DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Tutto in quella notte. Andrea Tornielli

Il viaggio a Betlemme di Maria e Giuseppe. La ricerca di un posto dove vivere la nascita di Gesù in riserbo e segretezza. L’avvenimento che divide in due la storia dell’uomo

«In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città» (Lc 2,1-4). Sono tutte in queste scarne righe del Vangelo di Luca le notizie riguardanti la data di nascita di Gesù, le circostanze storiche dentro le quali l’Eterno è entrato nel tempo assumendo in tutto, fuorché nel peccato, la nostra natura umana.
Il senatore Sulpicio Quirinio, citato da duemila anni nelle letture delle liturgie natalizie, era nato a Lanuvio, vicino a Tuscolo, e aveva governato a Creta e a Cirene. Lo storico romano Tacito conferma che, divenuto console nel 12 a.C., Quirinio fu governatore di Siria come legato imperiale, però colloca lo svolgimento di questo suo incarico negli anni 6-7 d.C., cioè diverso tempo dopo la nascita del Salvatore. Per risolvere il problema alcuni esegeti hanno pensato di tradurre in questo modo il brano di Luca: «Questo censimento avvenne prima (di quello avvenuto) governando la Siria Quirinio». Ma un’iscrizione frammentaria scoperta a Tivoli alla fine del Settecento, secondo l’abate Giuseppe Ricciotti (autore della Vita di Gesù Cristo), offre una base sufficiente per affermare che Quirinio era già stato una volta legato in Siria qualche anno prima dell’era volgare e che aveva indetto il primo censimento, protrattosi per più anni e portato a termine dal suo successore Senzio Saturnino. La registrazione di tutti gli abitanti della Palestina avvenne secondo il modo giudaico: tutti i censiti dovevano iscriversi nei propri luoghi di origine e non nel territorio dove vivevano, come invece sarebbe accaduto se si fosse adottato il metodo romano.
«Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazareth e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa che era incinta» (Lc 2,4-5). Le tribù ebraiche si dividevano in grandi famiglie e queste ultime in casati paterni; e ovunque andassero ad abitare, i nuovi gruppi familiari conservavano con tenacia il ricordo del ceppo originario. Betlemme (Beth-lehem, originariamente Beth-Lahamu, cioè “casa del dio Lahamu”, divinità babilonese, poi interpretata in senso ebraico beth-lehem cioè “casa del pane”) era un piccolo centro che distava nove chilometri da Gerusalemme e all’epoca di Gesù non doveva contare più di mille abitanti, per lo più pastori e contadini. Era però un luogo di passaggio per le carovane che da Gerusalemme si dirigevano in Egitto, tanto che fin dai tempi antichi il figlio di un amico del re Davide, Chamaam, vi aveva costruito un caravanserraglio (in ebraico geruth, “foresteria”).

In viaggio per il censimento
Betlemme dista da Nazareth circa 150 chilometri e il viaggio di Giuseppe e Maria non deve essere durato meno di tre-quattro giorni. Non sappiamo se l’obbligo di legge prevedeva anche la presenza della sposa, oltre a quella del capofamiglia. Ma dalle parole di Luca si può intuire che la gravidanza avanzata doveva aver consigliato, comunque, il fatto che la madre del Salvatore non fosse lasciata sola. Inoltre già l’angelo dell’annunciazione aveva predetto a Maria che al nascituro «il Signore Dio darà il trono di Davide suo padre», e ciò rappresentava una ragione in più perché il parto avvenisse proprio a Betlemme, la città che il profeta Michea nelle Scritture aveva indicato come patria del messia d’Israele. Si può immaginare che le strade fossero in condizioni abbastanza disastrate e affollate da famiglie in movimento a causa del censimento. Nella migliore delle ipotesi - osserva il Ricciotti - i due coniugi avranno avuto a disposizione un asino, caricato delle cibarie e delle vettovaglie necessarie per il viaggio. Un viaggio non facile per Maria, che stava ormai per partorire. I tre o quattro pernottamenti saranno stati fatti in qualche casa di amici o più probabilmente nei luoghi pubblici di sosta, a cielo aperto, fianco a fianco con gli altri viandanti, gli asini e i cammelli. Giunti a Betlemme, Giuseppe e Maria trovarono la città di Davide stracolma di gente. Anche il caravanserraglio, tradizionale luogo di ospitalità per i viaggiatori, era sovraffollato. «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2,6-7). L’albergo o locanda (to kataluma nel greco di Luca) altro non era che il caravanserraglio: uno spazio a cielo aperto, circondato da un muro piuttosto alto. All’interno, attorno al cortile, correva un portico che offriva riparo ed era a tratti chiuso da muretti. Si creavano così delle stanzette, riservate a chi poteva permettersi di pagare per avere una maggiore intimità. L’evangelista nota che «non c’era posto per essi nell’albergo». Secondo l’abate Ricciotti questa frase è più studiata di quanto appare a prima vista. È difficile immaginare che nel caravanserraglio o in tutta Betlemme non vi fosse un angolo per accogliere i due sposi. Quel «per essi» potrebbe però indicare che in quei giorni e in quelle circostanze, con il sovraffollamento e la totale promiscuità che si viveva nei luoghi pubblici e nelle povere abitazioni di Betlemme, ciò che mancava a Maria era un posto dove vivere la nascita di Gesù in riserbo e segretezza. Luca si limita a scrivere che «Maria diede alla luce suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia». La mangiatoia suppone una stalla e le stalle, nella povera città di Davide, erano piccole grotte scavate nella roccia nei dintorni delle case o nelle colline che circondavano Betlemme.

Quei gesti materni
Giuseppe e Maria si accomodarono “alla bell’e meglio” in una di queste tetre grotte accanto a qualche bestia. Dalle parole dell’evangelista si deduce che il parto avvenne senza l’aiuto di altre persone. La madre stessa accudisce il neonato, lo avvolge nelle fasce e lo depone nella mangiatoia, dove Giuseppe, che neppure è nominato, avrà disposto della paglia pulita. «Il testo lascia intuire un parto facile e ben condotto. E i primi gesti materni Maria li sa fare d’istinto, come ogni donna», scrive René Laurentin nella sua Vita autentica di Gesù Cristo. L’accenno al «figlio primogenito» non deve trarre in inganno e far supporre che la Madonna abbia avuto altri bambini: “figlio primogenito” (in ebraico bekor) è, infatti, un termine tecnico, di particolare importanza giuridica, perché il primogenito ebreo doveva essere presentato al Tempio, circostanza che Luca descrive nei capitoli successivi.
Il Messia d’Israele viene, dunque, al mondo nella semioscurità di un’appartata grotta scavata nella roccia. È un sovrano così diverso dall’Erode che regna su Gerusalemme circondato di lussi nel suo palazzo dorato. Ma anche quel bambino indifeso, quel re d’Israele nato in circostanze così umili, ebbe l’omaggio dei suoi primi “cortigiani”. Sudditi di condizione sociale non molto differente da quella dello stesso re Davide, già pastore di pecore. Betlemme sorgeva e sorge al limitare della steppa. Se è vero che molti capi di bestiame la notte venivano fatti rientrare nelle grotte, è altrettanto vero che molte greggi rimanevano continuamente all’aperto, giorno e notte, estate e inverno. Gruppi di uomini li sorvegliavano e vivevano con loro per tutto il tempo. «Pecorai di tal genere - scrive il Ricciotti - riscuotevano una pessima reputazione presso i Farisei e gli Scribi: in primo luogo la loro stessa vita nomade nella steppa scarseggiante d’acqua li rendeva lerci, fetenti, ignari di tutte le fondamentalissime leggi sulla lavanda delle mani, sulla purità delle stoviglie, sulla scelta dei cibi. Essi più di chiunque altro costituivano quel “popolo della terra” che era degno per i Farisei del più cordiale disprezzo; inoltre passavano per ladri tutti quanti, e si consigliava di non comperare da loro né lana né latte che potevano essere cose refurtive».

Il bambino in fasce
«C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: “Non temete, ecco, vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”. Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano tra loro: “Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”. Andarono dunque senza indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che di quel bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,8-20). L’Altissimo fatto carne, l’avvenimento (Luca usa il termine rhema, che ricalca l’ebraico dabar e ha il doppio significato di “parola” e “avvenimento”) che divide in due la storia dell’uomo, il Messia tanto atteso dal fedele popolo d’Israele si manifesta innanzitutto ai pastori “lerci e fetenti”, progenie di quel re-pastore che fu Davide. È l’imperscrutabile metodo di Dio, così diverso e lontano da ogni immaginazione umana: l’infinitamente grande abbraccia l’infinitamente piccolo. Avvertiti dall’angelo, i pastori accorrono alla grotta. «Essendo poveri di denaro ma signori di spirito - fa osservare ancora il Ricciotti - non chiedono nulla, e ritornano senz’altro alle loro pecore: soltanto sentirono un gran bisogno di lodare Dio e di far sapere ad altri del posto quanto era accaduto». Avranno lasciato, ai piedi del neonato, un po’ di lana e un po’ di latte. Quei prodotti che i Farisei consideravano refurtiva.

di Andrea Tornielli



Dall’omelia di Giovanni Paolo II a Betlemme nella piazza della Mangiatoia, antistante la Basilica della Natività. 22 marzo 2000

«Non temete, ecco, vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10-11).
La gioia annunciata dall’angelo non è qualcosa che appartiene al passato. È una gioia di oggi, dell’oggi eterno della salvezza di Dio, che comprende tutti i tempi, passato, presente e futuro. All’alba del nuovo millennio siamo chiamati a comprendere più chiaramente che il tempo ha un senso perché qui l’Eterno è entrato nella storia e rimane con noi per sempre.

Il bambino appena nato, indifeso e totalmente dipendente dalle cure di Maria e di Giuseppe, affidato al loro amore, è l’intera ricchezza del mondo. Egli è il nostro tutto!

L’opera della nostra redenzione si dispiega nella debolezza.

Dov’è dunque il dominio del «Consigliere ammirabile, Dio potente e Principe della pace» di cui parla il profeta Isaia? Qual è il potere al quale si riferisce Gesù stesso quando afferma: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28,18)? Il Regno di Cristo «non è di questo mondo» (Gv 18,36). Il suo Regno non è il dispiegamento di forza, di ricchezza e di conquista, che sembra forgiare la storia umana. Al contrario si tratta del potere di vincere il Maligno, della vittoria definitiva sul peccato e sulla morte. È il potere di guarire le ferite che deturpano l’immagine del Creatore nelle sue creature. Quello di Cristo è il potere che trasforma la nostra debole natura e ci rende capaci, mediante la grazia dello Spirito Santo, di vivere in pace gli uni con gli altri e in comunione con Dio. «A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12). È questo il messaggio di Betlemme, oggi e sempre. È questo il dono straordinario che il Principe della Pace ha portato nel mondo duemila anni fa.

Nella grotta di Betlemme, è «apparsa infatti la grazia di Dio» (Tt 2,11). Nel Bambino che è nato, il mondo ha ricevuto «la misericordia promessa ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre»
(cfr. Lc 1,54-55).

Un seme nella terra non si riconosce, non si riconosce da tutti gli altri pezzetti di terra, perché un seme nella terra è come un grano di terra. E il Signore è entrato nel mondo come un seme dentro la terra. Lo stupore e il brivido che abbiamo provato a Nazareth di fronte alla grotta dell’Annunciazione, o nella casetta di San Giuseppe, o qui nella grotta di Betlemme, è che tutto è avvenuto senza alcun clamore umano.

Questo seme prorompe dapprima in modo apparentemente insensibile, ma poi, dopo duemila anni, ne siamo investiti umanamente, ragionevolmente, affettivamente; attivamente investiti, e trasformati da esso innanzitutto nella mentalità. E infatti, la prima parola che dirà quel bambino diventato giovane sarà la parola metanoia, un modo di pensare e di sentire diverso. Ma non si può dire che sia un pensare e un sentire non umano: è un pensare e un sentire più umano, altrimenti noi non vi aderiremmo, non potremmo aderirvi, perché quello che cerchiamo è l’uomo.

Dove Dio costruisce la dimostrazione finale del Suo dominio? In ognuno di noi. È incominciato in noi come un cenno, come una parola, come un richiamo piccolo, fragile, quasi irriconoscibile nella sua verità e nella sua potenza irriducibile, come un seme dentro la terra. Il Signore usa questo metodo. E san Paolo lo ricorda tante volte. Il Signore usa questo metodo per dimostrare che la potenza non è nostra, non sta nella nostra intelligenza, non è una nostra forza, ma è Suo Potere.

Ma secondo quali modalità questo seme si è sviluppato e si è imposto agli occhi del mondo? È la seconda osservazione che volevo fare, e questa grotta dei Santi Innocenti ce la ricorda: la testimonianza. La testimonianza che è un atteggiamento, si tratti del vivere o del morire: vita e morte non avrebbero nessun significato se non ci fosse Cristo. Noi dobbiamo tendere a sviluppare il seme che è stato messo dentro la terra della nostra umanità, perché niente corrisponde alla nostra umanità più di questo seme.
(Don Giussani, in: Luigi Amicone, Sulle tracce di Cristo, Bur 2000)

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