DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Senza più famiglia: le invisibili solitudini


Assuntina Morresi


Non la incontravano da una decina di giorni. Una conoscente l’ha cercata caparbiamente, setacciando uno a uno i reparti dell’ospedale, dove qualcuno diceva di averla vista, e alla fine l’ha trovata nell’androne del Pronto Soccorso, avvolta da una coperta, su una barella, molto sporca e denutrita. Non è il classico caso di malasanità, e per questo non diciamo il nome del paese: i vicini ne avevano segnalato la scomparsa e c’era stata un’allerta da parte dei servizi sociali del Comune, che in passato avevano insistito perché la signora andasse a vivere in una struttura per anziani, già individuata. Ma, a quasi novant’anni, lei non ne voleva sapere e ha continuato a vivere da sola, a casa sua.

Prima che qualcuno la mettesse su quella barella, probabilmente ha girato per giorni e giorni fra i reparti dell’ospedale, che considera un po’ la sua seconda casa. Pare che il leggero stato di ansia che le avevano riscontrato non fosse stato sufficiente a giustificare un ricovero. Diciamo “probabilmente” e “pare” perché nessuno sa con precisione cosa sia successo, perché nessuno si è veramente accorto di lei, neppure quando, chissà come, è caduta e si è fatta male a un occhio. E chi a un certo punto le ha procurato coperta e barella non si è reso conto dello stato in cui la donna si trovava, o forse, chissà, si è lasciato prendere da altre urgenze, da casi più gravi, e l’ha lasciata aspettare ancora.

Fa un’immensa tenerezza e pietà pensare a questa donna che la vecchiaia ha reso sostanzialmente invisibile: possiamo bene immaginarla vagare un po’ confusa fra i reparti, aspettare invano nelle sale d’attesa, con quell’aria di rassegnazione paziente di tanti nostri vecchi che hanno imparato quanto sia inutile avere fretta. Forse lei avrà fatto domande, o magari, in silenzio, si sarà istintivamente affidata alla familiarità del luogo, tranquillizzata dal vedere certe facce: in paese conosci tutti, anche quando non te ne ricordi i nomi. Quel che è certo è che in tanti l’hanno guardata senza vederla veramente, come fosse trasparente. Un’ombra.

Non si tratta dell’emarginazione del “diverso” – lo straniero, il barbone – ma dell’estraneità del nostro prossimo, di chi è uguale a noi, di chi potrebbe essere nostra madre, nostra nonna, di chi ci ricorda che, se non si muore giovani, tutti diventeremo così. Ma quella signora non era la madre e la nonna di nessuno, all’ospedale ci è andata da sola perché non ha famiglia – a parte una sorella, addirittura con qualche anno di più, che vive in un’altra regione – ed è questo il punto: per quanto efficienti possano essere le strutture sanitarie e sociali, per quanto severe e adeguate le leggi e i regolamenti, una rete istituzionale di protezione e di cura non potrà mai sostituire fino in fondo la forza dei rapporti familiari.

Anziani, bambini, disabili, malati: la presa in carico della fragilità umana ha necessità di una rete di solidarietà di tipo familiare, e non può essere totalmente delegata neppure all’interno delle organizzazioni socio-sanitarie più efficienti. Le stesse “cure domiciliari”, che il nostro sistema sanitario giustamente cerca di promuovere, generalmente presuppongono che al domicilio ci sia qualcuno, oltre al paziente, e che sia in grado almeno di stargli accanto con consapevolezza ed attenzione. In una società di persone sole gran parte dell’assistenza domiciliare attuale andrebbe ripensata.

Una società che non si rende conto dell’importanza della famiglia e dell’urgenza di tutelarla e sostenerla innanzitutto in quanto bene per tutti, è una società destinata a scomparire, che si avvia a diventare una somma di individui soli e fragili, come quella vecchia signora perduta dentro il suo ospedale.

Avvenire 11 febbraio 2015