DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Il senso della vita: “Difficile credere a Dio di fronte a certi fatti”

di Alessandro Gnocchi
Tratto da Il Giornale del 5 settembre 2010

Dunque, scrive il fisico Stephen Hawking, la nascita dell’universo non ha avuto bisogno di Dio, il cosmo è nato dal nulla: "Grazie alla legge di gravità l’Universo può crearsi e e si crea dal nulla.

È inutile, perciò, chiamare in causa Dio per fargli caricare la molla del meccanismo dell’Universo". Conclusione: ci sono leggi scientifiche che spiegano ogni passo della materia verso la vita. Ma, commentava ieri Stefano Zecchi sul Giornale, tutto ciò spiega il "come" e non il "perché", spiega "l’origine del mondo" e non "il suo significato".

"Hawking -scrive ancora Zecchi- è costretto su una sedia a rotelle, parla grazie alla tecnologia: ha tutte le spiegazioni della sua malattia, fornitegli dalla scienza. Ma la scienza medica non gli dirà mai perché proprio lui è stato colpito dal male e quale significato ha la sua sofferenza per il male. Forse Hawking, come Giobbe, avrà domandato a Dio il perché del male a un giusto".

Mentre in redazione si impaginavano le diverse opinioni, nel rullo delle agenzie passavano un paio di notizie che colpivano l’attenzione di tutti i presenti.

A New York un ragazzo di 22 anni si è lanciato dal 39° piano di un grattacielo. Non è riuscito a suicidarsi nonostante un volo di 122 metri. Il suo corpo, atterrato alla velocità di 200 chilometri all’ora, è rimbalzato su un lunotto che ha attutito il colpo: si è fratturato una gamba e una caviglia; e si è perforato un polmone. Pur incastrato tra i sedili della vettura, il giovane è rimasto perfettamente lucido. Il proprietario della macchina, un muratore subito accorso sul posto, ha attribuito il miracolo al rosario appeso al lunotto.

Quasi contemporaneamente, a Sagnino, frazione di Como, un adolescente è morto nel più ingiusto dei modi. Era in sella al suo scooter quando è stato investito da un’auto alla guida della quale c’era una donna ubriaca (aveva un tasso di alcolici quattro volte superiore a quello consentito dalla Legge). I genitori, con generosità, hanno autorizzato l’espianto degli organi, salveranno sette ragazzi.

Di fronte a simili notizie, è difficile raccapezzarsi. E viene da dubitare che esista un "significato". Non è il puro capriccio del caso a salvare una vita, che si vorrebbe buttare via, e a condannarne un’altra, di cui si è innamorati? Mi rendo conto: sono parole che non tengono conto di millenni di riflessione filosofica e teologica, sono parole terra a terra. Eppure la domanda sul senso, che è soprattutto, per quanto mi riguarda, una domanda sul destino dei nostri figli (come possiamo proteggerli se siamo tutti in balia della sorte imprevedibile? Ho paura solo a chiedermelo) è ineludibile. Guardando ciò che ci circonda mi affiorano alle labbra solo due risposte, ed entrambe sono scioccanti e odiose: nulla ha senso; o se Dio esiste, deve essere un Dio sommamente indifferente a ciò che accade alle sue creature. Perché permette il male e ci lascia soli ad affrontarlo.

La Sindone e la risposta cristiana al mistero del dolore Non di fronte ma dentro la sofferenza

di Ferdinando Cancelli

"Accanto al malato la speranza ha il volto della cura" affermava - a conclusione della sua relazione - il cardinale Angelo Bagnasco e, citando Cicely Saunders, fondatrice del primo hospice inglese, "la risposta cristiana al mistero della sofferenza non è una spiegazione ma una presenza". La presenza dei curanti, chiamati ad assicurare al malato quel "grembo vivo di relazioni" all'interno del quale egli possa continuare a vivere, ma anche e soprattutto "la presenza del grande Paziente, Cristo crocifisso, che abita e colma la solitudine del corpo e dello spirito in quelle fragilità così personali e profonde dove nessuna umana presenza può abitare pienamente".
Il convegno "L'uomo di fronte al mistero della sofferenza", svoltosi a Torino a margine dell'ostensione della Santa Sindone, è stato l'occasione per una riflessione profonda sul mistero della sofferenza e sui sentieri percorsi per intravedere la speranza racchiusa nel senso di questa ineludibile esperienza umana.
Sebbene pronunciate a distanza di un giorno l'una dall'altra, le relazioni dell'arcivescovo di Genova e quella di Francesco Botturi - ordinario di filosofia morale all'Università Cattolica del Sacro Cuore - si sono intrecciate e ritrovate quasi per dialogare in più punti.
Soffermandosi in apertura sull'uomo di fronte alla sofferenza nella cultura contemporanea, il cardinale Bagnasco ha sottolineato come la società oscilli "tra rimozione e spettacolarizzazione": attraverso la "mediazione protettiva dello schermo televisivo" è possibile assistere alla "morte esibita" e al "particolare macabro" come in un rito di "esorcizzazione collettiva della sofferenza stessa", quasi fosse possibile poi allontanare il tutto semplicemente "cambiando canale", senza quel pudore che, "quasi riflesso istintivo di fronte al dolore e alla morte", pare ormai assente.
Ma vi sono casi in cui prendere le distanze dal contenuto di un'esperienza ne provoca invariabilmente la dissoluzione: questo è - secondo Botturi - il caso della sofferenza: non ci si può "porre di fronte a essa" perché la si ridurrebbe a un sintomo, a un qualcosa di soggettivo ed esterno all'osservatore mentre, ha continuato il filosofo, "la sofferenza esiste solo se vissuta in prima persona". Il tentativo di rimuoverla tenendola a distanza porta solamente - afferma Botturi - all'"insofferenza per la sofferenza" e al "risentimento per la sofferenza": diviene insopportabile ciò che non si riesce a vivere, diviene insopportabile chi, con la propria immagine, ricorda ai sani che la sofferenza è parte della vita umana.
Di fronte alla non accettazione del soffrire - prosegue il cardinale Bagnasco - l'uomo moderno tenta di rifugiarsi, quando non nella "fuga dalla realtà che va dall'irresponsabilità fino alla deconnessione psichica", ottenuta mediante il ricorso a sostanze stupefacenti o all'alcol, almeno nella convinzione, "quanto meno ingenua", di poter "essere padrone pieno ed assoluto della salute e della vita". Si vorrebbe, per dirla con le parole di Botturi, che la tecnicizzazione della medicina fosse esauriente e che l'universo della sofferenza potesse essere ridotto al capitolo della terapia del dolore; ma l'atto curativo ha una portata ben maggiore rispetto alla tecnica: è uno spazio nel quale riprende senso il termine "compassione" sulla base di qualcosa che, avendo una radice comune, può essere patito insieme in quel "grembo di relazioni" citato dal cardinale Bagnasco che rappresenta l'alveo naturale dove scorre la vera relazione terapeutica.
Come uscire quindi da questo vicolo cieco di fuga e stordimento che sembra sfociare unicamente nell'angoscia e nella disperazione? "In ultima analisi - afferma il cardinal Bagnasco - la delusione per il fallimento di ogni rimedio e la mancanza di un contesto culturale e relazionale capace di confrontarsi con la sofferenza hanno l'effetto di rendere questa esperienza umana ancora più dolorosa, perché vissuta come qualcosa di assurdo e di inutile". "L'uomo che considera la propria vita priva di senso non è solo infelice ma è anche incapace di vivere" scriveva a questo proposito Albert Einstein, ma l'esperienza ci dice che, essendo la sofferenza parte integrante della vita umana, l'espressione potrebbe essere parafrasata affermando che è incapace di vivere colui che considera la propria e l'altrui sofferenza priva di senso. I due relatori concordano nell'affermare che l'umanità più vera fiorisce nella misura in cui esce da sé per farsi dono. E, direbbe Viktor Frankl, i momenti nei quali l'uomo può "essere, diventare o restare se stesso" sono proprio quelli nei quali tende a "uscire da sé" e a vivere per un altro: amare, pregare e morire.
La sofferenza, che "si riassume nel vertice della morte fisica - sottolinea il cardinale Bagnasco - sembra appartenere alla trascendenza dell'uomo e (...) la misteriosa possibilità offerta all'uomo di trascendersi mediante la sofferenza apre la prospettiva di un senso e di un compimento".
La credibilità che l'esistenza acquista quando attraversa il patire e l'autorevolezza che promana da chi ha sofferto o soffre per testimoniare un valore sono evidenze, quasi parole, del misterioso linguaggio con il quale la sofferenza ci parla di un qualcosa che ci sorpassa, di un Qualcuno in grado di colmare la nostra inquietudine esistenziale e quel "desiderio contraddetto" di pienezza e di pace nel quale è da ricercare, secondo Botturi, la radice di ogni umano patire, la spinta che fa perennemente oscillare l'uomo tra disperazione e affidamento.
L'origine del termine "sofferenza" rimanda in effetti a qualcosa da portare - dice Botturi - a un peso da caricarsi, distinguendosi in questo nettamente dal termine "dolore" che invece rimanda più direttamente a una disfunzione, a un deficit: una cultura che accetti la sofferenza, dice lo studioso, ha bisogno di conservare tale distinzione per interpretare correttamente la compassione.
Ma a questo punto già lo sguardo è portato a levarsi verso la Sindone, verso l'Uomo umiliato e offeso, verso le ferite che come una scrittura incisa nel suo corpo ci svelano un senso che ci sorpassa e ci parla di eternità, un senso che ci aiuta a vivere davvero da uomini.


(©L'Osservatore Romano - 22 aprile 2010)




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La società del divertimento imbelletta anche il teschio. La morte oggi è spettacolarizzato per esorcizzarla

di Stenio Solinas
La moda del teschio, il teschio alla moda. Prendete la scultura anatomica di Damien Hirst For the Love of God: ottomila e passa diamanti della gioielleria Bentley&Skinner incastonano il platino utilizzato dall’artista come materia superlusso. Venduta per 100 milioni di dollari, è l’opera d’arte contemporanea più cara mai realizzata da un artista vivente. Hirst i crani li colleziona, li serigrafa, ne fa delle icone sorridenti, e non sorprende che François Pinault, il magnate e mecenate di palazzo Grassi e Punta della Dogana lo porti in palmo di mano: il ritratto di sé che preferisce è quello fattogli nel 2003 da Piotr Uklanski ed è nient’altro che una radiografia colorata della propria testa con sotto due tibie incrociate alla maniera di un vessillo corsaro. Tutto si tiene: un’arte pirata e la pirateria dell’arte, il legame funereo, ma non tragico, fra artisti e mercanti, un pirata collezionista di un cranio che è già teschio, già defunto pur essendo ancora vivo... La morte dell’arte come de profundis dell’umanità.
È un revival funebre che dura da qualche decennio e dagli Skull di Andy Warhol degli anni Settanta, alle Tête de mort di Niki de Saint Phalle degli anni Ottanta, alla Body Art con scheletro incorporato di Marina Abramovich racconta sempre la stessa storia; il niente come sostituto del sacro, lo spettacolo derisorio del vuoto che ci attende, l’esorcizzare la morte facendone un’icona della vita: oggetto d’arredamento, bijoux, design. In neon e plexiglas, l’installazione luminosa di Jean-Michel Alberola disegna la parola rien, nulla, dandole la forma di un cranio che si accende... L’autoritratto fotografico di Robert Mapplethorpe, malato di Aids, inquadra un volto già segnato e una mano che impugna un bastone da passeggio che ha un teschio come pomo. «Io fui quello che tu sei, tu sarai quel che io sono».
Poche mostre come questa al Musée Maillol dal titolo «Vanités. De Caravaggio à Damien Hirst» (sino al 28 giugno) illustrano meglio l’evoluzione e/o involuzione di quello che si potrebbe definire «il senso della vita»: tema millenario che dall’antichità ricordava agli uomini la fragilità della loro condizione e che è arrivato ai nostri giorni vuotato di senso, ma moltiplicato di segni.
Il memento mori di un mosaico di Pompei allinea un teschio, la ruota della fortuna, le vesti di un potente e di un povero, una squadra, a simboleggiare la giusta misura. Veniva sistemato sopra la tavola dell’ospite, per ispirare sagge riflessioni ai commensali... È un’eccezione, perché il mondo classico incarnava la divinità nella fisicità, un’estetica del sacro in cui il culto della bellezza riscattava il pensiero della morte. È con l’Occidente cristiano che quest’ultima occupa un posto preponderante nell’iconografia. È il passaggio verso la «vera vita» e il teschio è sinonimo di resurrezione, racconta la Caduta e la Redenzione...
L’età d’oro delle Vanità è quella delle Riforma protestante e della Controriforma cattolica: alle «danze macabre» degli ultimi secoli del Medio Evo si sostituisce la meditazione dei grandi santi penitenti: il seicentesco San Francesco inginocchiato del Zurbarán, che si china sul teschio rovesciato che ha fra le mani, quello in preghiera del Caravaggio o in estasi di de La Tour, la Maddalena malinconica di Domenico Fetti. Nella retorica allegorica barocca, anche Cupido è reclutato nell’impresa. Seduto sul libro della saggezza, l’amorino addormentato di Luigi Miradori, detto il Genovesino, ha un teschio per cuscino, narcisi e tulipani come fiori emblematici dello svanire d’ogni cosa. Dorme e sogna la propria morte e la propria resurrezione.
Ciò che nell’Europa mediterranea è un proliferare di figure sacre che si interrogano, nell’Europa del nord cede il passo al simbolismo degli oggetti: il teschio rimane immancabile, ma clessidre, specchi, candele, strumenti musicali e di misurazione, libri e insegne del potere sono chiamati a rappresentare il passare del tempo, la brevità dell’esistere, la vanità dei piaceri e delle ricchezze, nature morte nel vero senso del termine, ma anche la spia di ciò che si prepara, ovvero l’esaltazione di ciò cui si dovrebbe rinunciare, l’illusione come arte. Il secolo dei Lumi e la Rivoluzione dell’89 accelerano la secolarizzazione: tagliano la testa ai re per diritto divino e tolgono la dimensione teologica agli scheletri umani. Il teschio diviene un accessorio negli atelier dei pittori, uno strumento di lavoro sui tavoli anatomici.
Bisognerà aspettare il Novecento delle ecatombi belliche perché la morte ritrovi la sua antica autorità e il teschio riprenda il suo posto d’onore. Ma per dadaisti, surrealisti, espressionisti, è solo l’icona del più indicibile orrore, il simbolo di una violenza che ha devastato, devasta e devasterà un continente, l’emblema con cui ideologie contrapposte si combattono, scaricandosele addosso.
Il resto è storia d’oggi, quella raccontata all’inizio: la fine delle utopie, la crisi delle certezze e dell’idea stessa di progresso, il ritrovarsi con una morte smaterializzata e de-spiritualizzata, semplice spettacolo in una società che muta tutto in spettacolo. Se ancora a fine Ottocento la veneziana Maison Codognato trasformava le «vanità cristiane» presenti nella basilica di San Marco in anelli, collane, orecchini, negli anni Sessanta del Novecento il collezionista parigino Yves Gastou può allestire un’esposizione di «gioielli d’inferno»: gli anelli degli Hells Angels, dei rocker anglosassoni, delle comunità omosessuali di San Francisco e di Amburgo, memento mori contemporanei dove il fenomeno sociale ha preso il sopravvento sul sacro e la trasgressione non fa più rima con meditazione.
«il Giornale» del 17 marzo 2010

Nel dolore è deposto un seme di eternità. di Gianfranco Ravasi

L'11 febbraio di 25 anni fa Giovanni Paolo II pubblicava la lettera apostolica Salvifici doloris, contenente una vasta e appassionata trattazione di uno dei temi più laceranti dell'esperienza umana, quello della sofferenza. I 31 paragrafi di quel documento erano intessuti di rimandi alla Bibbia, "il libro della storia dell'uomo" e quindi "il grande libro sul dolore", delineato in tutte le sue iridescenze oscure ma anche nei suoi squarci di luce e di speranza.
Certo, come affermava Thomas S. Eliot nei suoi Quattro quartetti: "people change, and smile: but the agony abides" ("la gente cambia, riesce a sorridere, ma l'agonia-lotta della sofferenza permane"). Essa è simile a una roccia contro la quale è facile anche sfracellarsi. Georg Büchner, uno dei più intensi scrittori dell'Ottocento tedesco, nel suo dramma La morte di Danton (1835) si chiedeva: "Perché soffro?". E concludeva: "Questa è la roccia dell'ateismo". Uno degli approdi estremi a cui può condurre l'esperienza del dolore, soprattutto del dolore innocente, è appunto quello della ribellione, dell'apostasia, del rifiuto di Dio e dell'uomo. Chi non ricorda quel passo dei Fratelli Karamazov dove Dostoevskij s'interroga: "Se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano i bambini? È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocchi pure a loro comprare l'armonia con la sofferenza".
Per millenni l'umanità ha cercato di scalare o spianare quella roccia. Già l'antica sapienza egizia registra la sconfitta della ragione con le emozionanti righe del "papiro di Berlino 3024" (2200 prima dell'era cristiana), significativamente intitolato dagli studiosi Dialogo di un suicida con la sua anima, dialogo che ha come approdo solo la morte vista come liberazione, guarigione, profumo di mirra, brezza dolce della sera, fior di loto che sboccia. L'accanimento della teodicea, cioè del tentativo di difendere Dio dall'attacco dell'"ateismo" che fa leva proprio sul dolore, ha dovuto sempre confrontarsi con le alternative lapidarie del filosofo greco Epicuro, così come ce le ha trasmesse lo scrittore cristiano Lattanzio nella sua opera De ira Dei (c. 13): "Se Dio vuol togliere il male e non può, allora è impotente. Se può e non vuole, allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può, perché allora esiste il male e non viene eliminato da lui?".
È proprio attorno a questi dilemmi e soprattutto quando si entra nella regione tenebrosa della sofferenza personale che si confrontano le religioni e gli agnosticismi. Emblematica è l'affermazione del pensatore ateo francese Jean Cotureau: "Non credo in Dio. Se Dio esistesse, sarebbe il male in persona. Preferisco negarlo piuttosto che addossargli la responsabilità del male". E proprio per difendere Dio da questa accusa infamante, si è fatto di tutto nella storia dell'umanità, ricorrendo appunto a quella "teodicea" a cui sopra si accennava, percorrendo le strade più disparate, talvolta quasi impraticabili. Si è, così, ricorso al dualismo, introducendo - accanto al Dio buono e giusto - un'altra divinità negativa e ostile, un dio del male. Si è appellato alla cosiddetta "teoria della retribuzione", per altro ben attestata anche nella Bibbia: il binomio delitto-castigo ci invita a scoprire in ogni dolore un'espiazione di colpa, se non personale, almeno altrui (e così si cercherebbe di giustificare anche la sofferenza dell'innocente). Si riconoscerebbe, in tal modo, una sorta di funzione catartica al dolore. Per dirla con lo scrittore americano Saul Bellow, nel suo romanzo Il re della pioggia (1959), "la sofferenza è forse l'unico mezzo per rompere il sonno dello spirito".
Per altri sarebbe, invece, da imboccare la via pessimistica radicale: la realtà è strutturalmente negativa proprio per il suo limite creaturale (da spiegare sarebbe eventualmente la felicità!). Nel Mito di Sisifo (1942) lo scrittore Albert Camus osservava: "C'è un solo problema importante per la filosofia, il suicidio. Decidere, cioè, se metta conto di vivere o no". Per contrasto, non è mancata anche una lettura ottimistica altrettanto radicale della realtà per cui il male è solo un non-essere, un dato concettuale, un'apparenza da superare scoprendo la serenità profonda dell'essere. In questa luce si pongono le visioni panteistiche. In questa linea si collocano anche certe concezioni evoluzionistiche che considerano il dolore come il residuato di un mondo ancora imperfetto e in costruzione.
Anche la Bibbia si trova di fronte a questo mostro proteiforme che in tutte le culture, pur essendo tematizzato in modo astratto, è declinato soprattutto a livello esperienziale, individuale, sociale, cosmico. Sempre in agguato è il rischio della semplificazione teoretica o del dogmatismo ideologico, come è ben attestato dalla polemica di Giobbe nei confronti degli amici "teologi", capaci solo di "raffazzonare menzogne" intonacando i muri delle loro costruzioni ideali (13, 4), pronti a elaborare innocui "decotti di malva" (6, 6) e a rivelarsi come "consolatori fastidiosi" (16, 2). Proprio per questo la Bibbia non offre mai una teoria definitiva, unitaria e sistematica sul tema del male ma cerca di gettare luce su questo groviglio oscuro e soprattutto di individuare qualche itinerario di senso e di redenzione.
Proprio in capite alle Scritture c'è subito una considerazione che ribalta la tradizionale impostazione della teodicea. Prima di interpellare Dio per le sue "responsabilità", i capitoli 2-3 della Genesi ci invitano a interrogare l'uomo, la sua libertà e coscienza perché un'ampia porzione del male disseminato nella storia ha una precisa sorgente umana. In quelle due pagine, costruite a dittico, da un lato si delinea il progetto della creazione e della storia secondo il Creatore: armonia dell'umanità con Dio nel dialogo e nel comune "respiro" interiore (nishmat hajjim di 2, 7 è, di per sé, non tanto l'alito vitale ma la coscienza morale), armonia dell'umanità con le altre creature, simboleggiate negli animali, armonia dell'uomo col suo simile, incarnato nella donna, "carne della mia stessa carne" (2, 23).
D'altro lato, nel capitolo 3, ecco apparire il progetto alternativo ordito dall'uomo che ha deciso di definire in proprio "la conoscenza del bene e del male": Dio diventa un estraneo, relegato nel suo Eden trascendente; la terra è devastata e, ridotta a deserto, produce solo "spine e cardi" (3, 18); la donna, cioè il prossimo, è "dominata" dall'uomo che prevarica su di essa (3, 16). Le scelte libere umane, quando si pongono in contrasto con la morale trascendente, generano sofferenza, morte e male. È per questo che i sapienti di Israele ribadiscono con chiarezza la tesi della responsabilità umana: "Non dire: Mi sono ribellato per colpa del Signore, perché ciò che egli detesta non devi farlo (...) Egli da principio creò l'uomo e lo lasciò in balìa del suo volere (...) Egli ti ha posto davanti il fuoco e l'acqua: là dove vuoi stenderai la mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà" (Siracide, 15, 11-17).
Similmente il libro della Sapienza non esiterà ad affermare che "Dio non ha creato la morte e non gode della rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c'è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra" (1, 13-14).
Delineato questo primo percorso nell'orizzonte del male, non si può, però, ignorare un fatto che il filosofo francese Philippe Nemo ha definito come "l'eccesso del male": c'è, infatti, un male che "eccede" la pura e semplice responsabilità umana individuale e sociale. È significativo che questa locuzione sia stata coniata dal filosofo per un suo libro su Giobbe. Questo celebre personaggio biblico, protagonista di una delle opere più alte della stessa letteratura universale, si scontra appunto con un male assurdo, che non può essere riportato alle deviazioni morali dell'uomo né che può essere annullato nella tesi che gli "amici" - incarnazione della teologia tradizionale - gli oppongono come spiegazione risolutiva. Si tratta di quella "teoria della retribuzione" a cui sopra si è accennato e che altro non è che un ricorso al giudizio divino sulla responsabilità peccaminosa dell'uomo e, quindi, un rientro per altra via nel percorso precedentemente descritto.
Certo, arduo è definire quale sia il tracciato ideale di Giobbe il cui discorso procede in modo ramificato, poetico e simbolico. Ma è indubbio che egli, in pagine grondanti ribellione, protesta e interrogazione, dichiara che non è sufficiente l'uomo a spiegare un certo tipo di male: egli vuole, infatti, coinvolgere Dio in modo diretto nella soluzione del male enigmatico ed eccedente la ragione. E Dio accetta di deporre in questa sorta di processo al quale la vittima del male ha voluto fosse convocato. C'è un aspetto rilevante del male che non può essere "razionalizzato" e quindi Giobbe ha ragione nel protestare (si veda 42, 7): il male urla con tutto il suo scandalo contro la mente dell'uomo, il suo scandalo è accecante. Ma Dio rivela (è, quindi, frutto di una conoscenza che avviene su un altro "canale" di intuizione) all'uomo che esiste una 'esah (38, 2), cioè un "progetto", una razionalità trascendente, da mistero, superiore e totalizzante.
Giobbe, a questo punto, è contemporaneamente teso verso la rivolta e la disperazione a cui lo conduce "logicamente" la sua intelligenza di fronte all'"eccesso del male", ma è spinto anche verso la speranza e l'inno di lode a cui lo conduce "misticamente" la rivelazione divina, cioè la conoscenza di fede. È in questo territorio nuovo che può essere introdotto un altro percorso, quello che è aperto da una figura emblematica, il "Servo del Signore", presente nel libro di Isaia, in particolare nel capitolo 53, e ripreso dal Nuovo Testamento in chiave cristologica. C'è un male-dolore che piomba sul giusto - e qui siamo nell'ambito stesso di Giobbe - ma questa irruzione diventa sorgente di liberazione, vita e salvezza per gli altri: "Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti" (53, 5).
È interessante citare al riguardo un passo delle Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via di Franz Kafka perché illustra in modo "laico" questa comunione nel dolore come via per la crescita comune e la trasformazione solidale dell'umanità. "Tutte le sofferenze che sono attorno a noi dobbiamo patirle anche noi. Noi non abbiamo un solo corpo, ma abbiamo una crescita, e questo ci conduce attraverso tutti i dolori, in questa o quella forma. Come il bambino si evolve, attraverso tutte le età della vita, fino alla vecchiaia e alla morte (e ogni singolo stadio appare fondamentalmente irraggiungibile al precedente, sia nel desiderio che nella paura), così ci evolviamo anche noi (legati all'umanità non meno profondamente che a noi stessi) attraverso tutte le pene di questo mondo".
La strada di solidarietà delineata dal Servo del Signore ci prepara ad accostarci al Nuovo Testamento, in particolare ai Vangeli, ove il male sembra incombere come una presenza drammatica ma non tragica. Mai come in questo caso dobbiamo segnalare i limiti di questa nostra analisi che vuole solo indicare un tracciato da seguire poi all'interno dei testi e attraverso una ricerca ben più ampia e sistematica. È significativo un fatto: gli esegeti sono convinti che uno dei "protovangeli", cioè dei primi testi codificati - a noi non pervenuti ma ai quali attinsero gli evangelisti al punto tale da intravederne una presenza in filigrana ai loro racconti - dalla tradizione cristiana delle origini fu proprio una narrazione della passione e morte di Cristo. Il male fisico e morale, la morte e lo scandalo della sofferenza furono subito considerati centrali nell'annunzio cristiano, anche se illuminati dal fulgore della Pasqua. Diversamente dalle cosiddette "Vite degli eroi", molto popolari nel mondo greco-romano, il cristianesimo ha dato una prevalenza sorprendente proprio alla sconfitta del suo fondatore sotto l'impeto del male prima ancora di celebrarne i successi.
Questo aspetto è capitale all'interno della teologia dell'Incarnazione. L'Incarnazione è, infatti, la scelta di Dio - che per sua natura è oltre la morte, il dolore, il male - di penetrare e assumere in sé la sarx, cioè la "carne", il limite creaturale, così da condividerla e redimerla dall'interno. In Cristo, Dio e uomo, non si ha tanto la giustificazione o la decifrazione dello scandalo del male in un sistema ideologico o etico coerente. Si ha, invece, la condivisione per amore, che non è però una mera adesione eroica che ha come sbocco l'immolazione della croce, ultimo e conclusivo approdo. Proprio perché Cristo non cessa di essere Figlio di Dio, egli assumendo il male, il dolore e la morte lascia in essi un seme di divinità, di eternità, di luce, di salvezza. L'amore divino non ci protegge "da" ogni male ma ci sostiene "in" ogni male facendocelo superare.
L'esperienza del male rimane angosciante come un carcere. L'ingresso del Figlio di Dio in quel carcere segna una svolta: esso non è sbarrato per sempre, in un'immanenza che si consuma in se stessa, ma viene aperto per un "oltre". Questo "oltre" è illustrato in modo nitido sia attraverso i miracoli compiuti da Cristo sia attraverso la sua Pasqua. La Pasqua è l'inaugurazione di questo riscatto che dovrà distendersi passo per passo durante tutto l'itinerario della storia così da redimerla e far sì che il duello col male e la morte sia condotto a termine (1 Corinzi, 15, 54-57) e "Dio sia tutto in tutti" (15, 28). Alla meta della storia il cristianesimo pone la Pasqua universale umana e cosmica. Essa è stata inaugurata da Cristo con la sua sofferenza, morte e Pasqua. Allora si compirà quello che l'Apocalisse delinea nel suo affresco della Gerusalemme nuova e perfetta: "Non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate" (21, 4). Mentre cammina nella storia, il cristiano non ignora il male e il dolore ma sa che in esso Dio - attraverso l'incarnazione del Figlio suo - ha deposto un seme di eternità e di salvezza che cresce silenzioso, per diventare "stelo, spiga e chicco pieno di spiga" (Marco, 4, 28).
Noi, però, vorremmo ora - molto più modestamente - indicare due conclusioni sulla base delle considerazioni finora sviluppate, pur consapevoli comunque del mistero che la sofferenza coinvolge. Eschilo nei Persiani pone l'eterna domanda che sale dal respiro di dolore dell'umanità: "Io grido in alto le mie infinite sofferenze, dal profondo dell'ombra chi mi ascolterà?" (v. 635). La prima considerazione vuole porre l'accento sulla simbolicità del dolore. Come è noto, il termine "simbolo" deriva dal greco syn-ballein, cioè "mettere insieme": è il tentativo di unire in sé più significati nella stessa realtà. Ebbene, la sofferenza è di sua natura simbolica; è, come dice il titolo di una suggestiva opera autobiografica della scrittrice americana Susan Sonntag, la metafora di un'esperienza più alta (Illness as metaphor, 1978). È indice di un "male oscuro" e radicale, per usare il titolo di un romanzo del nostro Giuseppe Berto (1964).
Kafka nei suoi Diari annotava: "Sono arrivato alla convinzione che la tubercolosi non sia una malattia particolare, un male degno di questo nome, ma soltanto una maggiore intensità del germe generale della morte, la mia ferita, della quale la lesione ai polmoni è solo un simbolo". Similmente, anche se con maggior enfasi, Gabriele D'Annunzio nel suo Libro segreto (1935) dichiarava: "So che le cause del mio male sono nell'oscurità del mio spirito che a poco a poco io rischiaro guarendomi. V'è, se io sono infermo, un fallo di armonia non solo nella mia carcassa ma nella mia anima. Ho in mente che qualcuno abbia considerato la malattia come un problema musicale. Ma forse son io quegli". La sofferenza non è mai solo fisica, ma coinvolge "simbolicamente" corporeità e spiritualità, la "carcassa" e l'"anima".
Essa può contemporaneamente generare disperazione e speranza, tenebra e luce; può essere distruzione e purificazione; riduce alla bestialità ma può anche trasfigurare, "distillando" come in un crogiuolo le capacità più alte, divenendo luminosità interiore e catarsi. Il grande mistico medievale Meister Eckhart (1260 ca.-1327) affermava che "nulla sa più di fiele del soffrire, nulla sa più di miele dell'aver sofferto; nulla di fronte agli uomini sfigura il corpo più della sofferenza, ma nulla di fronte a Dio abbellisce l'anima più dell'aver sofferto".
Proprio per questa dimensione simbolica del soffrire umano, l'approccio nei confronti del malato e del sofferente in genere non può essere parziale. Da un lato, è indubbia la necessità della terapia medica: dopo tutto, quasi metà del Vangelo di Marco è un racconto di guarigioni operate da Cristo al punto tale che un teologo, René Latourelle, ha scritto che "i Vangeli senza miracoli di guarigione sono come l'Amleto di Shakespeare senza il principe". D'altro lato, la pura biologicità e la tecnica asettica sono insufficienti ed esigono un incontro, un dialogo, un supplemento di umanità. Mai come nel dolore ci si accorge di non "avere" un corpo ma di "essere" un corpo che è segno di una realtà interiore più profonda. Sono suggestive dal punto di vista simbolico le citate narrazioni evangeliche delle guarigioni dei lebbrosi: come si diceva, contravvenendo tutti i divieti rituali e sanitari del tempo, Gesù "li tocca" e con questo gesto vuole quasi assumere su di sé il male, condividendone il peso e l'amarezza.
Mai come nel dolore l'uomo s'accorge della falsità delle parole di conforto dette in modo estrinseco e senza autentica partecipazione. Anzi, il malato scopre che, alla fine, egli rimane solo col suo male. È lo stesso Giobbe a descrivere in modo pittoresco e persino barocco questo isolamento quando scopre che "a mia moglie ripugna il mio alito, faccio schifo ai figli del mio ventre" (19, 17). Nel tempo del dolore la verità non riesce a patire contraffazioni.
È, allora, in questo momento che deve scattare una specie di alleanza tra paziente e medico - infermiere, parente, assistente, cappellano e così via - tra chi soffre e chi lo vuole sostenere. È questa la seconda considerazione che vogliamo proporre. Nel racconto biblico della creazione della donna si dichiara che l'uomo supera la sua solitudine solo quando trova "un aiuto che stia di fronte" (ke-negdô), che sappia quindi avere gli occhi negli occhi dell'altro, che non troneggi sopra la creatura come una divinità ma che non sia neppure inferiore e inetto come un animale.
Questa solidarietà è difficile da creare ma è indispensabile. La conoscenza tra chi cura e chi è curato dev'essere meno fredda e distaccata di quanto spesso accade: dev'essere fatta di comunicazione genuina, di dialogo, di ascolto, di verità detta con partecipazione. Il sofferente deve sentirsi rispettato anche nel momento della debolezza, quando il pianto inonda le sue guance ed è noto che esiste sempre un pudore nel mostrare le lacrime. Dev'essere aiutato a liberarsi dei condizionamenti di una cultura della "forza", di un "maschilismo" vanamente eroico e ad accettarsi anche nel tempo della prova, come affermava Baudelaire: "Signore, la migliore testimonianza che noi possiamo dare della nostra dignità è questo ardente singhiozzo che rotola di età in età e viene a morire ai bordi della tua eternità".
Anche Cristo di fronte alla notte della passione implora di essere liberato dal calice della sofferenza (Marco, 14, 36) e confessa di avere "l'anima triste fino alla morte" (Marco, 14, 34), scoprendo però con amarezza di non avere accanto la solidarietà affettuosa dei suoi discepoli: "Così non siete stati capaci di vegliare una sola ora con me?" (Matteo, 26, 40). Bisogna, allora, ribadire una parola tanto abusata ed equivocata, la cui vera declinazione nell'esistenza è sempre ardua, cioè l'amore. Solo se circondato d'amore, il malato riesce ad accettarsi e a superare anche il pudore che è la consapevolezza - come affermava il filosofo Max Scheler - di "un certo squilibrio, di una certa disarmonia tra il significato e le esigenze della sua persona spirituale, da una parte, e i suoi bisogni corporei, dall'altra".
In questa luce ci sembra suggestiva una parabola che vorremmo porre a suggello di queste riflessioni molto limitate su un orizzonte immenso e incandescente, incapaci di fissare in un profilo sintetico il volto proteiforme del male. Anche per il credente, il dolore rimane una cittadella il cui centro non può essere completamente espugnato. Come diceva il poeta cattolico francese Paul Claudel, "Dio non è venuto a spiegare la sofferenza, è venuto a riempirla della sua presenza". A questo proposito ci affidiamo a una figura "laica" come lo scrittore Ennio Flaiano (1910-1972).
A lui era nata nel 1942 una figlia, Luisa, che già a otto anni aveva iniziato a rivelare un'encefalopatia epilettoide e che è vissuta fino al 1992, curata amorosamente dalla madre, Rosetta Flaiano. Ebbene, lo scrittore abruzzese nel 1960 aveva pensato a un romanzo-film di cui è rimasto solo l'abbozzo. In esso si immaginava il ritorno di Gesù sulla terra, infastidito da giornalisti e fotoreporter ma, come un tempo, attento solo agli ultimi e ai malati. Ed ecco, "un uomo condusse a Gesù la figlia malata e gli disse: io non voglio che tu la guarisca ma che tu la ami. Gesù baciò quella ragazza e disse: "In verità, quest'uomo ha chiesto ciò che io posso dare". Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando la folla a commentare i suoi miracoli e i giornalisti a descriverli".
La scena, come è evidente, si carica di tutta la tenerezza che, con pudore e amore, lo scrittore aveva riversato sulla sua creatura sofferente. In quell'uomo Flaiano vedeva se stesso che s'accostava a Gesù per chiedere non il prodigio ma il dono altissimo della condivisione e della comunione nella sofferenza. E forse, quando in una notte terribile dovette ricoverare la figlia tormentata dagli "orribili assalti del male che la torcevano e la irrigidivano, con una mano tesa verso l'alto", Flaiano padre implorò quel bacio sulla sua figlia, un bacio che certamente non fu negato.

LA COGNIZIONE DEL DOLORE Un mistero che tormenta da sempre filosofi e teologi. Ma solo il poeta che parla con una capra lo può avvicinare

di Maurizio Schoepflin
Per comprendere – oddio, comprendere
forse è troppo! meglio: per
avvicinare – la questione del dolore è
utile e opportuno dialogare con le capre.
Se ne accorse il grande poeta
Umberto Saba, che in una celebre lirica
dedicata a uno di quei miti animali
così verseggiava: “Ho parlato a
una capra./ Era sola sul prato, era legata./
Sazia d’erba, bagnata/ dalla
pioggia, belava./ Quell’uguale belato
era fraterno/ al mio dolore. Ed io risposi,
prima/ per celia, poi perché il
dolore è eterno,/ ha una voce e non varia./
Questa voce sentiva/ gemere in
una capra solitaria./ In una capra dal
viso semita/ sentiva querelarsi ogni altro
male,/ ogni altra vita”.
In effetti, la capra cantata da Saba
ci offre tre preziose informazioni sul
dolore: esso riguarda tutto e tutti, ovvero,
come direbbero i filosofi, è cosmico;
è sempre esistito e sempre esisterà:
il belato caprino ne attesta infatti
l’eternità; infine, esso sembra
possedere una sorta di capacità di affratellamento,
caratteristica che la
saggezza popolare ha intuito nel momento
in cui ha scoperto che una sofferenza
condivisa si trasforma quasi
in una gioia, il mal comune diventa un
mezzo gaudio.
L’universalità del dolore fu chiara
sin dalle origini della civiltà occidentale.
A questo proposito, risulta assai
esplicativo un aneddoto riguardante il
celebre pensatore greco Democrito,
padre del materialismo, vissuto tra il
V e il IV secolo avanti Cristo. All’indomani
della morte della moglie, il potentissimo
re persiano Dario era terribilmente
affranto e si rivolse al filosofo,
il quale gli assicurò che avrebbe
riportato in vita la sua amata consorte
a condizione che il sovrano avesse
soddisfatto tutte le sue richieste. Dario,
che deteneva un immenso potere,
si sentiva sicuro di riuscire a fare ciò
che Democrito gli avrebbe chiesto; ma
non appena il filosofo lo invitò a “scrivere
sulla tomba della morta il nome
di tre i quali fossero vissuti senza aver
mai provato dolore”, si accorse che
non sarebbe assolutamente stato in
grado di soddisfare quel desiderio; al
che, “Democrito, ridendo secondo il
suo costume, gli disse: ‘Perché, o irragionevolissimo
uomo, piangi senza ritegno
come se tu fossi il solo a cui è
toccata una tale sventura, tu che non
potresti trovare tra tutte le passate generazioni
neppure un uomo solo che
sia vissuto senza provare la sua parte
di dolore?’”. Da oltre venticinque secoli,
dunque, l’uomo sa che nessuno
può sfuggire al dolore, e non v’è stato
filosofo che abbia contraddetto questa
certezza: diversi, spesso diversissimi,
sono stati i tentativi di soluzione del
terribile enigma della sofferenza
avanzati dai vari pensatori, ma non
troviamo nella storia del pensiero chi
abbia negato la presenza devastante
del dolore, di un dolore che non risparmia
niente e nessuno.
A mettere particolarmente in luce
tale cosmicità è stato Arthur Schopenhauer,
che nel suo capolavoro “Il
mondo come volontà e rappresentazione”,
pubblicato nel 1818 (con la data
del 1819), scrive tra l’altro: “Già vedemmo
la natura priva di conoscenza
avere per suo intimo essere un continuo
aspirare, senza meta e senza posa;
ben più evidente ci apparisce questa
aspirazione considerando l’animale
e l’uomo. Volere e aspirare è tutta
l’essenza loro, affatto simile a inestinguibile
sete. Ma la base d’ogni volere
è bisogno, mancanza, ossia dolore, a
cui l’uomo è vincolato dall’origine,
per natura”. Secondo il filosofo di
Danzica, il filo d’erba che a fatica buca
la terra, l’albero che cerca la luce
del sole laddove il bosco è più fitto,
sono spinti dal bisogno e a muoverli è
una volontà universale che è causa di
un dolore infinito; ciò si rende ancora
più tragicamente evidente nel caso
degli animali e degli uomini, tutti
schiavi del medesimo volere che produce
incessante sofferenza: ecco perché
il poeta e la capra si intendono alla
perfezione. Interpretato secondo
prospettive differenti, a volte persino
assorbito e, per così dire, diluito in
una visione complessivamente positiva
della realtà, come, seppur per motivi
assai diversi, accade nella speculazione
di Leibniz e in quella di Hegel,
il dolore l’ha fatta da padrone sulla
scena della filosofia occidentale,
ma – si potrebbe aggiungere – anche
della letteratura e dell’arte in genere.
Schopenhauer lo considerò la realtà
centrale del mondo e dell’uomo, radicalizzando,
ma non smentendo, quella
convinzione che abbiamo visto già
chiaramente delineata in Democrito.
Si potrebbe forse affermare che Friedrich
Nietzsche abbia deragliato rispetto
a questa concezione che riconosce
nel dolore la cifra caratteristica
della vita umana? No di certo. Egli ha
sì messo in atto uno dei tentativi più
drammatici e sconvolgenti di superare
la terribile soglia della sofferenza,
ma certamente non ha negato che essa
esista e sia orribilmente pervasiva:
a questo riguardo, sicuramente non è
casuale che egli stesso, ricordando
più volte l’inizio del suo filosofare risalente
all’età di dodici-tredici anni,
ci informi che il primo problema che
suscitò l’interesse di lui poco più che
bambino sia stato proprio quello dell’origine
del male.
Anche le grandi filosofie della necessità
– si pensi, per esempio, allo
stoicismo e allo spinozismo –, quelle
che hanno affermato che tutto è come
deve essere e tutto deve essere come
è, non hanno negato la presenza e lo
spessore del dolore; esse, piuttosto,
alla luce del presupposto metafisico
secondo il quale niente può essere
cambiato nell’ordine necessario del
mondo, hanno elaborato alcune interessanti
indicazioni etiche finalizzate
ad aiutare l’uomo ad affrontare meglio
l’incontro con la sofferenza e a
non soccombere di fronte a essa. Scrive
nel “De providentia” Lucio Anneo
Seneca, il massimo esponente della
filosofia stoica dell’antica Roma: “Ad
un uomo buono non può accadere
nulla di male: i contrari non si mescolano
mai. Come tutti i fiumi, tutte le
piogge che cadono dal cielo, tutto il
fluire delle sorgenti curative non muta
la salsedine del mare e nemmeno
l’attenua, così l’assalto delle avversità
non piega la costanza dell’uomo forte:
egli mantiene la sua coerenza e valuta
tutto l’accaduto secondo le sue prospettive,
perché è realmente più forte
di ogni evento esterno. Con ciò non
dico che sia insensibile, ma che è superiore
e, abitualmente sereno e tranquillo,
sa ergersi contro quanto lo assale.
Vede in ogni avversità un allenamento”.
Ecco, dunque, che il problema
del dolore diventa il problema
della resistenza a esso e della sua
sopportabilità.
E’ noto che la filosofia ha, in un certo
senso, privilegiato la questione del
male rispetto a quella del dolore, considerando
quest’ultimo una componente
del più vasto e impenetrabile
mysterium iniquitatis. Tuttavia, quando
si sono posti direttamente dinanzi alla
presenza del dolore, lasciando da
parte la dimensione più squisitamente
metafisica del problema per affrontarne
il risvolto etico, ovvero quello
concernente l’atteggiamento che l’uomo
è chiamato ad assumere di fronte
al dispiegarsi della sofferenza, i filosofi
hanno in genere preferito sforzarsi
di intravedere e di proporre vie di liberazione,
antidoti capaci di neutralizzare
la velenosità del dolore, veri e
propri medicamenti che curassero i
mali dell’anima e del corpo (celebre,
a questo riguardo, è rimasta la lezione
di Epicuro che, da buon terapeuta
dello spirito, prescrisse un quadrifarmaco
a suo giudizio capace di scacciare
dolori e paure dal cuore dell’uomo).
Molto acuta appare a tale proposito
la pagina del “Gattopardo” in cui
Tomasi di Lampedusa narra che il
protagonista “Don Fabrizio pensò a
una medicina scoperta da poco negli
Stati Uniti d’America che permetteva
di non soffrire durante le operazioni
più crudeli, di rimanere sereni fra le
sventure. Morfina lo avevano chiamato
questo rozzo surrogato chimico dello
stoicismo pagano, della rassegnazione
cristiana”. Come si è già accennato
e come la capra di Umberto Saba
ci ricorda, la solidarietà e la condivisione
sono sempre state considerate
validi rimedi contro il dolore. Appoggiandosi
all’autorità del filosofo per
eccellenza, Aristotele, lo afferma anche
san Tommaso nella “Somma Teologica”,
ove, rispondendo alla domanda
“se il dolore e la tristezza siano alleviati
dalla compassione degli amici”,
sostiene: “L’amico che compiange
nella tristezza, di suo consola. Il Filosofo
lo prova con due ragioni. La prima
accenna al fatto che la tristezza si
presenta come un peso, dal quale uno
cerca di essere alleggerito, essendo effetto
proprio della tristezza deprimere.
Perciò quando uno vede altri rattristati
dal proprio dolore, ha l’idea
che gli altri portino il suo peso con lui,
nel tentativo di alleggerirlo; e quindi
sente più leggero il peso della tristezza.
La seconda ragione, che è anche la
migliore, accenna al fatto che dalle
condoglianze dell’amico uno si accorge
di essere amato; e questo è piacevole,
come sopra abbiamo detto. Perciò,
siccome ogni piacere allevia il dolore,
secondo le considerazioni precedenti,
ne segue che il compianto degli amici
viene a mitigare la tristezza”.
Per quanto lontanissimo, sia cronologicamente
che idealmente, da san
Tommaso, anche Schopenhauer ravvisa
nella compassione una delle poche
armi in mano all’uomo per non soccombere
sotto l’immane peso del dolore:
“Quel che adunque bontà – si legge
nel ‘Mondo come volontà e rappresentazione’
–, amore e nobiltà posson
fare per altri, è sempre nient’altro che
lenimento dei loro mali; e quel che
per conseguenza può muoverle alle
buone azioni e opere dell’amore, è
sempre soltanto la conoscenza dell’altrui
dolore, fatto comprensibile attraverso
il dolore proprio, e messo al pari
di questo. Ma da ciò risulta che il
puro amore (agape, caritas) è, per sua
natura compassione, sia pur grande o
piccolo (è tra questi ogni desiderio
inappagato) il dolore ch’esso lenisce”.
Questo stretto legame che il non cristiano
Schopenhauer stabilisce tra dolore
e amore trova da sempre nella rivelazione
cristiana la più completa
esplicazione e realizzazione. In essa il
mistero della sofferenza è posto decisamente
al centro dell’intervento stesso
di Dio nella storia, intervento che
culmina con il sacrificio di Cristo sulla
croce, vertice della sua passione e
del suo amore, strumento di tortura e
di salvezza, attraverso cui il dolore
viene definitivamente sconfitto. Nel
1984, il Santo Padre Giovanni Paolo II
pubblicò una lettera apostolica nel
cui titolo “Salvifici doloris” vengono
saldati due termini apparentemente
inconciliabili: dolore e salvezza, lungi
dall’escludersi, si implicano a vicenda
e la fede cristiana rende certi sia che
la sofferenza ha un immenso potere
salvifico, sia che non v’è possibilità di
conquistare il Paradiso senza passare
attraverso la porta stretta del dolore.
Il grande filosofo danese dell’Ottocento
Søren Kierkegaard fu tanto convinto
di ciò che in una delle sue opere
maggiori, “Esercizio del cristianesimo”,
parlando dell’uomo credente,
scrisse a un certo punto: “Se questo
cristiano – devo dire il cristiano sofferente?
No, non c’è bisogno perché
ogni vero cristiano è sofferente…”. Tale
intima unione tra la dimensione
della sofferenza e quella della fede
cristiana ha spesso urtato la sensibilità
dei filosofi, tra i quali spicca
Nietzsche che, come è noto, criticò
aspramente questa specie di amore
cristiano per il dolore, considerandolo
una delle caratteristiche salienti
della morale degli schiavi, tipica proprio
dei seguaci del Vangelo.
A proposito della scarso appeal filosofico
– mi si passi l’espressione –
del tema del dolore, afferma il pensatore
cattolico francese Gabriel Marcel,
vissuto tra il 1889 e il 1973: “Benché
la sofferenza sia anche una grazia,
anche se nel più alto della nostra
ascensione terrestre possiamo afferrarla
ed amarla come tale, essa è anzitutto
uno scandalo, e per lo più i filosofi
detestano lo scandalo. Essi si
tapperanno occhi e orecchi affinché
essa non giunga fino a loro, e daranno
a questa sordità e cecità volontarie i
nomi più lusinghieri”. Non è difficile
cogliere in queste considerazioni echi
paolini: ripetutamente, infatti, san
Paolo nelle sue lettere definisce la
croce di Cristo un vero e proprio
scandalo, difficilmente accettabile e
comprensibile dalla ragione umana.
E’ il dolore stesso a sfuggire a facili
spiegazioni. Scrive ancora Marcel, rispondendo
a una sua interlocutrice:
“Poco fa, me ne accorgo rileggendo, io
sono caduto nella tentazione comune
a tutti i filosofi. Ho parlato della sofferenza,
ho detto: la sofferenza è. Ma
no, niente affatto: la sofferenza non
esiste; ciò che esiste è la sua sofferenza
e la mia, e quest’altra e poi quell’altra
ancora. Quando noi tentiamo di
abbracciarle insieme in un’entità unica,
noi cessiamo di pensare a qualcosa;
ed è fin troppo chiaro che di questa
sofferenza-entità – che non essendo
la sofferenza di nessuno, non è più
se non un’immagine astratta e menzognera
– noi possiamo dire qualunque
cosa, come i filosofi non si sono privati
di fare”.
Il belato della pecora di Saba non
assomiglia alla voce di un’astratta razionalità
filosofica, ma suona familiare
alle orecchie del poeta perché egli
lo sente simile al suo stesso grido di
dolore. E forse potremmo dire che assomiglia
a un’invocazione d’aiuto, a
una preghiera. Già, la preghiera: anch’essa
la troviamo spesso unita al
dolore. Intorno al 1659, negli ultimi
anni di vita, Blaise Pascal, scienziato
e filosofo tra i maggiori di tutti i tempi,
compose una preghiera per chiedere
a Dio il buon uso delle malattie,
nella quale, tra l’altro, si legge: “Fate
dunque, o Signore, che quale che io
mi trovi, io mi conformi alla vostra
volontà; e che essendo malato come
sono, vi glorifichi nelle mie sofferenze.
Senza di esse non posso arrivare
alla gloria; e Voi pure, o mio Salvatore,
non vi avete voluto pervenire se
non per mezzo di esse. E’ per i segni
delle vostre sofferenze che siete stato
riconosciuto dai vostri discepoli; è
con le sofferenze che riconoscete anche
quelli che sono vostri discepoli.
Riconoscetemi dunque per vostro discepolo
nei mali che sopporto e nel
mio corpo e nel mio spirito per le offese
che ho commesso”. Gilberte, la
sorella maggiore di Pascal, ci informa
che suo fratello, ormai prossimo
alla morte, espresse il desiderio che
una persona indigente e ammalata
fosse ricoverata accanto a lui e avesse
le medesime cure: l’idea che molti
poveri venissero trascurati mentre
lui riceveva l’assistenza necessaria lo
turbava e lo faceva soffrire. La lezione
del dolore, accolta alla luce della
fede cristiana, fu da lui compresa appieno:
anch’egli avrebbe perfettamente
capito il belato di una capra
solitaria dal viso semita.

Il Foglio 16 gennaio 2010

I giovani nell'era di Nietzche

di Matteo Lusso

"Ahimè! Sta per giungere il tempo in cui l'uomo non scoccherà più la freccia del suo desiderio oltre l'essere umano e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare" (Nietzche, Così parlò Zarathustra, 1885).

"Nei prossimi anni il mondo sarà sottosopra: dopo che il vecchio Dio è stato congedato, sarò io a reggere il mondo "(Nietzche, lettera a Carl Fuchs, 18 dicembre 1888).

Verrebbe innanzitutto da dire che quel tempo è giunto, che la profezia di Nietzche/Zarathustra si è perfettamente avverata. Il mondo di oggi - anche quello dei giovani - è così: l'uomo ha disimparato a tendere l'arco del proprio desiderio, l'obiettivo della freccia è sempre a corto raggio e come il bambino si esalta quando riesce a superare una prova che gli viene facilitata, così l'uomo di oggi si accontenta ed è appagato di ciò che riempie facilmente la sua vita, dentro il perimetro ristretto del proprio desiderio. Siamo in fondo contenti così, va bene così, proprio perché non sappiamo reagire, non sapremmo far vibrare l'arco e scoccare la freccia verso orizzonti più lontani, perché abbiamo disimparato a desiderare. Avere il vestito firmato, trascorrere una settimana al mare con il proprio "tipo/a", un bel cellulare, andare bene a scuola e poter tornare all'ora in cui si vuole la notte: ecco la portata - ben identificabile - degli obiettivi della propria freccia. D'altra parte è così che ci vuole il mondo: rassegnati, impegnati, indaffarati, distratti: così siamo fedeli consumatori e perfetti cittadini. L'importante è non disturbare, non lasciarsi prendere dall'irrequietudine, non creare problemi, tanto non serve.... il mondo è un meccanismo troppo perfetto per essere inceppato. Un gioco, in cui i giocatori sanno già chi vince: ribellarsi un po' va bene, fa parte del gioco, è concesso all'adolescente questo margine di creatività ma anche lui stesso sa che presto o tardi il gioco finirà e per questo non si prenderà sul serio più di tanto. Chi non sa accettare il limite rischia grosso, chi non rientra in tempo, chi va oltre il prevedibile o il concesso.... Succede, soprattutto ai più sensibili o vivaci! Allora saranno guai davvero ed arriveranno schiere di esperti del disagio giovanile, della devianza, del recupero. Sono rischi previsti dalla società per chi non ha capito che si trattava di un gioco e che il ritorno alla realtà era inevitabile.

Forse per Nietzche più che una profezia si trattava di un auspicio: che l'uomo impari a non desiderare altro che l'essere umano, che l'arco del desiderio disimpari a vibrare significa accettare finalmente e sino in fondo la propria mortalità, imparare a cercare il senso della terra nel vivere stesso, scoprire il senso del proprio cammino umano giorno dopo giorno mentre si compie il cammino stesso. Non più ipotesi di senso assolute ed universali ma unicamente costruite, cercate, verificate nella propria ed irripetibile biografia. Ma il grande pensatore tedesco, se fosse presente oggi, credo dovrebbe lealmente constatare che, in luogo del superuomo, l'io nato dalla morte di Dio è un bambino smarrito in una foresta di giocattoli.

Ai giovani che incontro amo dire: dovete imparare a difendervi, dovete imparare a difendervi dai vostri padri (in senso generazionale), malgrado nessuno abbia intenzioni cattive, dovete difendervi dalla nostra confusione e dal nostro smarrimento. Dovete farlo perché la vita è vostra ed è terribilmente bella e voi avete diritto a goderne pienamente.

La cultura nichilista di oggi, che esalta la libertà individuale e rifiuta la sacralità della vita, è stata paragonata dal Papa alla follia hitleriana. «I lager nazisti, come ogni campo di sterminio, possono essere considerati simboli estremi del male, dell'inferno che si apre sulla terra quando l'uomo dimentica Dio e a Lui si sostituisce, usurpandogli il diritto di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di dare la vita e la morte», ha detto infatti Benedetto XVI all'Angelus, denunciando che «purtroppo questo triste fenomeno non è circoscritto ai lager. Essi sono piuttosto la punta culminante di una realtà ampia e diffusa, spesso dai confini sfuggenti».

«Bisogna riflettere sulle profonde divergenze che esistono tra l'umanesimo ateo e l'umanesimo cristiano; un'antitesi che attraversa tutta quanta la storia, ma che alla fine del secondo millennio, con il nichilismo contemporaneo, è giunta a un punto cruciale, come grandi letterati e pensatori hanno percepito, e come gli avvenimenti hanno ampiamente dimostrato». «Da una parte - ha rilevato il Pontefice - ci sono filosofie e ideologie, ma sempre più anche modi di pensare e di agire, che esaltano la libertà quale unico principio dell'uomo, in alternativa a Dio, e in tal modo trasformano l'uomo in un dio, che fa dell'arbitrarietà il proprio sistema di comportamento. Dall'altra - ha continuato - abbiamo i santi, che, praticando il Vangelo della carità, rendono ragione della loro speranza; essi mostrano il vero volto di Dio, che è Amore, e, al tempo stesso, il volto autentico dell'uomo, creato a immagine e somiglianza divina». (Angelus, 9 agosto 2009)

C'è qualcuno che sappia parlarvi delle stelle? Che sappia farvi sognare le stelle?



Sul dolore: desiderio o nulla?

di Matteo Lusso
Tratto dal sito Cultura Cattolica.it il 22 ottobre 2009

Ci sono ferite che non guariscono e che nessun uomo può curare, perché il dolore appartiene a Dio, è una cosa tra noi e Lui.

Chi non conosce il film “Marcellino pane e vino”? La ferita di Marcellino è la nostalgia della mamma. Quando il Signore gli chiederà che cosa desiderà di più, lui risponderà che vuole vedere sua mamma. E Gesù lo accontenta: la morte è così solo un’apparente ingiustizia, perché in realtà è la condizione normale perché si realizzi il suo desiderio.

Questo film va alla radice di tutto, alla radice della tenerezza del vivere, là dove è la sorgente di ogni forma di pietà e di amore che possiamo avere verso gli altri e noi stessi: che me ne faccio di un mondo migliore se esso si realizza in un futuro indeterminato? Chi salva i bambini che oggi sono morti di fame in varie parti del mondo? Chi dà oggi un senso alla loro vita? Chi fa giustizia oggi delle loro pene? Le statistiche demografiche dicono che nel nostro tempo, per la prima volta nella storia, il numero delle persone che soffre la fame ha superato il miliardo. Vivere per cambiare il mondo non basta: l’uomo che soffre è quello di adesso, quello che ho davanti e non posso aspettare che il mondo sia diverso per dirgli che la sua esistenza ha una dignità… Anche se bisogna cercare di cambiarlo questo mondo!!

La mia ferita, il mio dolore è che alla vostra età mi sentivo disperato, perché a queste domande non c’era risposta: non ci dormivo la notte. Per rispondere a queste domande c’è bisogno di Dio. Lui ha costruito la strada verso di noi, rivelandosi come amore: anche il dolore e la morte sono vinti dalla Sua passione per noi.

Marcellino ci fa vedere la vita e la morte in una prospettiva completamente nuova: vivere è essere Suoi amici, accettare la Sua amicizia, addormentarsi nelle Sue braccia, dove si compiono tutti i nostri desideri. Questa è la pace.

Il senso del dolore: questo manca nel giudizio di tanti ragazzi con cui parlo. A loro dico, citando M. C. Bateson: “Siamo tutti impegnati in un atto creativo che è la composizione delle nostre vite. Essa avviene usando materiali a volte conosciuti a volte sconosciuti o inattesi”. Chi vive con la curiosità di osservare in sé la costruzione di questa composizione? Chi vive attento a se stesso, impegnato con sé, amando sé? La perdita del desiderio fa scivolare il giovane nell’affermazione del nulla e nell’impoverimento dell’esperienza che ne consegue. Non il dolore, che rende più veri, meno aridi.

“Chiunque abbia una qualche esperienza del peccato, non ignora che la lussuria minaccia incessantemente di soffocare… tanto la virilità che l’intelligenza... La purezza non ci è prescritta come un castigo, è invece una delle condizioni misteriose ma evidenti - l’esperienza lo attesta - di quella conoscenza soprannaturale di se stessi, di se stessi in Dio, che si chiama la fede. L’impurità non distrugge questa conoscenza ma ne annulla il bisogno. Non si crede più perché non si desidera più credere. Non desiderate più conoscervi. Questa verità profonda, la vostra, non vi interessa più… Non si possiede veramente che ciò che si desidera; giacché per l’uomo non c’è possesso reale, assoluto. Non vi desiderate più. Non desiderate più la vostra gioia. Non potevate amarvi che in Dio, non vi amerete più... Non ero mai stato giovane, perché non avevo osato… Non sono mai stato giovane perché nessuno ha voluto esserlo con me… Ho compreso che la giovinezza è benedetta - che è un rischio da correre - ma che quel rischio è benedetto anch’esso.”
(G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna).

Il dolore, anche quello lancinante, tocca presto o tardi ogni uomo. Voi mi chiedete: perché? Cosa vuole Dio attraverso il dolore? Che cosa significa per Lui? quello che noi non capiamo ha senso ai Suoi occhi.

Io penso che il dolore serva a purificare il nostro essere, a farlo riprendere nella sua purità: ecco il dolore ci rende più puri, più umili, più poveri, più veri anche nei sentimenti, ci rende più dignitosi anche agli occhi di noi stessi. Almeno siamo capaci di soffrire, c’è in noi qualcosa di buono, di autentico. Quello che noi non capiamo ha senso ai Suoi occhi.

Irene è morta: in un modo per me misterioso ha concluso la parabola della sua vita, in un tempo più breve rispetto alla norma, è arrivata alla meta in fretta, ha compiuto il suo destino: ora vede il Padre e tutte le cose nella loro verità e nella loro perfezione.

Noi, nel dolore e nella sofferenza per la sua scomparsa e per la sua mancanza, diventiamo un po’ più veri, più seri, meno distratti di fronte al dramma della vita, che non possediamo e che non ci è data per sbaglio o per caso. Così il dolore ci rinnova nella nostra creaturalità, ci purifica rendendoci un po’ più innocenti, un po’ meno presuntuosi, un po’ più disponibili a Dio.

D’altra parte ditemi l’alternativa: dove pensate di trovare risposta e pace alle domande e alla sete della vostra umanità? Lentamente ci si inquadra, ci si annulla nelle cose da fare, si dimentica la propria giovinezza e anzi la si rinnega. Allora quello che vi dico vuol semplicemente dire: “Ama chi dice all’amico: tu non puoi morire”. E’ un grido il mio: o diventiamo fratelli o saremo sempre estranei.