DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Pecore e cani da pastore (ovvero il coraggio degli uomini dalla Siberia al Texas)




Ci sono persone che credono che il male non esista.
E quando bussa alla loro porta, hanno paura e non sanno cosa fare. Queste sono le pecore.

 di Matteo Donadoni
Dopo il capolavoro Gran Torino è difficile non dar credito preventivo al regista Clint Eastwood. Eppure non riuscivo a decidermi ad andare a vedere American Sniper, vuoi per pigrizia, vuoi per la vicenda del bambino. Ma, grazie al bellissimo pezzo Apostolic sniper di don Iapicca, apparso su La Croce del 29 gennaio, ho capito che il filo rosso questa volta passava da lì. Allora me la sono presa comoda: un’imperial stout al pub e poi dritto in sala. Inutile dire che il mattino seguente ho spiegato con grande serietà a mio figlio tutta la parabola delle pecore e dei cani da pastore, compresa la faccenda delle cinghiate. Il giorno seguente poi (un po’ per controllare se avesse capito, un po’ per una sorta di autocompiacimento) l’ho interrogato su chi siamo noi, e il ragazzo, con quello sguardo stupito, tipico dei figli che sembrano chiederti se sei tonto, ha risposto gelido: “Noi siamo i cani da pastore”.
Certo, è una bella pretesa da parte mia che ho praticamente fatto il militare in AD (ovvero Istituto Arsdimicandi) e so combattere solo corpo a corpo come princeps o hastatus, fare una richiesta del genere ad un bambino di otto anni. Ma non spetta forse al padre trasmettere ai figli i valori in cui crede? Soprattutto in una società femminilizzata che ha messo all’angolo i ruoli di padre e di maschio tanto importanti nella dinamica di complementarietà dei sessi e nell’educazione dei figli. Perciò non voglio fare una recensione del film, ma parlare dell’esser uomini, se riesco.
Pochi giorni prima che nascessi, il pensatore russo sopravvissuto al gulag Aleksandr Solzhenitsyn (1918 – 2008), che probabilmente all’epoca sfoggiava una chin curtain molto più arguta della mia, teneva un memorabile discorso ad Harvard, in cui poteva notare in modo sorprendente il declino del coraggio in Occidente. Un declino evidenziabile soprattutto nel sistema politico educativo – non è forse vero che anche  noi spingiamo i bambini a fare il ruffiano dalla maestra, anziché imparare a difendersi? Infatti diceva: «Vi sono ancora molte persone coraggiose, ma non hanno alcuna determinante influenza sulla vita pubblica. Funzionari politici e classi intellettuali presentano questa caratteristica, che si concretizza in passività e dubbi nelle loro azioni e nelle loro dichiarazioni, e ancor di più nel loro egoistico considerare razionalmente come realistico, ragionevole, intellettualmente e persino moralmente giustificato il poter basare le politiche dello Stato sulla debolezza e sulla vigliaccheria».
Esistono, anche in società vigliacche, uomini coraggiosi. Sembra proprio il caso di Chris Kyle (1974 – 2013), un normale cowboy texano fiero di venire dallo Stato della Stella Solitaria (per quanto gli arabi non facciano distinzioni fra yankee e dixie), ma non un supereroe né un esaltato; un ragazzotto con la croce di Gerusalemme tatuata sul braccio, ma non un predicatore che conosce i Salmi a memoria, solo un uomo che sente di dover fare ciò che è giusto. Un padre coraggioso consapevole che il male esiste, e va combattuto. Uno fra tanti, ma uno di quelli che non si crogiolano nel benessere, nello stordimento delle droghe o anche solo dei videogames. Perché noi ragazzi occidentali siamo tutti fenomeni bellici a Call of duty, ma comodi sul divano, e sinceramente, «adesso, chi mai rinuncerebbe a tutto questo, e per quali motivi rischiare la propria preziosa vita in difesa del bene comune, soprattutto nel caso in cui la sicurezza della nazione debba essere difesa in una terra lontana?».
Ciò ha confermato la mia antica convinzione che, in fin dei conti lo Stato, ogni Stato, si regga sulla schiena di poche famiglie, disposte a sacrificare i propri figli, mentre altri fanno affari con la guerra – detto per inciso, caro EI, il mio nonno ritornato con le scarpe di cartone dall’inferno bianco di Nikolajewka la meritava pure una salva di fucile al funerale –. Ed è un conflitto di proporzioni cosmiche fra chi ha una concezione materialistica della vita e chi sente di avere un ruolo che va oltre il destino di vita o di morte, i cui valori hanno una valenza metafisica e religiosa non smerciabile sul mercato degli interessi di qualsiasi tipo e che va oltre la prostituzione intellettuale dilagante.
«Come è stato possibile – tornando a Solzhenitsyn – per l’Occidente passare dalla sua marcia trionfale al suo attuale stato di debilitazione?» L’errore sta alla radice, ovvero in quell’umanesimo razionalista, o antropocentrismo, che partorì poi l’Illuminismo con i suoi mostri della ragione, come aveva fra l’altro già individuato un altro russo Nikolaj Berdjaev (1874 – 1948) ne Il Senso della Storia: «l’ umanesimo non soltanto affermò la fiducia in se stesso dell’uomo e la sua dignità, ma anche umiliò l’uomo perché non lo considerò più un essere di origine superiore divina, non affermò più la patria celeste ma esclusivamente la sua patria terrena e la sua origine terrena. L’umanesimo con questo abbassò il rango dell’uomo. Avvenne che l’autoaffermazione dell’uomo senza Dio, l’autoaffermazione dell’uomo che non avvertiva più e non voleva ammettere il suo nesso con la natura superiore divina e assoluta, con la sorgente suprema della sua propria vita, portò alla distruzione dell’uomo. L’umanesimo rigettò il principio posto nello spirito cristiano, che eleva l’uomo e lo proclama a immagine e somiglianza di Dio, figlio di Dio, essere che Dio ha fatto suo figlio. Nell’umanesimo si dischiude così la dialettica che porta alla sua distruzione». Così, nell’età moderna, l’uomo è diventato il centro di tutto, un essere con la pericolosa tendenza a soddisfare unicamente le proprie necessità materiali.
Pertanto concludeva Solzhenitsyn «Ormai non é possibile aiutare l’Occidente, fino a quando non sarà recuperata la sua forza di volontà. In uno stato di debolezza psicologica, le stesse armi diventano un peso e portano alla capitolazione. Per difendere se stesso, un uomo deve essere anche pronto a morire; non c’è tale disponibilità in una società che ha creato il culto del benessere materiale».
In questo senso è importante la vita e l’avventura vera del cecchino più letale della storia degli Stati Uniti: insegnare ai nostri figli che vale sempre la pena difendere se stessi, la propria famiglia, la patria. Sacrificarsi e rischiare di morire nel farlo.
Non so fino a che punto sia avvenuto in modo consapevole, ovvero intenzionale nella mente di Clint Eastwood, il passaggio dal motto Dio, Patria Famiglia – peccato originale di ogni destra – a Dio, Famiglia, Patria: vera soluzione alla decadenza di un Occidente inebetito dalle proprie stesse chiacchiere.
Perché la famiglia viene sempre prima dello Stato, comunione di famiglie che si riconoscono nell’adorazione dello stesso Dio e negli stessi valori, il quale non può mai prevaricarne diritti educativi ed intenti formativi senza trasformarsi in un despota totalitario, che finirà in ultima istanza per sostituirsi anche allo stesso Dio, come accaduto ai vari totalitarismi della povertà morale nel XX secolo.