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Era il 614 e la basilica di Betlemme, eretta attorno al 325-330 dalla madre di Costantino, Elena, e ristrutturata un paio di secoli dopo da Giustiniano, era assediata dal re persiano Cosroe che aveva già raso al suolo tutti gli edifici sacri cristiani della Terra Santa. Il sovrano stava già per ricorrere al fuoco e alle balestre quando s'accorse che sul frontone della basilica della Natività di Cristo erano raffigurati alcuni personaggi vestiti proprio come lui: erano i Magi che i bizantini avevano tratteggiato in abiti da cerimonia persiani. Quella chiesa, che racchiude nella cripta la grotta della nascita di Cristo, fu così salvata ed è ancor oggi possibile visitarla penetrandovi per un'unica porticina detta simbolicamente "dell'umiltà", ma forse più prosaicamente destinata a impedire ai cavalieri ottomani di accedere a cavallo nelle cinque navate dell'interno.
Matteo e gli apocrifi
Il racconto di Matteo che riguarda i Magi (2, 1-12) è sobrio, sebbene non privo di colpi di scena ed è tutt'altro che fiabesco, anche se la tradizione artistica e popolare successiva si è lasciata conquistare dalle sue componenti narrative. Pensiamo, ad esempio, alle innumerevoli "Adorazioni dei Magi" di pittori celebri e ignoti, oppure al bel romanzo di Michel Tournier Gaspare, Baldassarre e Melchiorre (1980), al film Cammina cammina di Ermanno Olmi (1983), alla ballata che Thomas Stearns Eliot dedicò ai Magi nel 1927: "Fu per noi un freddo avvento / per un viaggio lungo come questo. / Le strade fangose (...) / e i cammelli pustolosi, i piedi sanguinanti / (...) Vi furono momenti in cui rimpiangemmo / i palazzi d'estate sui pendii, i terrazzi, / le seriche fanciulle che portavano / i sorbetti".
Nel 1985 durante una campagna di scavi nel deserto egiziano delle celle a ovest del delta del Nilo, è venuta alla luce la più antica testimonianza dipinta (VII-VIII sec.) dei nomi, ignoti al Vangelo, dei Magi. Sull'intonaco bianco del muro di una cella un monaco aveva tracciato in rosso questi tre nomi: "Gaspare, Belchior, Barthesalsa". Si tratta di una delle tante deformazioni o variazioni che derivavano dai cosiddetti Vangeli apocrifi, testi nati dalla pietà popolare del cristianesimo primitivo, le cui pagliuzze d'oro di verità storica e di fede si nascondono in un magma di fantasie folcloristiche.
In un frammento del perduto Vangelo degli Ebrei, assegnabile alla prima parte del II secolo, i Magi, "indovini dal colorito scuro e dai calzoni alle gambe", sono un vero e proprio stuolo, guidato però da una terna di capi: Melco, Caspare e Fadizarda.
Qualche secolo dopo (VI-VII), ma su una base documentaria certamente più antica, un altro apocrifo, lo Pseudo Matteo, fonte privilegiata degli artisti medievali, scriverà: "I Magi offrirono ciascuno una moneta d'oro" al Bambino, ma aggiunsero ciascuno un dono personale: Gaspare la mirra, Melchiorre l'incenso, Baldassarre l'oro. Si costituiva così la tradizione popolare dei tre Magi, con nomi precisi e, a causa dei doni e di un salmo (il 72: "I re di Tarsis e di Saba offriranno tributi, a lui tutti i re si prostreranno"), furono dotati di dignità regale. Per non dire poi che in essi si tenterà di riassumere tutto lo spettro dei colori razziali: l'uno verrà identificato come un bianco, l'altro come un giallo e il terzo come un moro, mentre le loro ipotetiche reliquie approderanno, attraverso complesse vicende storiche, a Milano e a Colonia.
La fantasia pirotecnica degli apocrifi e delle tradizioni popolari, scontenta della sobrietà dei dati offerti dal Vangelo di Matteo (2, 1-12), non si è fermata qui ma si è gettata con entusiasmo alla ricerca (e spesso all'invenzione) di scene pittoresche. Più contenuto è il Protovangelo di Giacomo del III secolo, che si accontenta di fissare l'attenzione soprattutto sulla stella. "Abbiamo visto - confessano i Magi - una stella grandissima che splendeva tra tutte le altre stelle e le oscurava tanto che le stelle non apparivano più. La stella poi si è arrestata proprio in cima alla grotta".
Della stella si interessa anche un altro apocrifo, L'infanzia del Salvatore, un testo scoperto in due versioni nel 1927 e databile attorno al VI secolo: "Ecco un'enorme stella che splendeva sulla grotta dalla sera al mattino; una stella così grande non era mai stata vista dall'inizio del mondo". Ma, nel prosieguo del racconto, l'autore in modo più raffinato si preoccupa di ricordarci che quella stella era in realtà "la parola di Dio ineffabile". Curioso resta, però, il monologo di Giuseppe che spia da lontano con apprensione i Magi: "Mi pare siano àuguri: non stanno fermi un momento, osservano e discutono tra loro. Sono forestieri: il vestito è diverso dal nostro vestito, la veste è amplissima e scura, hanno berretti frigi e alle gambe portano sarabare [gambali] orientali". Alla domanda sull'identità del bambino, Giuseppe risponde - non si capisce se ironicamente o "teologicamente" - in questo modo: "Suppongo che sia mio figlio". Ma essi gli spiegano che di ben altro si tratta.
Ancor più vivace è il Vangelo arabo dell'infanzia del V-VI secolo che considera i Magi come discepoli di Zarathustra, il profeta della religione iranica, e li fa protagonisti di un delizioso apologo sulle fasce di Gesù Bambino. Ascoltiamo l'ignoto autore: "La signora Maria prese una delle fasce del bambino e la diede loro in ricordo. Essi si sentirono onoratissimi di prenderla dalle sue mani". Rientrati nel loro paese, durante una festa in onore del fuoco sacro, gettarono quella fascia nelle fiamme del grande falò liturgico. Ma, spento il fuoco, ecco riapparire tra le ceneri, la fascia intatta. "Presero, allora, a baciarla e a imporsela sulla testa e sugli occhi".
Potremmo continuare per pagine e pagine questo pellegrinaggio nel mondo fantasmagorico dei Magi apocrifi. Noi, invece, ritorniamo al Vangelo dell'infanzia di Gesù secondo Matteo, un testo che probabilmente l'evangelista ha assunto dalla predicazione della Chiesa delle origini e ha imposto come premessa al suo Vangelo, un testo di denso contenuto e di non facile interpretazione, nonostante l'apparente semplicità.
Proprio per la pagina dei Magi, infatti, che molti forse considerano ingenua, potremmo dire che è valido un famoso adagio rabbinico: "Ogni parola della Bibbia ha settanta volti". Il racconto, superficialmente letto come una fiaba orientale, piena di profumi esotici, è in realtà denso di simbolismi che il lettore attento della Bibbia subito sapeva riconoscere, è carico di riferimenti teologici allusivi, è un intarsio di citazioni e di temi legati all'Antico Testamento, e si riferisce alla storia del bambino Gesù in modo molto originale e libero.
Non siamo quindi in presenza di una novella dolcissima per piccoli, quanto piuttosto davanti ad una vera e propria sintesi cristologica, distribuita sui fili sottili di una trama storica dalle maglie molto larghe e allentate e sui fili più robusti di uno schema di pensiero molto fitto e profondo. Dobbiamo, perciò, guardare con piacere la superficie colorata del racconto ma dobbiamo anche superarla alla ricerca del significato ultimo sotteso: un modo errato di leggere questa pagina è di perdere di vista il Cristo e di lasciarci conquistare solo dai Magi.
Certo, costoro sono attori importanti nel racconto come lo è la "loro" stella, ma essi non sono i protagonisti. Interessiamoci, perciò, di loro solo per raggiungere con loro la meta gloriosa che li attende. D'altronde l'interesse per questi misteriosi personaggi è antichissimo e affonda le sue radici, come si è visto, nelle origini stesse della tradizione cristiana.
Nelle catacombe romane di Priscilla i Magi appaiono negli affreschi (230-250) prima dei troppo normali e modesti pastori. Tra le molte domande, che possono affiorare a questo livello di curiosità, scegliamone due: da dove provenivano i Magi e qual era la "loro" stella? Alla prima domanda il Vangelo di Matteo ci risponde con uno sbrigativo "giunsero da Oriente" e con la parola greca Màgoi. Con questo termine si intendevano gli astrologi, gli astronomi, gli incantatori, gli aruspici, i maghi, personaggi quindi di varia attendibilità, ciarlatani e sapienti. Un orizzonte, perciò, molto vasto e generico che dalla scienza può sconfinare fin nella cialtroneria. La provenienza "da Oriente" non è certamente più circoscritta perché abbraccia un orizzonte culturale molto variegato.
Abbiamo già ricordato che il Vangelo arabo dell'infanzia li considerava discepoli di Zarathustra o Zoroastro, fondatore del mazdeismo iranico (600 a.C.?). Nell'Antico Testamento, però, il Libro di Daniele parla spesso di "magi" babilonesi (ad esempio, Daniele, 1, 20; 2, 2.10.26; 4, 6: in quest'ultimo passo si parla di un Baltazzar "principe dei magi"). Effettivamente Babilonia aveva il primato nell'antico Vicino Oriente riguardo agli studi astronomici e astrologici. Là, anche ai tempi di Gesù, era presente una nutrita colonia giudaica che forse aveva trasmesso la sua attesa messianica anche ai "magi" babilonesi. Nella Bibbia, però, "i figli d'Oriente" sono molto spesso gli Arabi del deserto (Arabia e Siria) o i Nabatei, le cui carovane commerciavano in incenso e oro e le cui relazioni con Israele risalivano all'epoca di Salomone.
Ben quattro tribù arabe del deserto derivavano il loro nome dalle stelle, dimostrando così un vivo interesse per l'astrologia. Nel 160, lo scrittore cristiano Giustino affermava senza esitazione: "Andarono da Erode Magi provenienti dall'Arabia". Ma uno studioso americano, Martin McNamara, qualche decennio fa ha reso molto più "domestici" i Magi considerandoli come membri degli Esseni, quella comunità giudaica nota soprattutto per il suo "monastero" di Qumran, posto sulle rive del Mar Morto: essi infatti si interessavano moltissimo di "oroscopi" messianici e nei loro scritti i doni dei Magi sono citati assieme al simbolo della stella del Messia.
Un enigma irrisolto, quindi, quello della patria dei Magi. Risolvibile forse solo attraverso quella dimensione più profonda che il testo di Matteo rivela ad un'analisi più teologica. La vicenda storica in sé non è impossibile, come invece alcuni critici sostengono, proprio perché il segno astrale era un "codice" culturale tipico di quell'epoca e poteva essere connesso con la diffusione delle speranze messianiche che l'ebraismo aveva favorito con la sua diaspora nel mondo. Ma è certo che l'evangelista vuole sorpassare il fatto storico e vuole far brillare significati ulteriori in questi uomini dell'Oriente giunti a Gerusalemme per "rendere omaggio al neonato re dei Giudei".
La loro è la storia di un viaggio rischioso sul modello di quello di Abramo che "partì senza sapere dove sarebbe andato" (Ebrei, 11, 8). Il filosofo francese Emmanuel Lévinas ha sottolineato che al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca, al quieto vivere familiare, al passato nostalgico, nella Bibbia si oppone la storia di Abramo e dei Magi che lasciano la loro patria per una terra e una famiglia ignota. È il senso di quella bellissima definizione che gli Ebrei dell'Antico Testamento si danno come figli dell'esodo dall'Egitto: "Noi siamo forestieri come i nostri padri" (1 Cronache, 29, 15). È l'esortazione di Isaia (2, 3.5): "Venite, saliamo sul monte del Signore (...) Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore!". Il viaggio dei Magi può diventare, allora, l'emblema della vita cristiana intesa come sequela, discepolato, ricerca.
Il viaggio esige distacco, coraggio, ricerca, speranza. Chi è legato a terra dai pesi delle cose e dei vincoli è incapace di essere pellegrino. Chi è convinto di possedere tutto e di avere già il monopolio della verità non ha l'ansia della ricerca; egli è simile ai sacerdoti di Gerusalemme del racconto matteano, freddi interpreti di una parola biblica che non li coinvolge né li converte. Chi si è troppo ben collocato nella sua città non ha bisogno di Betlemme, anzi Betlemme gli appare come un insignificante villaggio di provincia.
Ma sappiamo anche che molti si muovono e, come i Magi, si fanno pellegrini della verità: "Molti verranno dall'Oriente e dall'Occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel Regno dei cieli, mentre i figli del Regno saranno cacciati fuori nelle tenebre" (Matteo, 8, 11-12). A Cristo, per strade misteriose, giungono schiere di cristiani "anonimi" come i Magi che lo cercano senza ancora conoscerlo e senza saperne il nome. Nella piccola processione dei Magi verso la verità e la luce Matteo vede la grande processione della Chiesa, "una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Apocalisse, 7, 9).
Il segno cosmico
Il secondo attore del racconto dei Magi è il segno cosmico della stella. Sotto l'altare della grotta della Natività a Betlemme, i Francescani nel 1717 incastonarono una stella d'argento a 14 punte, tante quanti sono gli anelli delle tre catene genealogiche di Gesù citate nel capitolo 1 di Matteo. Una stella, questa, poco "evangelica" perché dette origine a liti interminabili tra Francescani e Ortodossi. Questi ultimi, con un colpo di mano, nel 1847 sequestrarono la stella e la nascosero nel loro monastero di San Saba nel deserto di Giuda. Furono necessari cinque anni di negoziati per farla riapparire sotto l'altare della grotta.
È meglio, allora, guardare il cielo per cercare lassù, nei silenzi siderali, la stella dei Magi. Ma anche là quanta confusione tra gli esperti! Un opuscolo pubblicato dal prestigioso Adler Planetarium di Chicago e suggestivamente intitolato The Star of Bethlehem, propone diverse ipotesi. Keplero, uno dei padri dell'astronomia moderna, - vi si legge -, non aveva esitazioni: la stella dei Magi era una supernova, cioè una stella debole e molto lontana, nella quale avviene una colossale esplosione. Per settimane o mesi la stella diventa visibile anche nel nostro cielo con una luce vivida e distinta da quella degli altri astri: l'esplosione può infatti sprigionare una luce superiore anche centinaia di milioni di volte a quella del sole. Ogni anno gli astronomi ne scoprono una dozzina ma molto rare sono quelle visibili ad occhio nudo.
Ma l'opinione più comune cerca nella stella dei Magi una cometa, soprattutto quella di Halley, la cui presenza nei cieli sembra documentata fin dal 240 a.C. in testi cinesi e giapponesi. Quando apparve nel 1911 nel cielo di Gerusalemme, il famoso biblista domenicano Marie-Joseph Lagrange, che allora risiedeva laggiù, la vide venire dall'Oriente, scomparire gradualmente quando fu allo zenit e "riapparire" più tardi quando tramontò a Occidente, proprio come è detto nel racconto di Matteo. Ma - e questo rende tutto dubbio - il calcolo astronomico del passaggio della cometa sul nostro orizzonte e su quello di Gerusalemme ha come data il 26 agosto del 12 a.C., cioè almeno sei anni prima della nascita di Gesù, che come è noto, è collocata convenzionalmente dagli esegeti attorno al 6 a.C.
Ecco allora che altri studiosi si orientano verso una congiunzione di pianeti, in particolare quella tra Giove e Saturno avvenuta, sempre secondo i calcoli astronomici e i dati offerti da un papiro egiziano (la cosiddetta "tavola di Berlino") e dall'"almanacco astrale" di Sippar (Mesopotamia) su tavoletta, nel 7 a.C. e precisamente il 29 maggio, il 29 settembre e il 4 dicembre. Le ipotesi si affollano e oscurano sempre più la stella di Betlemme riducendola quasi ad una controversia tra astronomi.
E allora, lasciando sospesa l'identificazione concreta, cerchiamo di ascoltare un consiglio offertoci proprio dal citato padre Lagrange: "Sulla stella di Betlemme ci può dire molto di più la teologia che non l'astronomia". Sappiamo infatti che a più riprese nella tradizione biblica e in quella giudaica la stella è un segno messianico. Un esempio per tutti lo troviamo nel più famoso dei quattro oracoli del mago Balaam, costretto da Dio a benedire suo malgrado Israele. Nel capitolo 24 del Libro dei Numeri leggiamo appunto questa frase: "Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele" (versetto 17).
Ora, la versione aramaica della Bibbia (il cosiddetto Targum) non ha nessuna esitazione nel tradurre il testo ebraico citato in questo modo: "Il Messia spunta da Giacobbe e il Re sorge da Israele". In un racconto popolare giudaico dell'epoca di Gesù si immagina che, quando la regina di Saba giunse nel deserto di Giuda e si incamminò sulla strada per Gerusalemme, da una piccola oasi si levò all'improvviso verso il cielo una rosa. Quanto più essa ascendeva tanto più diventava sfolgorante sino a trasformarsi in una stella dalla luce irraggiungibile.
Il Cristo dell'Apocalisse, costantemente circondato da stelle, si autodefinisce così: "Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino" (22, 16). Il vescovo Ignazio di Antiochia nel 107, mentre veniva condotto a Roma per essere esposto alle belve, scriveva ai cristiani di Efeso: "Una stella brillò in cielo oltre ogni stella (alla nascita del Cristo); la sua luce fu oltre ogni parola e la sua novità destò stupore; tutte le altre stelle, insieme al sole e alla luna, formarono un coro attorno alla stella che tutte sovrastava in splendore".
Allora, se non riusciamo ad identificare nelle mappe celesti la stella dei Magi, riusciamo però a vederla e a seguirla, se abbiamo lo sguardo puro e limpido dei Magi. "Il popolo che camminava nelle tenebre - scrive Isaia (9, 1) e lo sentiamo ripetere nella liturgia del Natale - vide una grande luce, su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse".
Il simbolo della luce
È per questo che la tradizione cristiana del Natale si snoda alla luce di questa stella, ma non tanto per una sua precisa collocazione nei sistemi stellari, quanto piuttosto per il suo valore di "luce", simbolo classico di Dio. La stessa data del Natale, il 25 dicembre, come è noto, è stata scelta probabilmente perché era la festa pagana del dio Sole. Il solstizio d'inverno segnava l'inizio della grande ascesa della luce solare, prima umiliata nell'oscurità invernale.
In una stupenda omelia greca attribuita erroneamente a san Giovanni Crisostomo leggiamo questo bel paragrafo: "Dopo la fredda stagione invernale sfolgora la luce della mite primavera, la terra germina e verdeggia di erbe, si adornano i rami di nuovi germogli e l'aria comincia a rischiararsi dello splendore del sole. Ma per noi c'è una primavera celeste, è il Cristo che sorge come un sole dal grembo della Vergine. Egli ha messo in fuga le fredde nubi burrascose del diavolo e ha ridestato alla vita i sonnolenti cuori degli uomini, dissolvendo coi suoi raggi la nebbia dell'ignoranza". È per questo che in un'antica iscrizione sepolcrale il battezzato là sepolto era chiamato in greco eliòpais: "figlio del sole".
Potremmo dire che, se il mondo può cercare le luci sfavillanti della pubblicità natalizia e le apparenze splendenti del consumismo, il cristiano sa dove trovare la vera luce, il suo sole, la sua stella. Quando a Roma sfrecciavano le trenta corse dell'Agone del Sole, quando per il natale del dio Sole a dicembre si accendevano nella notte fuochi di gioia, quando il popolino si prostrava verso il sole che sorgeva all'alba, la Chiesa si riuniva per celebrare la manifestazione del vero sole, Cristo. "Rallegriamoci anche noi, fratelli - esortava sant'Agostino - e lasciamo pure che i pagani esultino: poiché questo giorno per noi è santificato non dal sole visibile bensì dal suo invisibile Creatore".
Il Papa san Leone Magno polemizzava con una prassi dei cristiani romani ancora inficiata di paganesimo: essi, "prima di mettere piede nella basilica dell'apostolo Pietro a Natale, si soffermavano sui gradini, voltavano la persona verso il sole che sorgeva e, piegando il capo, s'inchinavano verso il sole per rendere omaggio al suo disco splendente". La sua conclusione vale anche per la nostra ricerca sulla stella dei Magi: "Lascia pure che la luce del corpo celeste agisca sui sensi del tuo corpo, ma con tutto l'amore infiammato dell'anima tua ricevi dentro di te quella luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo!". E nella liturgia natalizia noi continuiamo a sentire questa esaltazione del dono della luce che ha come punto di partenza la stella dei Magi e la profezia già citata di Isaia (capitolo 9) a proposito dell'Emmanuele. All'Epifania infatti la Chiesa prega così: "O Dio, in questo giorno con la guida della stella hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio: fa', o Signore, che la tua luce ci accompagni sempre e in ogni luogo".
La luce del Messia si riflette su di noi e ci illumina, ci guida, ci trasforma a immagine della sua gloria, ci penetra di immortalità. Infatti, se il più antico mosaico cristiano, quello del mausoleo romano dei Giulii (III secolo), rappresenta il Cristo-sole sfolgorante sul suo carro trionfale, è altrettanto significativo che la tradizione paleocristiana e medievale abbia rappresentato la Chiesa come la luna che riverbera la luce del Cristo. Gli occhi dei Magi fissi alla stella sono il simbolo di tutti gli uomini che "cercano Dio andando quasi a tentoni", come diceva san Paolo all'Areopago di Atene (Atti, 17, 27). Sono gli occhi di coloro che, secondo i versi del poeta Carlo Betocchi, "nella tristezza dell'esistere, / sotto il notturno lembo del Natale, / vedono una luce che non ha l'eguale". Forse sono anche gli occhi di coloro che sperano di intuire un bagliore nell'orizzonte oscuro e amaro della storia.
È in questa dimensione universalistica che vorremmo allegare una considerazione un po' marginale e forse curiosa. Attorno all'anno 40 dell'era antica Virgilio, il grande poeta latino dell'Eneide, introduceva nella IV Egloga un seme di speranza che la tradizione cristiana posteriore cercherà di trapiantare nel proprio terreno religioso. Era una delle tante vie per ritrovare anche nell'attesa e nella ricerca di molte figure alte del pensiero e della cultura classica un fremito già orientato simbolicamente verso l'avvento di Cristo. Virgilio morirà nell'anno 19 ma non pochi cristiani dei primi secoli, leggendo i versi della sua IV Egloga, intravedevano il profilo ancora incerto e vago del loro Signore già intuito dal poeta latino.
Scorriamo anche noi alcune righe di quel carme, interpretato appunto da quegli antichi lettori come una sorta di "profezia" pagana della nascita di Gesù. "Inizia da capo una grande serie di secoli; / ormai torna anche la Vergine, tornano i regni di Saturno / ormai una nuova progenie è inviata dall'alto cielo. / Tu al fanciullo che ora nasce, col quale infine cesserà / l'era del ferro e sorgerà in tutto il mondo quella dell'oro, / sii propizia, o casta Lucina; già regna il tuo Apollo. / E proprio sotto il tuo consolato inizierà questa splendida età, / o Pollione, e cominceranno a decorrere i grandi mesi (...) / Egli riceverà la vita divina, e agli dèi vedrà / mescolati gli eroi ed egli stesso sarà visto tra loro, / e con le virtù patrie reggerà il mondo pacificato (...) / Poche vestigia soltanto sopravviveranno dell'antica malvagità (...) / Guarda come si allieta ogni cosa per il secolo venturo. / Oh, rimanga a me l'ultima parte di una lunga vita / e spirito bastante per cantare le tue imprese".
Certo, è possibile - lo ha sostenuto nel 1931 anche un importante biblista come il gesuita padre Alberto Vaccari - che il poeta mantovano abbia attinto a temi o a immagini di matrice ebraica, desunti dal "libro dell'Emmanuele" di Isaia (cc. 7-12) o da altri scritti apocrifi giudaici, come i cosiddetti Oracoli Sibillini, tenendo conto della presenza di una folta comunità ebraica a Roma.
Tuttavia il Bambino virgiliano rimane quasi certamente un romano. Infatti, siamo probabilmente davanti a un'allusione a un figlio del console Pollione a cui è dedicata l'Egloga: egli fu uno dei protagonisti dell'accordo di Brindisi nel 40, mirante a porre fine alle ostilità tra Antonio e Ottaviano. Oppure è di scena un figlio auspicato (ma fu poi una figlia, Antonia Maggiore) di Antonio e Ottavia, sorella di Ottaviano, le cui labili nozze sancirono appunto l'accordo di Brindisi. O ancora si tratta di Marcello, nato però già nel 43 da un precedente matrimonio di Ottavia e prediletto da Ottaviano (e morto poi nel 23). Ma non è da escludere che tutto il testo voglia celebrare simbolicamente la nascente età dell'oro inaugurata poi da Ottaviano Augusto.
Resta, comunque, intatto il fascino di questa attesa di un Bambino "salvatore" e di un mondo nuovo, proprio alle soglie della nascita del Bambino chiamato Gesù, cioè "colui che salverà il suo popolo dai suoi peccati" (Matteo, 1, 21). La processione dei Magi, che ha come approdo l'illuminazione della fede ("Videro il Bambino con Maria sua madre e, prostratisi, lo adorarono", annota Matteo), diventa così un emblema che riassume in sé la speranza di un incontro di salvezza al termine del lungo cammino della ricerca, sostenuta dalla rivelazione cosmica della stella, una rivelazione a tutti aperta, e illuminata dalla parola esplicita delle scritture custodite a Gerusalemme, ma purtroppo ignorate dai loro custodi.
L'epifania divina che Luca destinava agli ultimi, i pastori, Matteo la riserva agli stranieri, i diversi rispetto al popolo dell'elezione che, pur rischiarato dalla parola biblica (la citazione del profeta Michea - evocata da Matteo e che noi abbiamo già avuto occasione di presentare in queste pagine nel nostro articolo sul Natale di Gesù - su Betlemme patria del Messia), non si muove da Gerusalemme.
I Magi diventano, come si diceva, l'espressione della ricerca umana che ha, però, all'origine una decisione iniziale di Dio che entra per primo nelle strade del mondo, anzi, nella "carne" stessa dell'umanità. È quasi con sorpresa che san Paolo, il cantore del primato della grazia divina, segnalava l'iniziativa assoluta del Dio salvatore quando, scrivendo ai cristiani di Roma, osservava che "Isaia giunge al punto di affermare: Io mi sono fatto trovare - [dice il Signore] - anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non si rivolgevano a me" (10, 20).
Nel suo celebre L'uomo senza qualità Robert Musil sottolineava che "non è vero che il ricercatore insegua la verità. È la verità che insegue il ricercatore". A mettersi sulle nostre vie per primo è Dio stesso che, con la stella della sua verità, spinge i Magi e tutti coloro che non chiudono gli occhi o si distraggono nella superficialità a contemplare quella luce.
La poetessa ottocentesca americana Emily Dickinson scriveva: "Silenziosamente una stella gialla raggiunse / il suo seggio elevato, / la luna sciolse l'argenteo cappello / che copriva il suo volto lustrale. / Tutta la sera si accese dolcemente / come un'astrale sala di festa. / "Padre", io dissi al Cielo / "sei puntuale"". È la rappresentazione simbolica, in una notte limpida e stellata, della rivelazione divina: il Creatore si presenta puntuale per la sua epifania che ha nel Bambino di Betlemme la sua piena attuazione. Ad essa accorrono per primi i poveri e gli stranieri, coloro che hanno il cuore puro e libero dal possesso e dall'orgoglio, così come cantava Francis Jammes, tenero poeta francese morto nel 1938, amante dei valori cristiani e dei sentimenti semplici e delicati: "O Signore, non ho, come i Magi che sono dipinti sulle immagini, / dell'oro da offrirti. / "Dammi la tua povertà!". / Non ho neppure, Signore, la mirra dal buon profumo né l'incenso in tuo onore. / "Figlio mio, dammi il tuo cuore!"". La vicenda dei Magi diventa, così, possibile a tutti attraverso i doni in assoluto più cari a Dio, la povertà profonda e il cuore aperto.
(© L'Osservatore Romano - 6 gennaio 2008)