DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

2 Luglio 2016




Resisti al secolo tanto quanto esso spinge contro di te. 
Quello di cui la gente non si rende conto è quanto costi la religione. 
Si crede che la fede sia una grande coperta elettrica quando naturalmente essa è croce.

(The Habit of Being: Letters of Flannery O'Connor)



SORRIDERE ALLA MORTE




Oggi condividiamo una notizia triste dal punto di vista umano, ma radiosa dal punto di vista della fede vissuta nell’eternità e nell’abbraccio di Dio Padre.
Suor Cecilia, del Carmelo di Santa Fe, in Argentina, soffriva di un tumore al polmone. Quello che ha più colpito quanti la circondavano è stato il tenero sorriso con il quale ha chiuso gli occhi a questo mondo, simile a quello di un’innamorata che aspetta un incontro a lungo atteso, come si può vedere dalle fotografie.
Il Carmelo di Santa Fe ha comunicato la morte di suor Cecilia con un testo breve ma profondo inviato ai membri dell’Ordine e a tutti i suoi amici:
Cari fratelli, sorelle e amici:

Gesù! Solo poche righe per avvisarvi che la nostra amatissima sorella si è addormentata dolcemente nel Signore dopo una malattia dolorosissima sopportata sempre con gioia e dedizione al suo Sposo Divino. Vi inviamo tutto il nostro affetto per il sostegno e la preghiera con cui ci avete accompagnate durante questo periodo così doloroso ma allo stesso tempo tanto meraviglioso. Crediamo che sia volata direttamente in Cielo, ma vi chiediamo ugualmente di non smettere di ricordarla nelle vostre preghiere, e lei dal cielo vi ricompenserà. Un grande abbraccio dalle sue sorelle di Santa Fe. 

Le fotografie che circolano in Internet di una suora carmelitana morente valgono sicuramente più di mille parole, ma le immagini arrivate in tutto il mondo sono solo una parte della storia. Per chi ha vissuto la sua sofferenza accanto a lei, la testimonianza di gioia e pace offerta dalla religiosa è stata radiosa come il suo volto.
Le notizie del peggioramento della sua salute e le sue riflessioni si sono diffuse rapidamente attraverso i social media su WhatsApp. Perfino papa Francesco seguiva la situazione. E suor Cecilia Maria, una Carmelitana Scalza, sapeva che tutti pregavano per lei.
Nonostante la malattia non ha perso la sua allegria, sostenuta dai suoi tanti familiari, che le sono sempre rimasti vicino. I suoi nipoti si riunivano nei giardini fuori dall’ospedale nel quale è stata ricoverata per alcune settimane, inviandole messaggi e palloncini per distrarla e intrattenerla dalla finestra.
La sua gioia era accompagnata – o forse spiegata – da un profondo stato di preghiera. Ogni volta che poteva, indossava il suo abito per partecipare alla Messa nella cappella dell’ospedale. La religiosa viveva queste Messe con la stessa devozione che ha caratterizzato la sua vita dietro la grata del Carmelo di Villa Pueyrredon, a Buenos Aires (Argentina).
Suor Cecilia è rimasta piuttosto lucida malgrado la malattia. Anche se negli ultimi mesi non riusciva a parlare, i suoi gesti deboli in ogni Messa mostravano la sua attenzione e il suo fervore. Quando le preghiere dei fedeli includevano le intenzioni per i malati, il suo volto esprimeva grande gratitudine.
Chi l’ha vista ha detto che il suo viso mostrava pace e gioia – come qualcuno che aspetta l’incontro con Colui al quale aveva donato la sua vita, Nostro Signore Gesù Cristo.
Nei suoi ultimi mesi di vita, due religiose l’hanno accompagnata: una, sua sorella di sangue, è una suora del Verbo Incarnato, l’altra è una sorella spirituale della sua congregazione. Con lei e come lei, nonostante il dolore, sorridevano sempre, come i membri della sua famiglia. È una splendida testimonianza del potere della Chiesa domestica che affronta unita momenti difficili come questo.
“Sono molto contenta”, ha scritto a maggio suor Cecilia, “stupita dall’opera compiuta da Dio attraverso la sofferenza e dalle tante persone che pregano per me”.
Anche papa Francesco da Roma le aveva assicurato le proprie preghiere in un messaggio vocale in cui le ha detto che sapeva della sua situazione e che le voleva molto bene.
Non era la prima volta che il Vicario di Cristo rivolgeva la sua attenzione a suor Cecilia. Prima di prendere l’abito, la religiosa era infatti riuscita a parlare personalmente con papa Giovanni Paolo II della sua vocazione.
Qualche ora prima di morire, la carmelitana ha ricevuto la Comunione, bagnandosi le labbra con il Preziosissimo Sangue di Nostro Signore. La malattia l’aveva già da tempo privata dell’uso della lingua, “la patena più sacra per ricevere il suo Corpo e il suo Sangue”, come l’ha descritta.
Come la beata Chiara Luce Badano, ha richiesto che al suo funerale, oltre che alla preghiera, ci fosse anche festa.
“Si è addormentata dolcemente nel Signore dopo una malattia dolorosissima sopportata sempre con gioia e dedizione al suo Sposo Divino”, hanno affermato le sue consorelle annunciandone la morte.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]
http://it.aleteia.org/




VIDEO


Discorso di Benedetto XVI nel 65esimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale




Tonino Cantelmi - Comportarci bene o male




VEGETARIANI E ANIMALISTI

Silvana De Mari



È scoppiata una polemica sul post sulla rana. Ho confessato che mangio le rane ( è tipico del Piemonte e di qualsiasi zona che abbia risaie). La polemica riguarda il mangiare carne e quanto sia cattivo uccidere gli animali , tutti, incluse le zanzare. Gesù Cristo non era vegetariano. Chiunque affermi che essere vegetariani sia meglio che essere normali, (c'è scritto proprio normali. Esiste una norma in biologia. Noi siamo onnivori ) si sta dichiarando migliore dei suoi antenati, cacciatori raccoglitori , della nonna che faceva l'arrosto per Natale, del Cristianesimo, si sta dichiarando migliore di Gesù Cristo. Se voi siete contenti di essere vegetariani, vi trovate bene mi fa piacere per voi, ma che sia eticamente superiore per favore eliminiamolo. Non fare fare diete criminali ai vostri figli che sono onnivori, ai vostri cani e gatti che sono carnivori. Tra l'altro: sono nata negli anni 50. Noi gli orsi ce li mangiavamo. Loro si mangiavano le nostre pecore e noi ci mangiavamo loro. A spezzatino con i chiodi di garofano. Anche le volpi ci siamo mangiati. Loro mangiavano le nostre galline e noi mangiavamo loro. Avete mai visto un pollaio attaccato dalle volpi? Non è vero che l'animale uccide solo per mangiare, uccide anche per il piacere di uccidere. Quando la volpe entra uccide tutte le galline e se voi siete un contadino , quello vi ha annientato. La mamma di Red? Me la sono mangiata io, sempre a spezzatino, ma senza chiodi di garofano. 

L'irrazionalismo di considerare gli erbivori migliori, eticamente superiori rispetto a chi mangia la carne nasce dai film di cartoni animati con umanizzazione degli animali e da una precisa corrente di anti umanesimo, di odio per l'uomo visto come bestia infestante per il pianeta. È una delle cause della catastrofe emotiva attuale, la perdita di identità, inclusa l'identità umana, creatura onnivora, appartenente a una civiltà che viene rinnegata come cattiva. Non è amore per gli animali, è odio per l'uomo e anche analfabetismo scientifico incapace di capire il concetto di ecosistema, dove i carnivori sono importanti quanto gli erbivori, quanto i saprofiti e nessuno muore di vecchiaia perché appena non riesce più a scappare viene sbranato. La morte fa parte della vita, chi odia la vita è talmente terrorizzato dalla morte che anche schiacciare una zanzara sembra troppo. Noi ci relazioniamo con cani e gatti che sono carnivori perché la capacità di relazione si crea sulla predazione. Gli erbivori brucano l'erba , ognuno per conto suo, e non si relazionano gli uni con gli altri. La comunicazione nasce nella caccia e noi non siamo erbivori, non siamo vegetariani, chiunque lo sia sta negando la sua umanità, sta negando la sua biologia, si sta creando la posizione di essere il più buono del reame così da compensare le sue insicurezze. Siete vegetariani? Tenetevelo per voi. E ricordatevi di prendere del ferro. Non venite a dirmelo su questa pagina. Questa è una pagina di una persona che non solo non è vegetariana, ma che ha opinioni sempre più perplesse in merito.

Cristo non era vegetariano e Hitler si vantava di esserlo. Voi siete più buoni e più etici di Gesù Cristo? Non scrivetelo qui. Levatemi l'amicizia e andate su pagine più adatte a voi. Avete pianto più lacrime per il gorilla piuttosto che per 11,500 cristiani massacrati in Nigeria negli ultimi due decenni, il leone Cecil vi ha commosso più dei bambini dello Zinbawue, due o tre l'anno, che muoiono sbranati dai leoni? Non ditemelo, non lo voglio sapere e prendiamo tutti serenamente atto che questa pagina non è per voi e cercatene una più consona. 

Per inciso: anche i batteri sono creature viventi. Quando incidete un ascesso e buttate fuori il pus, ne uccidete milioni. E l'antibiotico? Mica ne avete preso? 

Comunque, mi dispiace calunniare un morto , ma pare quelli del National Geografic abbiano in mano un documentario dove Cecil il leone il compianto sbrana uno gnu neonato. Le gazzelle del Serengheti hanno raccolto firme per dare il Nobel della pace al dentista, per il quale un esercito di pacifisti contrari a qualsiasi violenza ha invocato la pena di morte.

Gli allevamenti intensivi sono sbagliati . Deve essere vietata la fecondazione eterologa per le vacche e una gallina deve essere libera di becchettare, e questa è una causa giusta per cui è necessario battersi, ma non scrivete cose insensate. Se con mezzi naturali si fermassero le zanzare , la malaria non esisterebbe, non esisterebbero le innumerevoli malattie anche mortali trasmesse da zanzare e zecche e pidocchi, malattie che sono state fermate grazie agli insetticidi. Qualsiasi medico abbia lavorato in Africa e abbia avuto a che fare con la malaria non ama i protettori delle zanzare. Voi non le uccidete? È una scelta vostra. Ne L'ultimo elfo Yorsh è vegetariano e molto compassionevole perché non è umano. Per diventare un uomo mangia carne e così acquisisce l'umanità. Voi siete uomini e donne. Noi siamo la nostra violenza, la nostra compassione , la nostra vigliaccheria, il nostro coraggio e anche la nostra ferocia. Non rinnegare nessuna parte della mistura. Un istinto negato diventa patologia. 

Amate l'uomo , perché ha capacità di sofferenza infinita. Amate gli animali. Amate la natura. Se mangiare carne ricordate che un animale è stato ucciso, quindi è un gesto sacro. Ringraziate e pregate prima di mangiare e dopo e poi guadagnatevelo. La vostra vita è costata la morte quindi non può più essere vuota, non può più essere sprecata, non può più essere buttata via. Mangiare è una gesto sacro, come sacra deve essere l'unione di un uomo e una donna, sacra l'uccisione di un animale, perché il dolore e la morte non devono essere sprecati. Ma nemmeno negati, perché altrimenti la vita si ferma e l'apparente compassione diventa odio per l'uomo.



Il cielo in terra. Fabrice Hadjadj

Fabrizio Rossi
LA GRANDE INTERVISTA - RAGIONE E MISTERO
Da Aristotele a Baudelaire, da sua figlia Ester al vicino di casa con gilet e papillon. In un libro appena uscito in Italia, FABRICE HADJADJ «scava nel profondo di ogni cosa, fino a giungere a Dio». Mostrando che l’inizio di ogni conoscenza è uno solo: lo stupore. E che la realtà, tutta la realtà, è segno

Un consiglio. Se state leggendo queste sei pagine in poltrona, sul treno, o in pausa pranzo davanti al pc, chiudete tutto. E uscite. Sul balcone, in cortile, in un parco. Meglio ancora, andate in campagna. Perché abbiamo messo a tema che cosa significa conoscere davvero la realtà. E abbiamo scoperto che tutto passa, molto più di quanto si possa immaginare, da un filo d’erba. Un giglio. O una mela... Parola di Fabrice Hadjadj, 39 anni e già tra i maggiori pensatori cattolici francesi. Un intellettuale poliedrico, autore di opere di filosofia ma anche di pièce per il teatro, che alla carriera accademica ha preferito una cattedra di Filosofia in un liceo dell’entroterra di Tolone. Un uomo in viaggio da una vita, nato in una famiglia di ebrei tunisini e militanza maoista, che sulla soglia dei 30 anni ha chiesto il Battesimo. Ma che, della sua conversione, dice: «Altro che concluso: il mio cammino è appena iniziato» (e all’appuntamento finale del Meeting, dove presenterà L’io rinasce in un incontro, il nuovo volume di dialoghi di don Giussani con gli universitari di Cl, avrà sicuramente molto da raccontare). Da qualche settimana Hadjadj ha pubblicato in Italia un’opera che, già nel titolo, ha dentro tutto: La terra strada del cielo (Lindau, pp. 136, € 14,50). Dove, senza lasciarsi spaventare da capitoli tipo Il letame che giova allo spirito o Il Padre nel pidocchio, chi legge viene guidato a «scavare nel profondo di ogni cosa, fino a giungere a Dio». E non c’è bisogno di un acume particolare per cogliere, pur in un’opera concepita otto anni fa, la sintonia con il percorso sviluppato da Julián Carrón agli Esercizi della Fraternità di Cl (cfr. il libretto allegato allo scorso numero di Tracce), a cominciare dalla dinamica del segno.

Cosa significa che la terra è una strada che porta a Dio?
Tutto è segno e rimanda a qualcosa oltre sé. Anche le radici di un fiorellino come il dente di leone affondano nel Mistero. Attenzione, però: il titolo che ho scelto non dice semplicemente che la terra è una strada verso il cielo, ma che è una strada del cielo. Perché è il cielo ad aver plasmato ciò che vediamo: nel creare la più piccola cosa, Dio si costruisce una dimora nuova. Se, invece, ci limitassimo a vedere la terra soltanto come strada verso il cielo, ci sbaglieremmo.

Perché?
Sarebbe come dire che la terra, in fondo, ha un carattere accessorio. Un optional. Ma come potremmo vedere, in una persona vicina, solo uno strumento per arrivare a Dio? Non possiamo ridurre le cose a semplici mezzi, perché anche loro sono volute così come sono. Guardi che, parlando di Mistero, non intendo nulla di spettacolare. Come dice il poeta Yves Bonnefoy, la trascendenza è la cosa più ordinaria: pensi al viso di un bambino, alla bellezza di un fiore... Senza pregiudizi, ogni cosa ci richiama al Mistero.

Quale ruolo gioca, per la nostra conoscenza della realtà, il segno?
Bisogna partire dall’esperienza: dove vediamo che le cose sono un segno? Prendiamo i tre casi più lampanti: l’esperienza del bello, del vero e del bene. Penso che la prima sia quella che più direttamente ci rimanda al Mistero, perché colpisce il nostro cuore. L’aveva ben capito lo stesso Baudelaire, quando descriveva la malinconia suscitata in lui da qualcosa di bello, che gli ricordava un Paradiso da cui si sentiva esiliato. L’esperienza del vero è in ogni nostro tentativo di conoscere qualcosa. Fosse anche un filo d’erba, mi rimanda al mistero del cosmo intero: qual è la sua causa prima? Poi c’è l’esperienza del bene, che può avvenire davanti ad una sovrabbondanza o ad una mancanza.

In che senso?
I cristiani spesso parlano della seconda, per esempio sottolineando che niente quaggiù può saziare il nostro desiderio, fatto per Dio. Credo, però, che non dobbiamo dimenticare la sovrabbondanza delle cose: come ci ricordava don Giussani, siamo chiamati a vivere il centuplo quaggiù. Penso alla gioia enorme che provo giocando con le mie figlie. È un gusto diverso delle cose, da cui sono provocato a chiedermi: perché esiste questo bene, pensato proprio per me? Dove è l’origine di questa generosità? È partendo dalla bellezza e dalla bontà delle creature, che arrivo alla loro fonte. In questo senso, possiamo dire che tutto l’essere è segno del Mistero. E più vado verso il cielo, più il cielo a sua volta mi richiama alla terra.

Che cosa intende?
Per noi spesso il segno è una tappa da superare, come se ad un certo punto potessimo dire: «Ho trovato Dio, non ho più bisogno della terra». Invece, più mi rivolgo al Creatore, e più torno verso le creature: è Lui che le ha volute, quindi non potrei essere in amicizia con il Creatore senza esserlo con le sue creature. È ciò che avviene nell’Ascensione: salire al cielo è, al tempo stesso, scendere verso le più piccole cose della terra. Quella di Cristo non è un’evasione, ma il modo per essere la pienezza di tutto. È magnifico, non trova? Perché non ci è chiesto di staccarci dalle cose terrene, ma di andare fino alla loro origine. E questa origine è il cielo.

Cristo, quindi, ci mostra qual è il vero modo con cui possiamo rapportarci alla realtà?
Sì, ma il problema è che abbiamo ridotto tutto ciò ad una serie di regole. Dimentichiamo che Lui ci invita ad una contemplazione. Come dico spesso, potremmo ridurre tutti i comandamenti a due. Il primo, all’origine della vita cristiana, sta in quest’invito di Cristo: «Guardate i gigli del campo». Non dice semplicemente che ci sono dei gigli, ma: «Guardateli!». E ci mostra come, contemplandoli, siamo introdotti nel mistero della provvidenza. Il secondo comandamento, alla fine della vita cristiana, consiste in queste parole al servo fedele: «Ora prendi parte alla gioia del tuo padrone». Perché non siamo masochisti: la croce non è una finalità, è per la gloria. Noi cristiani non ricerchiamo il dolore, ma la gioia. Dio, vivendo nella gioia, ha voluto comunicarla a tutti gli uomini. Per questo l’ha fatta scendere nella nostra miseria, inchiodandola alla croce. E, a quel punto, la croce è diventata cammino ancora verso la gioia. Altro che morale e divieti: prima di tutto, c’è uno stupore davanti alle cose.

Al Meeting dell’anno scorso aveva affermato che proprio questa esperienza è alla radice di ogni tentativo di conoscere la realtà...
È ciò che diceva Aristotele: la meraviglia è l’origine della filosofia. In italiano il termine “stupore” si avvicina molto a “stupido”. È così: quando sono in quello stato, posso sentirmi stupido. Infatti occorre una certa umiltà per stupirsi. Ma, al tempo stesso, è la più alta intelligenza, perché lì la mia ragione si apre al Mistero. Ho in mente gli occhi sgranati di mia figlia Ester, che si chiede il perché di tutto. Diversi filosofi, come Platone, Aristotele, Tommaso d’Aquino, o lo stesso Martin Heidegger, hanno dato spazio a questa esperienza di stupore, mentre tanti altri l’hanno completamente disprezzata.

È il caso di Cartesio, cui è dedicata la prima parte del suo libro...
Secondo il suo «Cogito, ergo sum», la prima disposizione dell’uomo sarebbe il dubbio. L’esatto contrario dello stupore. E questa interpretazione ha segnato tutta la modernità. Ma, in realtà, Cartesio si pone a cavallo delle due posizioni: nel trattato Le passioni dell’anima, ad esempio, scrive che il primo affetto dell’uomo è l’ammirazione. Quindi, a ben vedere, anche Cartesio ha dovuto ammettere che ciò che permette perfino il dubbio sulla realtà è averla ammirata. È proprio perché cerco un senso e una verità, che in un secondo momento posso dubitarne. Senza questo prima, non sarebbe neanche possibile il dubbio. Oppure pensi all’angoscia davanti alla morte di cui parla Heidegger. Spesso lo si riduce a questo, ma per avere quell’angoscia bisogna prima essersi stupiti per la realtà: senza questa esperienza davanti alla vita, la sua privazione non avrebbe nulla di angoscioso.

Come mai, allora, spesso siamo tentati di bloccare questo percorso, fermandoci in superficie?
C’è qualcosa che ci impedisce di conoscere davvero l’essere: è una riduzione del mondo all’utilità, a un materiale da manipolare. Quando siamo prigionieri di questa preoccupazione pratica, si sbiadisce la realtà: abbandoniamo la contemplazione per la praxis, l’azione. Poi entra in gioco anche una deformazione legata al nostro orgoglio: c’è in noi un’ingratitudine che ci impedisce di riconoscere il Mistero. Perché ammettere la bontà al di fuori di sé, significa accettare che non siamo noi i giudici delle cose: se abbiamo ricevuto la vita, non ne siamo padroni.

Da un certo punto di vista, però, non possiamo fare a meno delle preoccupazioni pratiche...
Certo, la praxis è necessaria: non viviamo d’aria, il mondo stesso ha bisogno di quel che facciamo. Ma non dobbiamo dimenticare dove si radica la nostra azione e qual è il suo fine: la contemplazione. Pensi a come viene descritto l’Eden nella Genesi: «Dio fece germogliare ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare». Prima viene la contemplazione («graditi alla vista»), quindi l’azione («buoni da mangiare»). Mentre, quando il serpente suggerisce alla donna di assaggiare il frutto dell’albero in mezzo al giardino, lei vede che «era buono da mangiare e gradito alla vista». L’ordine è invertito: con il peccato si parte dall’azione, si passa per una contemplazione - ridotta ad una sorta di spettacolo utile a farci digerire bene - e poi si torna all’azione: si vive nell’attivismo. E nel disordine, perché un’azione si ordina solo se parte considerando il reale e le esigenze del cuore. Chi vuole agire senza questo, quasi fosse un dio e decidesse del bene e del male, può avere le migliori intenzioni ma diventa un distruttore. Non ci facciamo caso, ma lo stravolgimento è già tutto lì.

Dove ritrova oggi questo pericolo?
Pensi, per esempio, alla paura della vita: non la si accetta più come viene donata, ma si cerca di trasformarla a partire da un’idea. Allora, anziché accogliere un bambino, si fabbrica un prodotto. Partendo da un progetto di perfezione, riduciamo l’essere alle sue funzioni: altro che “perfezione”, è una degradazione dell’essere all’utilità. Al contrario, accogliendo l’altro che mi è donato, accolgo davvero il mistero della vita. La vita non nella sua performance pratica, ma nel suo godimento. Così, entro nel modo di guardare le cose che ha il poeta.

In questo senso sono commoventi le descrizioni che, in più punti del libro, fa del suo vicino di casa, con la cartellina di pelle, il gilet e un papillon: «Ah! Victor Franchon, con quale tenero stupore dovrò guardarti d’ora in poi... Dio è ovunque, ma specialmente lì, nel profondo della tua anima». 
Davvero non abbiamo bisogno di muoverci più di tanto per approdare all’infinito. L’altro, fosse anche una persona qualunque e completamente grigia, è sempre un abisso. Chesterton, per esempio, diceva che la cosa stupefacente non è che uno abbia un naso fatto così o cosà, ma innanzitutto che abbia un naso. Anche se la cacciata dal Paradiso ha cambiato il nostro cuore, oscurando la facoltà contemplativa, questa è un’esperienza concreta che può fare chiunque guardi l’altro con attenzione.

Allora che cosa aggiunge l’incontro con Cristo a questa dinamica di conoscenza? 
Attenzione: Cristo la esalta, ma non perché aggiunga qualcosa. Ogni esperienza del Mistero è esperienza di Cristo: essendo Dio, è all’origine di tutto. Non ne abbiamo sempre coscienza, ma non è un’opzione che può esserci o meno. Per questo amo molto quando don Giussani scrive che gli insegnamenti di Cristo non sono altro che «l’ordine della realtà»: non si tratta di aggiungere nulla. Il punto, semmai, è portare al suo compimento ciò che già c’era. Come san Paolo, che all’Areopago ha rivelato quello che gli ateniesi adoravano senza conoscere. Ecco la missione cui siamo chiamati, davanti ad ogni “signor Franchon” che incontriamo: annunciare Chi lo accompagna da sempre.



La bufala dei giovani tutti per il Remain

di Federico Punzi 
Una storia troppo romantica perché i media non se ne innamorassero all’istante. Peccato si sia rivelata l’ennesima bufala del giornalista collettivo impigrito. In effetti, dai flussi di voto sulla Brexit rilevati dai sondaggi, è emerso che i giovani britannici che si sono recati alle urne hanno votato in prevalenza Remain (in percentuali addirittura superiori al 70%), mentre gli anziani in maggioranza Leave.
Ed è subito rimbalzata sulle prime pagine dei giornali e dei siti di tutto il mondo l’attraente narrazione di uno scontro generazionale: i vecchi che rubano il futuro ai giovani. E giù pagine e pagine di analisi e commenti di editorialisti corrucciati. Nella disfatta, c’era almeno un che di consolatorio, e persino un elemento di speranza, per l’Unione europea. I giovani, che hanno tutta la vita davanti, che guardano al futuro, credono nella Ue. Colpa degli anziani egoisti e con poca aspettativa di vita, rivolti al passato, se ha prevalso la Brexit.
Ebbene, i dati dell’affluenza per fasce d’età raccontano tutt’altra storia. I giovani britannici non hanno votato in massa Remain, in massa se ne sono proprio strafregati di votare… Secondo i dati Sky, solo il 36% degli elettori nella fascia 18-24 è andato a votare, mentre ha votato l’83% degli over 65. Meno nette le stime del Financial Times, che comunque confermano una partecipazione al voto che aumenta con l’aumentare della fascia d’età. Adulti e anziani sono andati a votare, i giovani no. Funziona così la democrazia: chi vota decide. Può avere torto, ma non ci si possono inventare voti che non ci sono.

Dunque, povera Ue, nemmeno a questa piccola consolazione possono aggrapparsi gli europeisti. I media hanno raccontato la commovente storia dei giovani britannici che guardano al futuro tutti mobilitati per l’Ue. Era una balla. La realtà è un’altra: solo un giovane su quattro ha espresso la volontà di restare. È l’esatto contrario: proprio i giovani hanno tradito il Remain, e l’Ue, mostrando tutta la loro indifferenza.


Le disastrose conseguenze della pornografia

Una delle conseguenze più concrete della secolarizzazione è senz'altro la difficoltà per molti di riconoscere un significato vero della propria vita e il conseguente disperato desiderio di placare questa insoddisfazione perenne con tentativi anche parziali ed effimeri. Tra questi vi è l'idolatria violenta della sessualità, la cui diretta conseguenza è la pornografia. (...) Con la diffusione di internet, poi, la pornografia è diventata facilmente accessibile a chiunque e dovunque come mai era successo prima: sia il suo consumo che la sua produzione sono infatti in continua espansione.
Tutto ciò contribuisce a fare dell'industria del porno un business sempre più redditizio che nei soli Stati Uniti muove almeno quattro miliardi di dollari all'anno. Un business che però non è privo di conseguenze. Proprio delle conseguenze sociali della diffusione della pornografia si è occupato recentemente "The Social Costs of Pornography", studio plurale coordinato da diversi istituti di ricerca statunitensi che ha raccolto i lavori di decine di accademici ed esperti di diversi settori: dalla medicina alla psicologia, dalle scienze sociali al diritto, con lo scopo di delineare un quadro a tuttotondo del fenomeno e delle sue conseguenze.

DIPENDENZA

La pornografia via internet, si legge nel report dello studio, può ingenerare comportamenti che la letteratura clinica e psicologica non esita a definire dipendenza: «proprio come la dipendenza da alcol, nicotina e altre sostanze. La dipendenza dalla pornografia può diventare persino più patologica» influendo negativamente sulle relazioni sociali dell'utente. La pornografia on line offre infatti un harem senza fine di intrattenimento hard, i suoi consumatori compulsivi finiscono così per iperstimolare il loro sistema emotivo provocando ripercussioni a livello neurologico: «gli uomini che ai loro computer utilizzano assuefatti la pornografia – dice lo psichiatra Norman Doidge – sono sorprendentemente simili ai topi in gabbia [di certi esperimenti scientifici] che premono la leva per ottenere una goccia di dopamina». Il terapista J.C. Manning mette in guardia dal sottovalutare il fenomeno: «coloro che sostengono che la pornografia sia un intrattenimento innocuo, un'espressione sessuale benigna o un aiuto coniugale, evidentemente non si sono mai seduti in uno studio di un terapista con individui, coppie o famiglie che tremano a causa dell'effetto devastante di questo materiale».

IL PIANO INCLINATO

A causa dell'onnipresenza della pornografia, avverte "The Social Costs of Pornography", si assiste oggi ad un fenomeno di saturazione culturale per cui la televisione, le riviste e le canzoni pop contengono regolarmente «immagini, situazioni e testi che una generazione fa sarebbero stati etichettati come "soft porn"». La pornografia desensibilizza i suoi spettatori e di conseguenza muta non solo per quantità ma anche per qualità. I porno-utenti sono infatti portati ad utilizzare un immaginario sempre più hard che una volta avrebbero ritenuto sconvolgente: «i resoconti di chi l'ha visto descrive ciò che ora viene considerato "hard-core" in termini che sbalordirebbero l'immaginazione e scioccherebbero la coscienza di chiunque non sia un utilizzatore di pornografia hard-core», afferma il professor James Stoner.

IMMAGINE DELLA DONNA

La cultura pornografica contribuisce in maniera fondamentale a veicolare un'immagine degradante delle donne. Diversi studi accademici hanno mostrato che i ragazzi esposti all'intrattenimento sessualizzato dei media hanno una propensione sensibilmente maggiore a «guardare la donna come un oggetto sessuale» invece che come una persona, mentre l'esposizione abitudinaria alla pornografia può predisporre le adolescenti a comportamenti sessualmente rischiosi. Inoltre «le ragazze esposte alla pornografia hanno più probabilità di essere vittime di violenza sessuale. La normalizzazione della promiscuità porta le adolescenti anche ad un rischio maggiore di contrarre malattie sessualmente trasmissibili».

FAMIGLIA

Nel bilancio nascosto dell'industria del porno c'è spazio anche per altre vittime: le famiglie. La scoperta che il partner ricorre alla pornografia ha spesso delle ripercussioni nei rapporti interpersonali: costi psichici, oltre che una maggiore probabilità di rottura dell'equilibrio famigliare. In più, come afferma il terapista Manning, la pornografia «è spesso associata ad attività che minano l'esclusività e la fedeltà coniugale e aumentano il rischio di trasmissione di malattie veneree». Al riguardo, uno studio pubblicato su Social Science Quarterly rivela che tra i clienti delle prostitute i porno-utenti sono quattro volte più numerosi di chi non ricorre all'intrattenimento hard. Lo stesso studio mostra che tra coloro che hanno una relazione extraconiugale è tre volte più probabile trovare un uomo che utilizza pornografia on line, rispetto ad uno che non ne fa uso.

BAMBINI E ADOLESCENTI

Non c'è nessun dubbio, afferma la ricerca, sul fatto che oggi bambini ed adolescenti siano esposti alla pornografia come mai era successo prima d'ora. Quest'esposizione risulta particolarmente dannosa per i più piccoli perché è un «modo brutale di essere introdotti alla sessualità» ed è il viatico per comportamenti sessualmente aggressivi. La correlazione pornografia/violenza è ricorrente in diversi studi in materia: alcune ricerche sull'argomento, tra cui una italiana, hanno mostrato che gli adolescenti che utilizzano materiale hard hanno più probabilità di «aver tormentato sessualmente un coetaneo o aver forzato qualcuno ad avere un rapporto sessuale» rispetto ai loro pari che non ricorrono alla pornografia e che la quasi totalità dei giovani sex offenders è stata esposta a materiale a luci rosse durante l'infanzia.

PORNOGRAFIA E VIOLENZA

La pornografia, sostiene la psichiatra Mary Anne Layden dell'Università della Pennsylvania, ha la capacità «non solo di insegnare attitudini e comportamenti sociali, ma anche di dare il permesso per metterli in pratica». La legittimazione dell'uso della forza per fini sessuali è considerata dagli studiosi l'influenza più insidiosa della pornografia, soprattutto di quella che ricorre ad un immaginario violento. Tra i sex offenders l'83% degli stupratori e il 67% dei molestatori di minori ha dichiarato di fare uso di materiali hard-core, mentre tra i non-offenders la percentuale scende di molto (29%). Gli studi in materia rivelano che più frequentemente gli uomini usano la pornografia e più violento è il materiale utilizzato, più aumenta la spinta a compiere aggressioni sessuali. «Complessivamente – osserva in conclusione la psichiatra – il corpo della ricerca sulla pornografia rivela una quantità di atteggiamenti e comportamenti negativi che sono connessi al suo uso. La pornografia funziona come un maestro, una legittimazione ed un pulsante di accensione per questi comportamenti negativi. Il danno si riscontra in uomini, donne, bambini e in adulti sia sposati che single. Riguarda comportamenti patologici, comportamenti illegali e alcuni comportamenti che sono sia illegali che patologici».

    Dal Vangelo secondo Shakespeare… Un’intervista di Paolo Pegoraro al prof. Piero Boitani


    Dalla rivista Credere un’intervista di Paolo Pegoraro al prof. Piero Boitani pubblicata il 5/5/2016

    Tra tanti classici della letteratura, nessuno ci parla con l’immediatezza e la freschezza di William Shakespeare. Una sera a teatro in sua compagnia ci svela sempre qualcosa di noi stessi. Shakespeare parla a tutti, senza curarsi dei nostri titoli di studio. “È grande perché fa sentire grande ogni uomo”, diceva di lui G.K. Chesterton. Una definizione che, probabilmente, gli sarebbe piaciuta. Ne parliamo con il professor Piero Boitani, eminente filologo e anglista, già docente a Cambridge e oggi presso l’Università “Sapienza” di Roma.

    Professore, dopo la Bibbia, i drammi scespiriani sono forse i testi più universali, capaci di renderci “esperti di umanità”.
    «Certo, la Bibbia ci rende inoltre “esperti di divinità”… cosa che fa anche Shakespeare, ma in maniera molto più obliqua. Anche Omero e Dante ci parlano dell’umano e del divino, eppure la varietà umana che troviamo nella Bibbia e in Shakespeare è enorme. Con una differenza fondamentale, però: la Bibbia è costituita da tanti libri di autori ed epoche diverse, mentre Shakespeare ha fatto tutto da solo».

    Qual è il segreto di Shakespeare?
    «Da una parte c’è la sua incredibile velocità: compose numerose opere in pochi anni, non dimentichiamo che morì cinquantaduenne. C’è poi la capacità di penetrare nel più profondo degli esseri umani. Shakespeare non è filosofo e men che meno teologo, ma la sua poesia giunge al cuore delle grandi questioni e con poche parole riassume situazioni e modi di sentire. Infine è un grande creatore di personaggi e di trame, che in parte eredita, ma riscrivendole a modo suo».
    Ci si è chiesti sempre più spesso se Shakespeare fosse cattolico. Ci sono delle evidenze?
    «Non dirette. Sappiamo che, quando suo padre morì, Shakespeare fece dire per lui Messe in suffragio. Sappiamo che lui stesso fu seppellito in un cimitero cattolico. Nel primo atto dell’Amleto il fantasma giunge da quello che sembra il Purgatorio. Personalmente ho trovato qualche altra spia. In genere Shakespeare usava la Bibbia di Ginevra, una traduzione riformata, ma in alcune composizioni più tarde, per esempio La Tempesta, ho ragioni filologiche per credere che abbia adoperato la Bibbia di Douai-Reims, cioè una traduzione della Vulgata in inglese fatta proprio per i cattolici».

    ...e in nessuna sua opera troviamo attacchi ai “papisti”, ossia i cattolici.
    «Troviamo invece stoccate contro i puritani, per cui possiamo dire che di certo non era un estremista. Per il clima che si respirava nell’Inghilterra del Seicento non è cosa da poco».
    La critica ha riconosciuto la sua mano in alcune pagine del dramma Tommaso Moro.
    «Sì, e la storia di Tommaso Moro non era certo un tema “neutro” in un Paese protestante. Tanto più in Inghilterra, visto che Moro si oppose al divorzio di re Enrico VIII, che fu causa della separazione da Roma della chiesa anglicana».

    Nel suo libro Il Vangelo secondo Shakespeare lei sottolinea l’importanza “salvifica” dei personaggi femminili...
    «C’è uno sviluppo. Prima abbiamo sia figure positive, come Ofelia e Desdemona, che negative, come la madre di Amleto e Lady MacBeth. In opere come il Re Lear, Cordelia rappresenta una possibilità di riscatto, che però non avviene. Ma negli ultimi drammi - i drammi “romanzeschi” - sono proprio le donne, mogli o figlie, a portare la salvezza. Un dato singolare per il teatro elisabettiano, dove alle donne non era permesso recitare. E dietro alcuni di questi personaggi, ad esempio nel Pericle, si scorge la figura di Maria Maddalena».

    Quella raccontato da Shakespeare è una “buona notizia” sul riconoscimento degli affetti familiari, in cui la donna ha un posto centrale.
    «Queste trame e il posto che in esse occupano le figure femminili sono sempre “terrene”, ma al tempo stesso alludono a qualcos’altro. Il bene, la felicità, viene dalla riunione di marito e moglie, o di padre e figlia, eppure questa riunione rimanda a una felicità ulteriore, che supera il piano terreno. È evidente nel Racconto d’inverno, nel Pericle, ma anche nel Cimbelino».

    Il Vangelo è un testo “drammatico”. Shakespeare può aiutarci a capirlo meglio?
    «T.S. Eliot diceva che qualunque poeta veramente grande cambia la tradizione prima di lui, il modo di leggerla e comprenderla. Così avviene con Shakespeare e la tradizione greco-romana: ormai non riusciamo più a pensare alle Idi di marzo se non come le ha immaginate Shakespeare nel suo Giulio Cesare. Ma Shakespeare getta una luce anche sulla Bibbia, dalla quale ha ripreso citazioni, frasi, immagini o addirittura ombre di trame».

    Il più “parlato” dei Vangeli, quello di Giovanni, pare talvolta un copione teatrale. Il dialogo con la samaritana al pozzo, ad esempio...
    «Il Vangelo di Giovanni è estremamente drammatico, prima della resurrezione ma anche dopo: Maria di Magdala con il giardiniere, l’apparizione ai discepoli, quella con Tommaso...È evidente che l’evangelista ha un’impostazione drammatica e sa come presentare le vicende in maniera drammatica».



    LA MENTALITA' DI QUESTO SECOLO



    Per le donne vale ancora la pena sposarsi?


    Susan B. Anthony non si è mai sposata. Questa suffragetta, abolizionista e attivista per i diritti civili, aveva già capito nel 1877 che “nella transizione delle donne da una posizione di subordinazione a una di sovranità, dev’esserci un’epoca di case automantenute e autosupportate”, che porterà “inevitabilmente a un’epoca di donne single”. Sette generazioni dopo, quell’epoca potrebbe finalmente essere arrivata. Sempre più donne vivono senza un partner, e ancora una volta la questione non è come avere un matrimonio migliore, ma se vale la pena sposarsi.
    Due libri pubblicati di recente da due giornaliste statunitensi hanno soffiato sulle braci quasi spente del dibattito sul matrimonio, l’unione, l’enorme quantità di lavoro che ci vuole per mandare avanti la baracca e se vale la pena sposarsi per le donne che antepongono la loro autonomia alla sicurezza (sempre minore) offerta dalla vita di coppia. 
    All the single ladies di Rebecca Traister mette l’accento sul potere crescente delle donne single negli Stati Uniti e sulla minaccia che rappresenta per lo status quo socioeconomico. Labor of love di Moira Weigel si concentra sul fatto che per molte donne ciò che viene chiamato amore ed è visto come un destino scontato si traduce in un lavoro – lavoro duro, lavoro senza fine, lavoro domestico e organizzativo senza limiti e senza ricompensa. Ed è molto più opzionale di quanto la società ci spinga a credere. “La vita da donna single non è un’imposizione”, scrive Traister. “Al contrario, è una liberazione”.
    In fondo alle priorità
    Questi libri non potevano arrivare in un momento migliore. Non riesco a trovare le parole per esprimere la mia ansia per il fatto che a quasi trent’anni non sento ancora il minimo desiderio di sistemarmi e mettere su una famiglia tradizionale. Ho aspettato senza preconcetti il momento in cui avrei provato un impulso neodarwiniano a riprodurmi, ma non è ancora arrivato. Nonostante tutta la pressione sociale che subisco, sto bene così.
    Sono felice che il mio lavoro, la mia attività politica, la mia comunità e i miei libri siano importanti quanto le persone con cui esco. Mi piacciono i bambini, ma non abbastanza da accollarmi il lavoro, il dolore, la preoccupazione e la perdita di opportunità che comportano. Non adesso, e forse mai. Vivo in una comune, ho relazioni multiple e sono concentrata sulla mia carriera. Ho sempre pensato, perché questo è quello che mi hanno sempre detto, che fosse solo una fase. Ma leggere questi due libri mi ha aiutata ad ammettere che il matrimonio e i bambini sono sempre stati in fondo alla lista delle mie priorità, e rischiano continuamente di essere depennati. Ci sono troppe altre cose che voglio fare.
    Ho fatto la stessa scelta che gli uomini della mia età hanno potuto fare per secoli senza essere criticati dalla società o costretti a rifletterci attentamente. E di per sé non è una scelta radicale. La possibilità che milioni di donne facciano la stessa scelta, invece, è una prospettiva minacciosa.
    La rivoluzione sta nell’eliminazione dell’imperativo che per secoli ha incanalato tutte le donne verso il matrimonio eterosessuale e la maternità
    Mentre le scrittrici riconoscono, per la prima volta in generazioni, il rammarico covato in silenzio nel matrimonio e nella maternità, il lavoro previsto da entrambi sta diventando finalmente visibile. L’espressione chiave è “lavoro emozionale”. Weigel ci ricorda che il lavoro emozionale non è solo fare le pulizie, cucinare o soffiare il naso ai bambini, ma organizzare la famiglia e le relazioni, pianificare il matrimonio e la riproduzione, ricordarsi i compleanni e gli anniversari, gestire lo stress, tenere conto delle allergie. In sintesi, tutto il lavoro che serve per mantenere felici gli esseri umani al livello intimo.
    Ricompensa insignificante
    Qualcuno deve svolgere questo lavoro, e il peso è ricaduto sulle spalle delle donne per così tanto tempo da renderlo invisibile in base alla supposizione che le donne sono fatte – da dio o dalla natura – per occuparsi di queste faccende, con tutto un corredo di stupidaggini pseudoscientifiche. L’idea che le donne possano essere stanche di svolgere questo lavoro senza essere ricompensate rappresenta una grave minaccia per il funzionamento della società come la conosciamo.
    È più che possibile, per le persone che svolgono questi lavori domestici ed emozionali, sentirsi alienate dal prodotto di questa fatica, specialmente quando la ricompensa che ricevono è così insignificante. Il lavoro emozionale e domestico è lavoro, e le donne hanno dovuto affrontare tremende condizioni lavorative per troppo tempo.
    Ho capito che il dibattito sul lavoro emozionale era stato sdoganato quando ho visto che era finito sulla copertina di una rivista femminile che non è certo radicalmente femminista. “Chi svolge il lavoro nella vostra relazione?”, domandava Psychologies accanto a una foto di Beyoncé che, in un album pubblicato di recente, ha chiesto al marito di fare di più “altrimenti perderai tua moglie”, insieme alla velata minaccia di far cadere il governo. Bey ha smesso da un pezzo di chiedere “di metterci l’anello”, come ha fatto il resto di noi.
    “La rivoluzione” annuncia Traister, “sta nell’ampliamento delle scelte, nell’eliminazione dell’imperativo che per secoli ha incanalato tutte le donne (non schiave ) in una strada a senso unico verso il matrimonio eterosessuale e la maternità”. Riconsiderare il matrimonio e la vita di coppia come un lavoro che si può scegliere solleva interrogativi concreti per le donne che pensano a “mettere su famiglia”.
    Ne vale la pena? Accettare, nel migliore dei casi, una vita di gestione domestica è un prezzo troppo alto da pagare per un riconoscimento così limitato? Davvero volete passare anni a prendervi cura dei bambini e di un partner quando è già abbastanza difficile prendervi cura di voi stesse? Non molto tempo fa il matrimonio era l’unica opzione disponibile per la maggior parte delle donne che volessero una sicurezza finanziaria, figli legittimi, uno status sociale e una vita sessuale regolare. Le nostre antenate hanno combattuto per il diritto ad avere tutti questi vantaggi al di fuori della vita di coppia, e oggi i benefici del matrimonio e della monogamia sono sempre più spesso superati dai loro costi.
    I romanzi del terrore di Jane Austen
    Tanti studi hanno dimostrato che sono gli uomini, e non le donne, a trarre i maggiori benefici dal matrimonio e dalla vita di coppia. Gli uomini che si sposano sono generalmente più felici e in salute degli uomini single. Le donne sposate, invece, non se la passano affatto meglio delle donne single. Gli uomini divorziati hanno solitamente molta più voglia di risposarsi, mentre le donne non ne vogliono sapere. Questo spiega perché sono le donne e non gli uomini a dover essere indirizzate fin dall’infanzia verso la vita di coppia.
    È alle ragazzine, non ai ragazzini, che si insegna a prepararsi al matrimonio, a immaginare il loro ruolo futuro di mogli e madri, ad aver paura di “restare al palo”. “Scapolo” è un termine rispettoso, mentre “zitella” è dispregiativo. Sono le donne, non gli uomini, i bersagli della propaganda del romanticismo. Da Hollywood ai reality show passando per i tabloid, è universalmente accettato che una donna single, a prescindere dalle sue risorse, dev’essere per forza alla ricerca di un uomo.
    Ma davvero è così? Ho sempre disprezzato Jane Austen fino all’anno scorso, quando mi sono ritrovata su un treno senza nient’altro da leggere se non Emma. In quel momento ho capito qualcosa che non avevo mai intuito quando studiavo lettere: i famosi romanzi di Austen che parlano d’amore all’interno di case imponenti e matrimoni claustrofobici hanno molto più senso se pensiamo che tutte le sue protagoniste sono profondamente depresse ed economicamente disperate. La ragione per cui le sue eroine di classe media sono così ossessionate dal matrimonio è che non hanno alternative. Senza un partner sarebbero costrette ad affrontare la povertà, la vergogna e l’isolamento sociale. Non sono storie romantiche. Sono racconti del terrore. In tre settimane ho letto tutti i suoi libri.
    Oggi le donne single hanno più potere, ma c’è ancora un prezzo da pagare per la scelta di non sposarsi
    I libri di Austen sono ancora considerati storie frivole per donne frivole, ma in realtà parlano di disperazione. Austen, che non si è mai sposata, racconta di donne che vivono in gabbie costruite dagli uomini e cercano di sopravvivere come possono. È proprio questo che rende i suoi romanzi bellissimi e, almeno per me, spaventosi.
    Le reali paure delle donne e le loro preoccupazioni a proposito del matrimonio e della convivenza sono state ignorate e sminuite sempre nello stesso modo, considerandole questioni da poco e indegne di considerazione all’interno della sfera pubblica. Ma la verità è che si tratta di questioni vitali, viscerali, incentrate sul lavoro e sul potere ancora oggi, in un mondo in cui la maggior parte delle donne, per fortuna, ha più scelta rispetto all’inizio dell’ottocento.
    Oggi le donne single hanno più potere e sono più presenti che mai, ma c’è ancora un prezzo da pagare per la scelta di non sposarsi. Non parlo solo dello stress di navigare in acque sconosciute e ignorare decenni di condizionamenti che ci spingono a pensare che la vita senza un partner non abbia senso. È anche una questione di soldi.
    Più di metà degli statunitensi che guadagnano meno del salario minimo sono donne single, e le donne single hanno il quintuplo di probabilità di vivere in povertà rispetto alle donne sposate. Questa è stata considerata la prova che il matrimonio aiuta le donne, ma in realtà dovrebbe essere ritenuto il segno che la società deve fare di più per sostenere la scelta delle donne, così come ha sostenuto le scelte degli uomini per secoli.
    Se le donne rifiutassero in massa il matrimonio e la vita di coppia il funzionamento della società moderna sarebbe profondamente scosso. Uno stravolgimento simile è già avvenuto in passato, quando il capitalismo è riuscito ad assorbire l’ingresso massiccio delle donne nei luoghi di lavoro tradizionalmente maschili riducendo i salari. Ma resta da capire come si formeranno le nuove famiglie e come saranno cresciuti i figli.
    I timori sul calo del tasso di fertilità tra le donne bianche della classe media è paragonabile all’isteria moderna verso le donne della classe operaia, nere o migranti che “fanno troppi figli”. Il tentativo dei neoconservatori di costringere le donne bianche e benestanti a tornare in cucina è motivato dal panico razzista e dalla volontà di ripristinare un ordine sociale che ha funzionato sempre e solo per gli uomini.
    Nel mondo reale l’amore è probabilmente l’unica risorsa infinita e rinnovabile, ed è arrivato il momento di avere più scelta
    “Le donne single si stanno ritagliando uno spazio in un mondo che non è stato costruito per loro”, conclude Traister. “Se vogliamo progredire dobbiamo fare spazio alle donne libere, adeguando sistemi socioeconomici costruiti sull’idea che le donne contino qualcosa solo da sposate”. Traister è convinta che le donne single dovrebbero pretendere dallo stato il sostegno che un tempo era dato dai mariti.
    “Chiedendo al governo di sostenere le loro ambizioni, le loro scelte e la loro indipendenza, le donne single si stanno affermando come cittadine esattamente come hanno fatto gli uomini statunitensi per generazioni”. Lo stesso vale nel resto del mondo. La liberazione delle donne dal lavoro domestico ed emozionale obbligatorio è una prospettiva di libertà che le generazioni passate potevano solo immaginare. Dobbiamo assolutamente prenderla sul serio.
    E quelle che scelgono comunque il matrimonio e la vita di coppia nonostante tutte queste alternative? Possono farlo con la consapevolezza che la loro è una scelta libera. Quando la vita di coppia smette di essere obbligatoria diventa ancora più speciale. La prossima settimana uno dei miei partner si sposa, e questa settimana sono andata al suo addio al celibato.
    Sono felice per lui e per la sua fidanzata, che mi ha dato il permesso di parlare di lei in questo articolo. Mi piacciono i matrimoni. Mi piace guardare le persone a cui voglio bene costruire un futuro insieme, qualunque esso sia. E mi piace vestirmi bene e ubriacarmi di champagne da due soldi con i loro parenti fuori di testa. Non c’è niente che mi piaccia di più che essere ospite di un matrimonio per un fine settimana. Ma resta il fatto che credo nello smantellamento delle istituzioni sociali ed economiche del matrimonio e della famiglia.
    Credo in tutto questo perché ho il cuore tenero, e non “nonostante” il mio cuore tenero. Sono una romantica. Credo che l’amore debba essere liberato dai confini della famiglia tradizionale e monogama, e che anche le donne debbano essere liberate. Penso che avvolgere gli aspetti più intimi e sfiancanti del lavoro umano in uno smielato involucro di cuoricini e fiori, chiamandolo amore e pretendendo che le donne lavorino senza ringraziamenti né ricompense, sia un’idea assolutamente antiromantica.
    Nel mondo reale l’amore è probabilmente l’unica risorsa infinita e rinnovabile, ed è arrivato il momento di avere più scelta. Voglio più scelta per me e voglio più scelta per tutte noi. Non solo come femminista ma come romantica, perché solo così un giorno potremo incontrarci e sceglierci nell’uguaglianza.
    Ciò che è personale, comunque, resta anche politico. Il fatto che le donne rifiutino le pretese d’amore e matrimonio non riguarda solo la vita privata. È una questione lavorativa. Non è impossibile che, una volta capito quanto sono terribili le loro condizioni lavorative, le donne decidano di scioperare, e sarebbe uno sciopero che la società non può neanche immaginare: vasto, sparpagliato, con i picchetti alla porta di tutte le case e alla soglia di ogni cuore. Come un vero sciopero, potrebbe funzionare solo grazie alla consapevolezza e alla solidarietà tra gli scioperanti, e ci sarà un prezzo da pagare. Ma è così che si conquista la libertà.
    (Traduzione di Andrea Sparacino)
    Questo articolo è uscito sulla rivista britannica New Statesman.