Barberis
(1950) insegna
Storia moderna
e Metodologia
della ricerca
storica
all’Università di Torino; è
presidente
della Giulio
Einaudi editore
Ferruccio de Bortoli
Uno studente chiese a Goti Bauer,
sopravvissuta milanese alla Sho-
ah, donna di grande dolcezza, se
un giorno mai avrebbe perdonato
i suoi aguzzini. «No» rispose Goti. Un no
cortese ma secco. La domanda non l’aveva
turbata. Forse gliel’avevano già fatta tante
altre volte. Io, che pur l’avevo ascoltata in
diverse occasioni, insieme a Liliana Segre
e altri testimoni, mi sarei aspettato chissà
perché, in quella circostanza, una risposta
più articolata. Forse ai giovani e al pubbli-
co contemporaneo andrebbe spiegato
perché un reato di genocidio non va mai in
prescrizione e perché con l’oblio le vittime
muoiono una seconda volta. Ma quel no di
Goti, mi convinsi, non aveva bisogno né di
spiegazioni né tantomeno di giustificazio-
ni. Andava bene così.
Storia senza perdono è il titolo del sag- gio scritto da Walter Barberis e appena pubblicato da Einaudi. Lo storico torinese si interroga sulle ragioni che spingono una società — anche se sotto traccia — a tentare di chiudere i capitoli più dolorosi della propria storia. A mettere un punto. Quasi un istinto a liberarsi del passato nel- l’illusione che ciò rischiari e rassereni il futuro, lo liberi dalle «catene» del ricordo. Ma la memoria è una guida. Non è un pe- so, un fastidio retorico e nemmeno una distrazione.
«Solo il Dio della Bibbia — scrive Barbe- ris — può perdonare, chi altri ha il diritto di farlo, con quale autorità? Il “per-dono” è la più alta forma di amnistia, e l’amnesia è la sua diretta conseguenza». L’autore si domanda altresì che cosa abbia da guada- gnare una società da un «occultamento pacificatore del suo torbido passato». Nul- la. Ha tutto da perdere. Ed è come se ri- nunciasse a un prezioso vaccino e gettasse via tutti gli anticorpi — frutto del dolore delle vittime, del sacrificio e del coraggio dei giusti — nella speranza che una malat- tia si possa sconfiggere dimenticandone i sintomi. La malapianta dell’indifferenza, i germi dell’intolleranza, ricrescono facil- mente. Si nutrono di pregiudizi, sospetti, caccia al diverso ritenuto colpevole senza prove di ogni nostro guaio, bersaglio delle nostre paure. L’ignoranza e la manipola- zione della storia fanno riemergere vecchi fantasmi. La seduzione dei totalitarismi trova terreno fertile nel ribollire di nuovi rancori sociali. È l’arma impropria con cui spesso si reagisce a un senso di esclusio- ne, di ingiustizia. E così i carnefici vengo- no riabilitati, le vittime ricacciate nei la- ger. L’oblio è anche questo. Ma si dimenti- cano anche i giusti.
Ho ascoltato tante testimonianze, so- prattutto di Liliana Segre, davanti a platee di studenti, attenti, spesso commossi, nel silenzio assoluto (con un pubblico di soli adulti non sempre è così). La preoccupazione del testimone, nella sofferenza rin- novata del racconto, è anche e soprattutto quella di restituire vita e dignità alle altre vittime, alle persone che non hanno avuto la fortuna di salvarsi. Il testimone si sente quasi in colpa per non averne condiviso il destino. Semmai volesse perdonare, non potrebbe mai farlo pensando ai tanti, tan- tissimi, non solo ai familiari, che non sono mai tornati. All’impossibilità di piangerli su una tomba. All’idea che persone tra- sformate, da una efficiente macchina di morte, in pezzi da smaltire possano ritor- nare alla condizione di scarti della storia. Ma i testimoni, che purtroppo si assotti- gliano con il passare degli anni, non basta- no per consegnare alle prossime generazioni una memoria viva, non retorica, un insegnamento utile. Né sono sufficienti i musei, i memoriali. Occorre, come dice Barberis, una storiografia fatta di ricerca razionale, di onestà dell’insegnamento e soprattutto di «tanta umanità».
Storia senza perdono è il titolo del sag- gio scritto da Walter Barberis e appena pubblicato da Einaudi. Lo storico torinese si interroga sulle ragioni che spingono una società — anche se sotto traccia — a tentare di chiudere i capitoli più dolorosi della propria storia. A mettere un punto. Quasi un istinto a liberarsi del passato nel- l’illusione che ciò rischiari e rassereni il futuro, lo liberi dalle «catene» del ricordo. Ma la memoria è una guida. Non è un pe- so, un fastidio retorico e nemmeno una distrazione.
«Solo il Dio della Bibbia — scrive Barbe- ris — può perdonare, chi altri ha il diritto di farlo, con quale autorità? Il “per-dono” è la più alta forma di amnistia, e l’amnesia è la sua diretta conseguenza». L’autore si domanda altresì che cosa abbia da guada- gnare una società da un «occultamento pacificatore del suo torbido passato». Nul- la. Ha tutto da perdere. Ed è come se ri- nunciasse a un prezioso vaccino e gettasse via tutti gli anticorpi — frutto del dolore delle vittime, del sacrificio e del coraggio dei giusti — nella speranza che una malat- tia si possa sconfiggere dimenticandone i sintomi. La malapianta dell’indifferenza, i germi dell’intolleranza, ricrescono facil- mente. Si nutrono di pregiudizi, sospetti, caccia al diverso ritenuto colpevole senza prove di ogni nostro guaio, bersaglio delle nostre paure. L’ignoranza e la manipola- zione della storia fanno riemergere vecchi fantasmi. La seduzione dei totalitarismi trova terreno fertile nel ribollire di nuovi rancori sociali. È l’arma impropria con cui spesso si reagisce a un senso di esclusio- ne, di ingiustizia. E così i carnefici vengo- no riabilitati, le vittime ricacciate nei la- ger. L’oblio è anche questo. Ma si dimenti- cano anche i giusti.
Ho ascoltato tante testimonianze, so- prattutto di Liliana Segre, davanti a platee di studenti, attenti, spesso commossi, nel silenzio assoluto (con un pubblico di soli adulti non sempre è così). La preoccupazione del testimone, nella sofferenza rin- novata del racconto, è anche e soprattutto quella di restituire vita e dignità alle altre vittime, alle persone che non hanno avuto la fortuna di salvarsi. Il testimone si sente quasi in colpa per non averne condiviso il destino. Semmai volesse perdonare, non potrebbe mai farlo pensando ai tanti, tan- tissimi, non solo ai familiari, che non sono mai tornati. All’impossibilità di piangerli su una tomba. All’idea che persone tra- sformate, da una efficiente macchina di morte, in pezzi da smaltire possano ritor- nare alla condizione di scarti della storia. Ma i testimoni, che purtroppo si assotti- gliano con il passare degli anni, non basta- no per consegnare alle prossime generazioni una memoria viva, non retorica, un insegnamento utile. Né sono sufficienti i musei, i memoriali. Occorre, come dice Barberis, una storiografia fatta di ricerca razionale, di onestà dell’insegnamento e soprattutto di «tanta umanità».
Barberis riprende una frase di Primo Le-
vi: «La memoria umana è uno strumento
meraviglioso e fallace». Ma non va oltre la
dimensione individuale. E attenzione a
non abusarne, si può rimanerne impiglia-
ti. «L’abuso della memoria — scrive Bar-
beris — non è meno dannoso di un cattivo
uso della storia». Il libro elenca anche nu-
merosi falsi, come L’uccello dipinto del
1965 di Jerzy Kosinski. Storie inventate co-
me quella uscita dalla fantasia di Enric
Marco, che ha ingannato a lungo un intero
Paese, la Spagna, ed è stato descritto magi-
stralmente da Javier Cercas ne L’imposto-
re.
Per lungo tempo, subito dopo la guerra, dimenticare e rimuovere apparvero due scelte di necessità, persino di buon senso. Anche da parte dei sopravvissuti, che un po’ si vergognarono. L’orgoglio della paro- la, il dovere della testimonianza verrà più tardi, dopo il processo Eichmann, con l’esposizione del dolore delle vittime. A Norimberga no: era prevalsa una trattazio- ne più fredda e cartacea nell’individuazio- ne delle responsabilità del regime nazista. A dieci anni dalla Shoah, il regista Alain Resnais rimontò le immagini mostrate a Norimberga in un documentario dal titolo Notte e Nebbia. Il primo sul genocidio de- gli ebrei. La censura francese ne proibì la diffusione. Per le scene dei corpi straziati? No, perché si poteva scorgere un militare francese spingere anch’egli, come i tede- schi, i connazionali ebrei sui treni diretti ai campi di concentramento e di stermi- nio. Stessa sorte ebbe, ma eravamo già nel 1969, un altro regista francese, Marcel Ophüls, con il documentario Le Chagrin et la Pitié. De Gaulle disse che il Paese non aveva bisogno di verità, ma di speranza e coesione. Le responsabilità francesi nella deportazione degli ebrei verranno ricono- sciute dall’appena scomparso Jacques Chi- rac a proposito del rastrellamento del Vélodrome d’Hiver, soltanto nel 1995. Ma anche altri Paesi compreso il nostro, cad- dero nella tentazione di dimenticare, ri- muovere, lavare le coscienze dalle tante complicità nazionali. Il Nobel Elie Wiesel, ricordato da Barberis, sosteneva che i so- pravvissuti hanno da dire più di tutti gli storici messi insieme. «Perché solo coloro che vi passarono sanno che cosa fu; gli al- tri non lo sapranno mai». Vero. L’impor- tante, però, è che non se lo dimentichino, che ne assimilino la lezione storica. E so- prattutto che non invertano ragioni e torti. Accade spesso quando la memoria si atte- nua, si spegne o muta semplicemente so- stanza. Come diceva Levi, è fallace.
Corriere della Sera 7 ottobre 2019
Per lungo tempo, subito dopo la guerra, dimenticare e rimuovere apparvero due scelte di necessità, persino di buon senso. Anche da parte dei sopravvissuti, che un po’ si vergognarono. L’orgoglio della paro- la, il dovere della testimonianza verrà più tardi, dopo il processo Eichmann, con l’esposizione del dolore delle vittime. A Norimberga no: era prevalsa una trattazio- ne più fredda e cartacea nell’individuazio- ne delle responsabilità del regime nazista. A dieci anni dalla Shoah, il regista Alain Resnais rimontò le immagini mostrate a Norimberga in un documentario dal titolo Notte e Nebbia. Il primo sul genocidio de- gli ebrei. La censura francese ne proibì la diffusione. Per le scene dei corpi straziati? No, perché si poteva scorgere un militare francese spingere anch’egli, come i tede- schi, i connazionali ebrei sui treni diretti ai campi di concentramento e di stermi- nio. Stessa sorte ebbe, ma eravamo già nel 1969, un altro regista francese, Marcel Ophüls, con il documentario Le Chagrin et la Pitié. De Gaulle disse che il Paese non aveva bisogno di verità, ma di speranza e coesione. Le responsabilità francesi nella deportazione degli ebrei verranno ricono- sciute dall’appena scomparso Jacques Chi- rac a proposito del rastrellamento del Vélodrome d’Hiver, soltanto nel 1995. Ma anche altri Paesi compreso il nostro, cad- dero nella tentazione di dimenticare, ri- muovere, lavare le coscienze dalle tante complicità nazionali. Il Nobel Elie Wiesel, ricordato da Barberis, sosteneva che i so- pravvissuti hanno da dire più di tutti gli storici messi insieme. «Perché solo coloro che vi passarono sanno che cosa fu; gli al- tri non lo sapranno mai». Vero. L’impor- tante, però, è che non se lo dimentichino, che ne assimilino la lezione storica. E so- prattutto che non invertano ragioni e torti. Accade spesso quando la memoria si atte- nua, si spegne o muta semplicemente so- stanza. Come diceva Levi, è fallace.
Corriere della Sera 7 ottobre 2019