alle coppie omosessuali).
Nel frattempo, però, le due donne hanno

anche scelto di produrre un figlio, Hora
tio; un figlio, si
intende, tutto
loro. O almeno
il più loro possibile.
Come?
Melanie, la sposa
più giovane,
è stata scelta
quale madre
biologica, mentre
gli spermatozoi
sono
stati donati dal
fratello della
stessa Mary; un
po’ di lei, così,
sarebbe finito
nel grembo
della moglie e il
bimbo avrebbe
avuto un patrimonio
genetico
quanto più
possibile simile
a quello delle
due madri (che
due non sono).
«Ho detto a mio
fratello: “Grazie”
» – ha dichiarato Mary a The Times
(poi ripreso dal Telegraph) – «Lui mi ha
risposto: “È stato un piacere” e ci siamo
abbracciati. È meraviglioso. Quando guardo
Horatio, adesso, vedo il mix perfetto di
Melanie e me». Al di là di legittimi dubbi
su quell’aggettivo – “perfetto” – il resto
della storia non fa una piega, se è vero
che non mancano gli ingredienti per farla
digerire senza dare nell’occhio: dalla
straordinaria gioia della famiglia alle foto
sorridenti delle
due mamme,
fino naturalmente
ad arrivare
al nome,
al cognome e
all’azienda del
medico che
ha prodotto
il bambino. Si
tratta del resto
– si legge ancora
nell’articolo
– di «una autorità
mondiale
nel campo dei
trattamenti di
fertilità», che
non ha mancato
di sottolineare
con
compiacimento
la crescente
normalità delle
donazioni di
gameti intrafamiliari:
«Una
decina di anni
fa sarebbe stato
inusuale, ma oggi simili situazioni si verificano
almeno una volta al mese presso
la mia clinica». Un donatore in famiglia –
ha concluso – è spesso considerato «preferibile
», se è vero che così «si sa da dove
provengono i geni e si tenta di conservarli
in famiglia».
“Preferibile”. Davvero non riusciamo a capire
cosa ci possa essere da “preferire” nel
soddisfare l’egoismo di qualcuno costringendo
un soggetto incolpevole a vivere
una vita intera prigioniero di un equivoco.
Horatio, in fondo, oggi non solo è un
bambino di appena due anni coccolato da
una cinquantacinquenne diva dello showbusiness
convinta d’esser sua madre, ma,
soprattutto, è un bambino privo di un padre,
per di più costretto a chiamare “zio”
quello che tutti gli altri chiamerebbero
“papà”. Cos’è tutto questo, se non il volto
moderno di un orrore travestito da diritto?
Cos’è, se non una pratica apertamente
illiberale, quella che, in nome di un incontentabile
egoismo, si arroga la pretesa
di imporre ad altri una vita priva di ciò
che la natura necessariamente gli offre?
E cos’è, se non la più aperta negazione
della biologia (oltreché del buon senso),
quella di chi ritiene “preferibile” far coincidere
la figura del padre con quella dello
zio e considera un “mix perfetto” il figlio
immaginario di due madri?
Si continueranno a raccontare storie
come queste; probabilmente ne ascolteremo
ogni giorno di più assurde, come
accade da tempo. Del resto raccontarne
ogni giorno di nuove – qualcuno lo sa
bene – è il modo migliore per veicolare la
loro presunta normalità. Come ogni buon
vaccino, si tratta di abituare lentamente
un organismo a misurarsi con qualcosa
che per natura gli è estraneo; all’orizzonte
qualcuno intravede il miraggio di chissà
quale immunità: da parte nostra non ci
stancheremo di ricercare gli antidoti contro
quello che è in realtà solo un nuovo e
preoccupante avvelenamento.

La Croce 18 febbraio 2015