Tommaso d’Aquino, in un passaggio davvero prezioso del suo De Caelo et mundo, scriveva che «lo studio della filosofia non ha come fine sapere quello che gli uomini hanno pensato, ma di sapere quale sia la verità delle cose». Nel corso della modernità il pensiero occidentale ha progressivamente smarrito questa capacità di stare vicino alla verità e si è rifugiato in un soggettivismo sempre più arido. Dopo la conclusione del Novecento, che ha rappresentato la fine parossistica di un certo concetto della modernità, il pensiero ha ritrovato il dovere di avere una portata realista. Questo dovere si traduce, in fondo, nella capacità di aprirsi al mondo e di fare spazio a una donazione di senso di cui il soggetto è responsabile, senza esserne tuttavia il padrone, l’autore o l’artefice. Lungo questo cammino la riflessione filosofica può essere aiutata dalle scienze – che propongono al pensiero delle sfide inaudite, sia sotto il profilo etico che sotto quello teorico – ma anche dalla teologia.
Il Novecento, da un punto di vista spirituale, è stato un secolo in cui, mentre si consumava il fallimento di un certo concetto di modernità nelle forme nefaste dei grandi totalitarismi, la teologia preparava l’avvento di un nuovo tempo di speranza. Il libro del cardinale Angelo Scola su Maria, la donna, è un esempio di come la riflessione del teologo possa portare una luce nuova sul lavoro della filosofia. La figura di Maria può infatti divenire l’archetipo di un modello di uomo e di sapere inediti. Nelle belle esperienze evangeliche dell’Annunciazione e della Visitazione la filosofia può trovare dei paradigmi metodologici inattesi. Il capitolo quarto del libro di Scola si apre con un paragrafo dal titolo eloquente: Solo lo stupore conosce. La figura di Maria – che ha la capacità di portare in sé qualcosa che, oltrepassando la sua persona, la mette in una condizione di responsabilità supererogatoria – è in questo senso il modello di un sapere nuovo. Si tratta infatti di un sapere che, essendo umano e finito, prende le mosse dall’accettazione di un dono e non dall’ansia di una riduzione. Il risultato di questa inversione è forse quello di una ragione che non procede per sospetti e diffidenze, ma che si apre alla speranza.
Il pensiero moderno può essere letto, da Descartes a Husserl, passando anche per il nostro Gentile, come il processo di riduzione della realtà al suo fondamento soggettivo. Ma c’è anche un’altra modernità – forse minoritaria, ma non per questo inconsistente – che ha voluto interpretare il ruolo del soggetto non come quello di una divinità immanente, ma come una prassi che sia responsabile di qualcosa che non le appartiene. È soprattutto negli ultimi anni, grazie al pensiero religioso e alla teologia, che stiamo riscoprendo questa modernità alternativa, che rilancia la sfida culturale dell’Occidente oltre gli orizzonti del nichilismo. La scoperta di Maria come paradigma conoscitivo costituisce quindi un bastione contro l’immiserimento dell’umano e al tempo stesso indica una strada da percorrere alla ragione che abbia bene appreso la lezione del Novecento.
In questo quadro, Maria diviene non solo l’«archetipo del cristiano», ma anche quello che possiamo chiamare l’archetipo dell’uomo che pensa, capace di lasciarsi «interrogare» e «provocare» da ciò che lo richiama alla sua responsabilità (pp. 35-36). In questo modo il sapere non resta un’attività meramente critica, ma accetta la sfida di essere una dimensione di pienezza, accoglienza, concretezza. Il soggetto moderno, che noi conosciamo molto bene nella sua caricatura estrema come uomo della società dell’immagine, sembra un «Narciso che vede solo se stesso e non si accorge che specchiarsi per vedersi significa non capirsi» (p. 46). Il modello mariano propone invece la via dell’«umiltà» e perciò uno schietto «realismo» (p. 46), inteso come confronto severo con ciò che non appartiene al soggetto. Per una forma nuova di razionalità la comprensione non è quindi una riduzione, ma è al contrario un «fare spazio dentro di sé» (p. 37).
La figura di Maria è uno dei doni più profondi che la teologia cristiana può fare alla riflessione filosofica, capace di ravvivare il dialogo tra pensiero laico e fede religiosa in un tempo in cui abbiamo bisogno «al posto della dissipazione dell'io indotta dalla società dell'immagine» un suo «sobrio e costruttivo consolidamento» (p. 97). Ma questo consolidamento non sarà possibile se la teologia e la filosofia non coopereranno per dare vita a un approfondimento del concetto di soggettività e a un suo allargamento al di là dei limiti della riduzione moderna. Si tratta di un lavoro lungo, verso quella forma dello spirito che Bergson chiamava con molta forza «cultura dello stupore».http://www.loccidentale.it/