DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Giuseppe RICCIOTTI
I Magi
tratto da: Giuseppe RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, Mondadori, Milano 1999, § 252

Attorno al neonato Messia, Luca finora ha condotto, oltre ai cortigiani celestiali, soltanto gente umile in funzione di cortigiani terreni, i pecorai della steppa e i due vecchi della città. Su tutti costoro tace Matteo; il quale invece gli conduce dappresso non solo personaggi insigni ma - ciò che può sorprendere nel più israelita fra i quattro evangelisti - personaggi precisamente non israeliti e appartenenti agli aborriti «gojim». Se questo nuovo episodio fosse stato narrato da Luca, si sarebbe detto ch'era stato introdotto per dimostrare avverato l’annunzio di Simeone riguardo “alla rivelazione di genti”; ma trattandosi di Matteo, non rimane che da richiamarsi alla realtà dei fatti selezionata diversamente dai diversi narratori. Essendo dunque nato Gesù, “ecco che magi da Oriente si presentarono a Gerusalemme dicendo: Dov’è il nato re dei Giudei? Vedemmo infatti la stella di lui nell’Oriente, e venimmo ad adorarlo. - Allora, avendo udito (ciò), il re Erode si turbò, e tutta Gerusalemme con lui; e avendo adunato tutti i sommi sacerdoti e gli Scribi del popolo, ricercava da essi dove il Cristo debba nascere. E quelli gli dissero: In Beth-lehem della Giudea; così infatti è stato scritto per mezzo del profeta «E tu Beth-lehem, terra di Giuda, non sei in alcun modo la minima fra i duci di Giuda; da te infatti uscirà un duce il quale pascolerà il popolo mio Israele»” (Matteo, 2, 1-6). Gl’inaspettati stranieri, dunque, erano magi e venivano da Oriente; questi sono a loro riguardo i soli dati sicuri, ma anche vaghi. Il più vago è Oriente, che geograficamente designa tutte le regioni di là dal Giordano, ove procedendo verso levante s'incontra dapprima l'immenso deserto siro-arabico, quindi la Mesopotamia (Babilonia), e infine la Persia: e infatti nell'Antico Testamento tutte e tre queste regioni sono designate come Oriente, anche la lontanissima Persia (come appare da Isaia, 41, 2, ove si allude al persiano Ciro il Grande). Ma precisamente in Persia, a preferenza delle altre due regioni più prossime, ci conduce il termine «magi» che è originariamente persiano e strettamente legato alla persona e alla dottrina di Zarathushtra (Zoroastro). (1)

Di Zarathushtra i magi furono originariamente discepoli; ad essi aveva egli affidato la sua dottrina riformatrice delle popolazioni dell’Iran, ed essi ne furono poi i custodi e i trasmettitori. La loro classe appare molto potente fin nei tempi più antichi, già all’epoca dei Medi e ancor più a quella degli Achemenidi: era un «mago» quel Gaumata (il «falso Smerdi») che usurpò il trono achemenide nel 522 av. Cr. durante la campagna di Cambise in Egitto; ma, anche dopo l’uccisione di Gaumata, i magi si mantennero sempre potenti nell’Impero persiano e nei regimi successivi, fin verso il secolo VIII dopo Cr. Nel campo culturale essi si saranno anche occupati del corso degli astri come tutte le persone colte a quei tempi e in quelle regioni, ma astrologi e fattucchieri certamente non erano: ché anzi, come discepoli di Zarathushtra e fedeli trasmettitori dell’«Avesta», essi dovevano essere i naturali nemici delle dottrine astrologiche e mantiche dei Caldei, le quali sono recisamente condannate nell’«Avesta».


1) Erodoto afferma che «magi era il nome di una tribù della Media, e può darsi che ai tempi di lui i «magi» con le loro prerogative e leggi particolari costituissero una casta chiusa e una specie di tribù; ma il loro nome è certamente assai più antico. Già nelle «Gatha» ricorre il termine «magavan» e nell’«Avesta» recente il termine «mogu» (antico persiano «magu»), quali aggettivazioni del nome «maga» - «dono», e hanno il significato di «partecipe del dono»; ora, poiché già nelle «Gatha» col termine «dono» è designata la dottrina di Zarathushtra, evidentemente i partecipi del «dono» cioè i «magi» sono i fedeli di Zarathushtra, ossia i suoi discepoli. Difatti autori greci antichi e accreditati, quali Xantos, Ermodoro e Aristotile, convengono nel presentare i «magi» come seguaci di Zarathushtra, e definiscono la loro dottrina una filosofia «chiarissima ed utilissima»: per questi autori il primo «mago» fu Zarathushtra stesso. Bisogna scendere ad autori posteriori, specialmente a Bolos di Mendes, fondatore della scuola neopitagorica e naturalista di Alessandria, per trovare i «magi» presentati come astrologi e stregoni, e confusi perciò in parte con i Caldei babilonesi e in parte con i maghi egiziani; tuttavia più tardi, in Babilonia, anche i magi fecero di Zarathushtra un astrologo. Per tutto questo argomento, cfr. G. Messina, «Ursprung der Magier und die zarathustrische Religion», Roma 1930; id., «I Magi a Betlemme e una predizione di Zoroastro», Roma 1933; id., «Una presunta profezia di Zoroastro sulla venuta del Messia», in «Biblica», 1933, pagg. 170-198.


Giuseppe RICCIOTTI
I Magi ed Erode
tratto da: Giuseppe RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, Mondadori, Milano 1999, § 254-255.

§ 254

Erano proprio stranieri quei Magi e non sapevano proprio nulla delle condizioni politiche di Gerusalemme, giacché appena entrati si dànno a domandare: “Dov’è il nato re dei Giudei?” Di re dei Giudei non c’era altri che Erode; bastava del resto conoscere un pochino il carattere di costui (§ 9 segg.) per star sicuri che un suo eventuale competitore, appena si fosse mostrato, avrebbe avuto i giorni e anche le ore contate. Perciò, nell’interesse stesso del bambino ricercato, quella domanda era pericolosa nella sua ingenuità.

I primi cittadini interpellati rimasero stupiti, e anche un po’ turbati, perché una domanda di quel genere fatta da quegli ignoti personaggi induceva a subodorare tenebrose congiure, le quali si sarebbero portate appresso i soliti sconvolgimenti civili e le stragi di gente sospetta. Passando di bocca in bocca la domanda pervenne a gente della corte, e quindi anche ad Erode.

Il vecchio monarca, che per sospetti di congiure aveva già ammazzato due figli e stava per ammazzarne un terzo, non poté non turbarsene; ma capì subito che, se una minaccia c’era, era ben diversa dalle altre. La sua polizia segreta, egregiamente organizzata, (1) lo teneva informato dei minimi fatti che accadevano in città, e in quei giorni non era stato riferito assolutamente nulla d’inquietante; d’altra parte dalla lontana Persia non si dirigevano facilmente le fila d’una congiura, né si sarebbero inviate sul posto persone così inesperte e ingenue come quei Magi. No, qui doveva esserci sotto qualcosa d’altro genere, qualche ubbìa religiosa, molto probabilmente la fisima di quel Re-Messia che i suoi sudditi aspettavano ma che egli non aspettava affatto. Ad ogni modo era bene premunirsi, dapprima informandosi chiaramente in proposito, eppoi giocando d’astuzia.

Trattandosi di beghe religiose, Erode consultò non l’intero Sinedrio (§ 58) ma quei suoi due gruppi ch’erano più versati in simili faccende, cioè i “sommi sacerdoti e gli Scribi del popolo” (§§ 41, 50), e propose loro il quesito astratto e generico “dove il Cristo (Messia) debba nascere” [...]. Egli cioè voleva sapere quale sarebbe stato, secondo le tradizioni giudaiche, il luogo di nascita dell’aspettato Messia: saputo ciò, avrebbe provveduto egli a servirsi di quei semplicioni di Magi per fare i suoi propri conti col neonato re dei Giudei.

I consultati risposero che il Messia doveva nascere a Beth-lehem, e citarono a prova il passo di Michea, 5, 1-2, che nel testo ebraico dice: “E tu Beth-lehem Efrata, piccola pur essendo nelle ripartizioni (2) di Giuda, da te per me uscirà (colui che) sarà dominatore in Israele, le cui uscite (origini) dall’antichità, dai giorni eterni. Perciò (Dio) li consegnerà (in potere dei nemici), fino al tempo in cui la partoriente partorirà”. Si noterà che questo passo non è riprodotto né integralmente né con queste precise parole dalla risposta dei dottori consultati, qual è riferita da Matteo (§ 252); ad ogni modo c’è l’essenziale, cioè la designazione di Beth-lehem come luogo d’origine del Messia, e in tal senso si esprime anche il Targum allo stesso passo. Questa designazione era dunque tradizionale nel giudaismo di quei tempi.

Ottenuta questa risposta, Erode dovette rimanere perplesso. Beth-lehem era un paesucolo qualunque, in cui la sua polizia segreta non gli segnalava assolutamente nulla di sospetto; tuttavia quel complesso di stella, di sconosciuti Magi, e specialmente quell’appellativo di re dei Giudei, mentre da una parte stuzzicavano la sua curiosità, dall’altra disturbavano alquanto la sua tranquillità. Per soddisfare dunque alla prima e provvedere alla seconda, non rimaneva che servirsi degli stessi Magi, in maniera tale da non destare i sospetti né di loro né di altri.

1) Come la polizia segreta di Erode sorvegliasse minutamente il popolo di Gerusalemme e come a sua volta il popolo odiasse le dissimulate spie del monarca, risulta dalla narrazione di “Antichità giud.”, XV, 284-291.

2) Ripartizioni è in ebraico letteralmente “migliaia”, perché le antiche ripartizioni della popolazione avevano per base il migliaio.

§ 255

Questo piano fu attuato. Erode fece chiamare i Magi “di nascosto” (Matteo, 2, 7), perché non voleva né apparire troppo credulo dando importanza a gente forse squilibrata, né rinunciare alle sue misure di precauzione. Interrogatili quindi accuratamente sul tempo e modo dell’apparizione della stella, li lasciò andare a Beth-lehem : cercassero bene il neonato, e appena trovatolo ne informassero lui, perché sarebbe venuto anch’egli laggiù ad adorarlo.

Mandare appresso a quei buffi orientali un manipolo di soldati con qualche ordine segreto sarebbe stato un provvedimento più sicuro, dispensando il vecchio monarca dall’aspettare la notizia che il bambino era stato trovato: ma lo avrebbe anche esposto alle beffe dei suoi sudditi, giacché in tutta Gerusalemme non si faceva che parlare di quella strana comitiva, pur prevedendosi con certezza che tutto sarebbe finito in una scena da ridere e che quegli orientali sarebbero risultati sognatori esaltati. Ad ogni modo essi, com’erano passati allora per Gerusalemme, così dovevano ripassarci al loro ritorno, e quindi Erode li avrebbe avuti sempre a sua disposizione.

I Magi, dopo l’udienza reale, “partirono. Ed ecco la stella, che videro nell’Oriente, li precedeva finché venendo stette sopra dov’era il bambino. Ora vedendo la stella, godettero di gaudio assai grande. E venuti nella casa, videro il bambino con Maria la sua madre, e caduti l’adorarono: e aperti i loro forzieri, gli presentarono doni, oro, incenso e mirra. E ricevuta rivelazione per sogno di non ritornare da Erode, per altra strada si ricondussero alla loro regione” (Matteo, 2, 9-12). La narrazione è ristretta alle sole linee principali e astrae da tempo e da luogo. Se ne raccoglie tuttavia che i Magi passarono almeno una notte a Beth-lehem, giacché vi ricevettero rivelazione per sogno, e non è escluso che vi rimanessero anche più d’un solo giorno; si raccoglie pure che la famiglia di Giuseppe, abbandonata la grotta, si era ricoverata in una casa (§ 249).

Avviandosi per rendere omaggio a un «re», i Magi avevano preparato donativi come esigeva l’etichetta orientale. La reggia di Erode in Gerusalemme splendeva d’oro, e lungo i suoi ambulacri i bruciaprofumi esalavano vapori d’incenso e di resine odorifere. Altrettanto avveniva in quel suo suntuoso Herodium ove il suo fiero costruttore sarebbe stato sepolto fra pochi mesi e che si elevava a poca distanza da Beth-lehem (§ 12), forse più d’una volta i pastori di là, aggirandosi alle falde della sua collinetta, ne avevano intravisto i riflessi aurei delle sale ed erano stati raggiunti dalle folate di profumo che ne uscivano. Conforme al cerimoniale delle grandi corti i Magi offrirono oro, incenso e quella resina profumata che tutti i Semiti chiamavano «mor», da cui il nostro nome di «mirra». Erode stesso largheggiava in donativi con altri monarchi, specialmente se più potenti di lui: ad esempio, proprio in quei giorni, egli nel suo testamento lasciava ad Augusto un legato di ben 1000 o anche 1500 talenti (“Guerra giud.”, I, 646; II, 10; cfr. “Antichità giud.”, XVII, 323), somma altissima anche per quei tempi, che però fu rifiutata signorilmente da Augusto. I Magi certamente non poterono essere munifici quanto Erode, ma in compenso ebbero la gioia di vedere accettati i loro doni e inoltre d’accorgersi ch’erano opportunissimi: se tutti e tre i doni riconoscevano la dignità regale del neonato, specialmente l’oro arrivava come una provvidenza per restaurare le finanze di quella corte, la quale di suo non aveva né un tetto e forse neanche un mezzo siclo, dopo averne lasciati cinque interi al Tempio di Gerusalemme (§ 249).

Compiuti gli omaggi, i viaggiatori dopo qualche tempo ripartirono alla volta del loro paese, ma non passarono per Gerusalemme e Gerico, bensì forse per l’altra strada che toccando la fortezza erodiana di Masada costeggiava la spiaggia occidentale del Mar Morto. E di loro non si seppe più nulla. (1)

1) Per i razionalisti l’episodio dei Magi è, naturalmente, una leggenda: parecchi di essi poi ritrovano l’occasione del formarsi della leggenda nel viaggio che Tiridate re d’Armenia fece per venire in Italia ad ossequiare Nerone, e che è accennato da Plinio (“Natur. hist.”, XXX, 2, 16), da Tacito (“Annal.”, xv, 24, 29), da Svetonio (“Nero”, 13), e narrato ampiamente da Cassio Dione (LXIII, I, 1 segg.). Senonché fra i due viaggi non esiste la minima somiglianza, perché quello di Tiridate è fastoso, solenne, teatrale nel suo tragitto e nelle sue accoglienze in Italia (basta leggere Cassio Dione), mentre quello dei Magi è tutto all’opposto; l’unica analogia puramente verbale è, come dice Plinio, che Tiridate “magos secum adduxerat”, i quali però sono presentati in senso sfavorevole come maestri d’arti occulte. Ma, oltre a ciò, il viaggio di Tiridate avvenne nell’anno 66, e se ebbe risonanza nella Siria attraversata e nell’Italia raggiunta, non interessò affatto la Palestina; perciò, in precedenza, bisognerebbe dimostrare che il racconto dei Magi di Beth-lehem fu scritto dopo il 66, e che il viaggio di Tiridate fu argomento notissimo anche in Palestina. Finché questi punti non siano dimostrati, anche astraendo dal resto, la suddetta ipotesi si presenta come del tutto arbitraria e fantastica.


Vittorio MESSORI
L'enigma di una stella su Betlemme
tratto da: Vittorio MESSORI, Ipotesi su Gesù, Sei, Torino 1979, p. 111-113.

Viene ancora dall'archeologia un'altra serie di strane testimonianze. Noi oggi sappiamo con sicurezza che la più celebre astrologia del mondo antico, quella babilonese, non soltanto era anch'essa in attesa del Messia dalla Palestina. Ma ne aveva previsto la data con una precisione ancor maggiore di quella degli esseni. Ecco qui di seguito la vicenda: libero ciascuno di trarne le conclusioni che gli pare.

Tutto parte dalla stella (il testo non parla mai di cometa, come molti credono) che avrebbe brillato nel cielo di Betlemme alla nascita di Gesù e dal conseguente arrivo di certi magi dall'Oriente. Così, almeno, quanto si racconta nel vangelo di Matteo.

Non si è naturalmente raggiunta la certezza che le cose si siano davvero svolte come raccontato da Matteo, né si giungerà mai a questa sicurezza: è però certo che l'ipotesi che si tratti di un racconto simbolico deve fare i conti con una serie di scoperte effettuate nell'arco degli ultimi tre secoli.

Pare intanto provato ormai scientificamente che gli astrologi babilonesi (quasi certamente i magi di Matteo) attendevano la nascita del «dominatore del mondo» a partire dall'anno 7 a.C. Questa data, con l'anno 6 a.C., è tra quelle che gli studiosi danno come più sicure per la nascita di Gesù. Il monaco Dionigi il Piccolo, infatti, calcolando nel 533 l'inizio della nuova era, si sbagliò e posticipò di circa 6 anni la data della Natività.

In questa luce, acquistano nuovo suono i due versetti del secondo capitolo di Matteo: «Nato Gesù in Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco dei magi arrivare dall'oriente a Gerusalemme, dicendo: "Dov'è nato il re dei Giudei? Abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti ad adorarlo"».

Ecco le tappe che avrebbero portato a chiarire il perché dell'arrivo e della domanda dei magi. Una vicenda che ha quasi il sapore di un «giallo».

Nel dicembre del 1603 il celebre Keplero, uno dei padri dell'astronomia moderna, osserva da Praga la luminosissima congiunzione (l'avvicinamento, cioè) di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci. Keplero, con certi suoi calcoli, stabilisce che lo stesso fenomeno (che provoca una luce intensa e vistosa nel cielo stellato) deve essersi verificato anche nel 7 a.C. Lo stesso astronomo scopre poi un antico commentario alla Scrittura del rabbino Abarbanel che ricorda come, secondo una credenza degli ebrei, il Messia sarebbe apparso proprio quando, nella costellazione dei Pesci, Giove e Saturno avessero unito la loro luce.

Pochi diedero qualche peso a queste scoperte di Keplero: prima di tutto perché la critica non aveva ancora stabilito con certezza che Gesù era nato prima della data tradizionale. Quel 7 a.C., dunque, non «impressionava». E poi anche perché l'astronomo univa troppo volentieri ai risultati scientifici le divagazioni mistiche.

Oltre due secoli dopo, lo studioso danese Münter scopre e decifra un commentario ebraico medievale al libro di Daniele, proprio quello delle «settanta settimane». Münter prova con quell'antico testo che ancora nel Medio Evo per alcuni dotti giudei la congiunzione Giove-Saturno nella costellazione dei Pesci era uno dei «segni» che dovevano accompagnare la nascita del Messia. Si ha così una riprova della credenza giudaica segnalata da Keplero che, con le «date» di Giacobbe e di Daniele, può avere alimentato l'attesa ebraica del primo secolo.

Nel 1902 è pubblicata la cosiddetta Tavola planetaria, conservata ora a Berlino: è un papiro egiziano che riporta con esattezza i moti dei pianeti dal 17 a.C. al 10 d.C. I calcoli di Keplero (già confermati del resto dagli astronomi moderni) trovano una conferma ulteriore, basata addirittura sull'osservazione diretta degli studiosi egiziani che avevano compilato la «tavola». Nel 7 a.C. si era appunto verificata la congiunzione Giove-Saturno ed era stata visibilissima e luminosissima su tutto il Mediterraneo.

Infine, nel 1925 è pubblicato il Calendario stellare di Sippar. E' una tavoletta in terracotta con scrittura cuneiforme proveniente appunto dall'antica città di Sippar, sull'Eufrate, sede di un'importante scuola di astrologia babilonese. Nel «calendario» sono riportati tutti i movimenti e le congiunzioni celesti proprio del 7 a.C. Perché quell'anno? Perché, secondo gli astronomi babilonesi, nel 7 a.C. la congiunzione di Giove con Saturno nel segno dei Pesci doveva verificarsi per ben tre volte: il 29 maggio, il 1° ottobre e il 5 dicembre. Da notare che quella congiunzione si verifica soltanto ogni 794 anni e per una volta sola: nel 7 a.C., invece, si ebbe per tre volte. Anche questo calcolo degli antichissimi esperti di Sippar fu trovato esatto dagli astronomi contemporanei.

Gli archeologi hanno infine decifrato la simbologia degli astrologi babilonesi. Ecco i loro risultati: Giove, per quegli antichi indovini, era il pianeta dei dominatori del mondo. Saturno il pianeta protettore d'Israele. La costellazione dei Pesci era considerata il segno della «Fine dei Tempi», dell'inizio cioè dell'era messianica.

Dunque, potrebbe essere qualcosa di più di un mito il racconto di Matteo dell'arrivo dall'Oriente a Gerusalemme di sapienti, di magi, che chiedono «Dov'è nato il re dei giudei?».

E' ormai certo, infatti, che tra il Tigri e l'Eufrate non solo si aspettava (come in tutto l'Oriente) un Messia che doveva giungere da Israele. Ma che si era pure stabilito con stupefacente sicurezza che doveva nascere in un tempo determinato.

Quel tempo in cui, per i cristiani, il «dominatore del mondo» è veramente apparso.


Giuseppe RICCIOTTI
La stella dei Magi
tratto da: Giuseppe RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, Mondadori, Milano 1999, § 253.

I Magi venuti a Gerusalemme avevano dunque visto una stella (...) in Oriente, avevano compreso ch'era la stella del «re dei Giudei», e perciò si erano messi in viaggio dall'Oriente per venire ad adorarlo.

Riguardo alla stella abbiamo già espresso la nostra opinione secondo cui Matteo intende presentarla come un fatto miracoloso, da non potersi identificare con un fenomeno naturale (§ 174): poco appresso egli dirà che, usciti i Magi da Gerusalemme, la stella li precederà a guisa di fiaccola indicatrice della strada e si fermerà proprio sul posto dove stava il bambino ricercato (Matteo, 2, 9). Se del re Mitridate si narrava che alla sua nascita e all’inizio del suo regno era spuntata una cometa (Giustino, «Hist.», XXXVII, 2), e altrettanto si affermava di Augusto per l'inizio del suo impero (Servio, in «Eneide», X, 272), nessuno però aveva mai detto che tali comete avessero indicato ad uomini un dato cammino passo passo, aspettandoli anche nelle soste, e poi rimovendosi, e infine fermandosi definitivamente sopra alla mèta. Stabilito pertanto questo carattere miracoloso, come si spiega che i Magi, veduta la stella, la riconoscono come quella del «re dei Giudei»? Che sapevano in precedenza essi, nella lontana Persia, di un re dei Giudei aspettato come salvatore in Palestina?

Il riconoscimento della stella da parte dei Magi è, nella narrazione di Matteo, strettamente legato col carattere della stella: la miracolosa stella miracolosamente si fa riconoscere da essi come segno del neonato. Ma riguardo alle predisposizioni culturali dei Magi, e alla loro possibile conoscenza dell'aspettativa messianica dei Giudei, siamo oggi informati da recenti studi meglio che per l’addietro, e possiamo affermare che in Persia si aspettava per tradizione interna una specie di salvatore e inoltre si sapeva che una analoga aspettativa esisteva in Palestina. Trattiamo di ciò in nota come di questione troppo lunga per discutersi qui, ma troppo importante per esser tralasciata. (1)

Matteo non dice quanti fossero i Magi venuti; la tradizione popolare tardiva li credette più o meno numerosi, da un minimo di due a un massimo di una dozzina, ma con preferenza del numero tre suggerito certamente dai tre doni ch'essi offrirono: di questi tre, già da prima del secolo IX, si seppero anche i nomi, Gaspare, Melchiore e Baldassare.



1) Il sistema teologico dei «Magi», quale risulta dall’insieme dell’«Avesta», è imperniato sul dualismo e sull’eterna lotta fra il Bene e il Male, fra Ahura-Madzhāh il «Saggio Signore» e Angra-Mainyu lo spirito del male: della quale lotta è assai importante per il nostro argomento un tratto particolare, che implica la caratteristica idea del «saushyant» - il «soccorritore». è un’idea che si trova enunciata già nelle parti più recenti e nella letteratura medio-persiana; senonché, mentre da principio il «soccorritore» (uno o più) è un personaggio reale, storico, presente, più tardi la missione del «soccorritore» è assegnata a tre futuri personaggi che nasceranno dal seme di Zarathushtra e la cui attività è inquadrata a periodi ricorrenti; fra i tre il più importante è l’ultimo, chiamato per eccellenza il «soccorritore». Alla base di tale idea sta un concetto ottimista, perché la lotta fra il Bene e il Male terminerà col trionfo del primo, grazie all’intervento del «soccorritore». Nella concezione iranica, le vicende cosmiche ed umane si svolgono in un periodo di 12 millenni, divisi in quattro gruppi di 3.000 anni ciascuno. Nei primi due gruppi tutto è in pace; ma nel terzo gruppo comincia la lotta del Male contro il Bene (periodo mitico), e nel quarto gruppo appare Zarathushtra (periodo storico) che annunzia la dottrina di Ahura-Mazdāh, ed egli stesso è il primo «soccorritore» coadiuvato da altri «soccorritori», cioè dai seguaci della stessa dottrina. È da notare, tuttavia, che il termine «soccorritore», «saushyant», è un participio futuro. Ora, nell’«Avesta» recente, questa particolarità temporale fu ampiamente sviluppata, sotto l’influenza di altri concetti, e il termine fu applicato specialmente a un ben determinato personaggio escatologico, su cui insieme si trasportarono precedenti lineamenti mitici. Questo personaggio è «Astvat-ereta», progenie di Zarathushtra, la cui missione è già accennata nel suo nome che significa «verità incarnata»; egli sarà il «saushyant» per eccellenza, perché con la sua opera assicurerà il trionfo finale del Bene sul Male e ricondurrà l'umanità alla sua primitiva condizione felice. Alcuni testi persiani successivi, dopo aver nominato altri due a soccorritori» discendenti di Zarathushtra, presentano il terzo ed ultimo, che sarà egualmente della stirpe di Zarathushtra ma partorito da una fanciulla «senza che alcun uomo le si avvicini» (Teodoro bar Konai). Giunto che sia quest’ultimo «soccorritore», avverrà la resurrezione dei morti, il giudizio generale dell’umanità e la restituzione del regno assoluto di Ahura-Mazdah.

Siffatti concetti, noti al di fuori anche ai cristiani (specialmente agli scrittori siri geograficamente confinanti con i Persiani) fecero credere ad una profezia di Zarathushtra preannunziante il Messia ebraico. Ma questo ravvicinamento delle due figure, del «saushyant» persiano e del Messia ebraico, era già stato iniziato in precedenza da scrittori giudei, perché fin dai tempi di Ciro il Grande (morto nel 529 av. Cr.) il giudaismo era stato in contatto diretto con i Persiani. I cosiddetti «Oracoli di Ystaspe», un libro di cui ci sono pervenuti solo scarsi frammenti, mostrano chiaramente la tendenza ad intrecciare concetti della Bibbia con idee persiane: la quale tendenza è dovuta, come sembra più probabile, ad uno scrittore giudaico che voleva gettare un ponte di passaggio fra il mondo concettuale giudaico e quello persiano.

Storicamente, dunque, è in tutto verosimile che verso l’inizio dell’Era cristiana fosse diffusa nella casta dei magi in Persia la conoscenza dell’aspettativa giudaica di un Re-Messia: che questa aspettativa straniera fosse identificata con l’aspettativa persiana di un «saushyant» «soccorritore»: e che taluni dei magi s’interessassero in una maniera qualsiasi della comparsa di questo gran personaggio. (Per ulteriori notizie e rimandi agli antichi testi valgono gli scritti di G. Messina, citati in fondo alla nota precedente.)


Franco CARDINI
Magi da dove venite?
tratto da: Avvenire, 6.1.1999.

L’unico a parlarne è Matteo. Ecco dove ci portano le tracce dei re che andarono ad adorare il Salvatore
Per la tradizione si chiamavano Melchiorre, Gaspare e Baldassarre. E uno era nero. Li guidò una stella dalla lunga coda luminosa



Chi erano, davvero, i magi? E perché re? È logico rifarsi al testo greco (l’aramaico è andato perduto) di Matteo (2, 1-12): il solo dei “sinottici” a narrarci come, essendo nato Gesù in Betlemme di Giudea al tempo di re Erode III il Grande, giunsero là alcuni «magusàioi» venuti “dall’Oriente” in cerca del “re dei giudei”, del quale avevano scorto “la stella”. Erode, convocati i sacerdoti e i saggi d’Israele, chiese loro dove sarebbe nato il Messia: essi risposero che ciò sarebbe avvenuto in Betlemme, com’era stato annunziato dal profeta Michea. Il re ricevette allora segretamente i «magusàioi» e accuratamente li interrogò sulla stella prima di congedarli raccomandando loro di fargli sapere dove fosse il Bambino in modo che anch’egli potesse recarsi ad adorarLo. I «magusàioi» ripartirono dunque, seguendo la stella che li precedette sino a fermarsi sul luogo dov’era il Bambino: dopo averlo adorato aprirono i loro scrigni, e Gli offrirono oro, incenso e mirra. Quindi, avvisati in sogno di non tornare da Erode, rientrarono al loro paese seguendo un'altra strada.

Quei «magusàioi» potevano essere gli indovini e astrologhi, di solito “caldei”, che riempivano allora l’Oriente; ma resta il dubbio che si trattasse di veri e propri magi iranici, che negli astri scrutavano la venuta di un futuro «Saoshyant», il Difensore-Salvatore-Vincitore periodicamente atteso nel mazdaismo.

Siamo abituati a chiamare “re” i “magi”; a conoscere i loro nomi (Melchiorre, Gaspare, Baldassarre); a ritenere tradizionalmente che almeno uno di loro sia negro; a vederli seguire una cometa dalla lunga coda luminosa. Nulla di tutto ciò nel testo di Matteo: i suoi «magusàioi» provengono genericamente “dall’Oriente”, non se ne conoscono né il nome né il numero, a guidarli è una stella di cui nulla si dice.

Da dove proviene l’immagine tradizionale dei magi? Da dove giungono i molti elementi non riconoscibili nel testo evangelico e affermati viceversa attraverso una lunga tradizione? E perché mai il racconto dei «magusàioi» è solo in Matteo; forse perché è solo un’aggiunta nel testo greco di Matteo, che non c’era in quello aramaico (scomparso) ch’era quello utilizzato da Marco, da cui passò a Luca? O forse si trattò di un episodio “censurato” dagli altri evangelisti in quanto considerato ambiguo e compromettente?

In effetti, un minimo d’imbarazzo dinanzi ai “magi” la tradizione cristiana l’ha sempre mantenuto. I magi figurano anche altrove che non in Matteo, nel Nuovo Testamento, e sono presentati in una luce - giusto e sbagliato che ciò sia - non positiva. Appartiene a tale categoria anche quel Simone che, negli Atti degli Apostoli, propone a Pietro di acquistare per mezzo di danaro la forza che permetteva all’Apostolo di compiere miracoli. E, da “Simon mago” (come l’ha chiamato Dante), si definiscono “simoniaci” tutti coloro che hanno traffico venale di valori spirituali.

I «magusàioi», al tempo di Gesù, erano indovini-astrologi d’origine genericamente “caldea”, quindi siro-mesopotamica: e, per la Giudea, la caldea era senza dubbio a est: che il testo di Matteo sostenga quindi che essi venivano “da Oriente” è un pò banale e generico ma non errato, per quanto vada sottolineato che, all’epoca e per uno scritto vicino-orientale, quel termine “Oriente” non aveva nulla delle risonanze fatidiche e misteriose che può assumere alle orecchie di noialtri occidentali moderni.

Ma la parola «magusàios» era termine semicorrotto, passato dal persiano «mogû» o «magû» attraverso l’aramaico «magusha» a indicare quei semiciarlatani che in qualche modo si rifacevano all’antica scienza dei «magû», la tribù meda che - un pò come quella di Levi tra il popolo di Israele - deteneva il monopolio di rituali e pratiche a carattere magico-astrologico-divinatorio nel mondo persiano mazdaico. Ma una più restrittiva interpretazione propone che già durante l’impero persiano achemenide i «magi» - chiamiamoli d’ora in poi senz’altro così -, colpiti nel VI secolo a.C. da una condanna del Gran Re Serse in quanto esponenti del culto «daivico» (cioè del sistema mitico-religioso prezoroastriano), si sarebbero sparsi per la Caldea degradando al livello di ciarlataneria e di stregoneria la loro scienza originariamente sacrale. Da qui la fama ambigua di quella che poi - dal loro nome - i greci hanno chiamato «maghèi» e i latini «magia»: per quanto il corretto etimo di tale parola si sia perduto sin dall’antichità: lo stesso sant’Agostino, al riguardo, non aveva per nulla le idee chiare.

Eppure, fra I e II secolo d.C., Plutarco era stato molto esplicito. Nel suo «De Iside et Osiride» aveva parlato della concezione dualistica propria del mazdaismo persiano e dei riti dai magi officiati in onore dei due grandi Principi della Luce (Ahura Mazda) e delle Tenebre (Angra Mainyu): per la verità anch’egli lasciava irrisolto il grande tema dell’effettivo rapporto tra magi e ortodossia zarathustriana. Oggi si tende a pensare che, in realtà - a parte gli abusi e le degenerazioni in senso occultistico o ciarlatanesco da parte di qualche esponente autentico o sedicente del loro gruppo -, i magi si proponessero come una casta sacerdotale-sapienzale all’interno della quale, con i segreti del rito e dell’osservazione degli astri, si custodiva il nucleo d’un messaggio in grado di superare il dualismo mazdaico riconducendo Luce e Tenebre a un originario Principio superiore, «Zurvan Akarakana» (il “Tempo Increato”), signore di tutte le cose. L’idea del tempo che ciclicamente si rinnova conduceva il mazdaismo detto appunto “zurvanita” alla costante attesa messianica di un “soccorritore divino” il ruolo del quale sarebbe stato quello di aprire ciascuna era di rinnovamento e di rigenerazione dopo la fase di decadenza che l’aveva preceduta. In tal senso, il mazdaismo si collega all’attesa messianica che, in forme diverse, si riscontra altresì nell’islam, soprattutto in quello sciita e ismailita), ma anche nel mithraismo, nel buddismo, nell’induismo soprattutto vishnuista (si pensi alla dottrina dei successivi avatara, le discese di Vishnu nel mondo sotto forme sempre diverse).

Nel mazdaismo si attendevano tre successive, arcane figure di salvatori e rigeneratori del tempo a venire: l’ultimo di essi, il Saoshyant (“Soccorritore”), sarebbe nato da una Vergine discendente di Zarathustra e avrebbe condotto con sé la resurrezione universale e l’immortalità degli esseri umani. Molte leggende accompagnavano il mito del “Soccorritore”: una stella lo avrebbe annunziato, sarebbe stato stella egli stesso, sarebbe scaturito da una roccia come una scintilla di fuoco che sprizza dalla pietra.

Sappiamo peraltro da Matteo che i magi portarono con loro dei doni. Ciò introduce una variante nell’etimologia della parola che li designa. Difatti, nelle Gatha (i “Canti”, la parte più antica dell'Avesta, la Scrittura sacra mazdaica) il termine maga indica propriamente il “dono”, sia nel senso propriamente sacerdotale e sacrificale di offerta, sia in quello sapienziale di sapere, di conoscenza divina. E il sacerdote, in quanto “partecipe del dono”, e magavan. L’oro, l’incenso e la mirra recati dai magi a Gesù - tre tipi di dono, che stanno alla base forse del numero dei magi stessi, più tardi fissato dalla tradizione - rinvia nella logica testuale di Matteo (una fittissima trama di riferimenti veterotestamentari, volta a comprovare come la nascita di Betlemme adempisse puntualmente le Scritture) agli arabi, ai sabei, ai “re delle isole” citati nel Salmo 72: si tratta di prodotti commerciati abitualmente sulla cosiddetta “Via dell’Incenso”, che dall’Oceano Indiano risaliva la penisola arabica recando al mondo mediterraneo le merci dell’Asia orientale, del Corno d’Africa, dell’Arabia felix.

Per la tradizione esegetica cristiana, i magi sono essenzialmente la «primitia gentium», i primi fra i pagani ad aver riconosciuto e adorato il Signore. Per questo il loro culto fu tanto fortunato, diffuso e radicato tra i convertiti d’origine non ebraica. Ma i testi scritturali canonici fornivano nei loro confronti ben poche indicazioni. Da dove venivano, in realtà? Quanto tempo era durato il loro viaggio? Con che mezzi erano giunti? Che itinerario avevano seguito nell’andata, quale scelsero per il ritorno? Quanti erano? Come si chiamavano?

A fornire, magari in modo contrastante e ridondante, queste e altre informazioni provvide una lunga serie di testi evangelici apocrifi: il Protovangelo di Giacomo (forse anteriore al V secolo) e il Vangelo dello Pseudo-Matteo (un testo aramaico derivante dal precendente e datato al V-VI secolo), il “Vangelo arabo-siriaco dell'Infanzia” (metà VI secolo), il “Vangelo armeno dell’Infanzia” - che pone la nascita di Gesù al 6 gennaio e l’arrivo dei magi al 9 e che fissa a tre il numero dei magi, li chiama per nome e li definisce come re (Melkon re dei persiani, Gaspar re degli indiani, Balthasar re degli arabi).

I temi relativi alla profezia di Zarathustra relativa alla nascita del Soccorritore e alla sua attribuzione a Gesù furono a loro volta sviluppati in testi profetico-esegetici d’origine soprattutto siriaca come il «Liber nomine Seth» (antico: forse del III secolo), il «Libro della Caverna dei Tesori» (secc. V-VI), la «Cronaca pseudoisidoriana» detta anche di «Zuqnin» (sec. VIII) e il «Liber scholiorum» siriaco di Teodoro Bar Konai (VIII-IX secolo). Tali testi furono tutti o in parte, a differenti riprese, tradotti anche in latino: un rifacimento di alcuni di essi è da considerarsi l’«Opus imperfectum in Matthaeum», una cui redazione - originaria? - in greco potrebbe appartenere al IV secolo, da cui sembra dipenderne una latina redatta in ambiente ariano africano tra VI e VII.

Da questi testi ha finito con l’affermarsi, anche grazie al soccorso d’una tenace e splendida tradizione iconica - si pensi alla teoria dei magi nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo di Ravenna -, la nostra tradizione, sostenuta da un acceso dibattito esegetico che dei “tre santi re” ha fatto di volta in volta il simbolo delle tre “razze primigenie” della terra scaturite dai tre figli di Noè, dei tre continenti della vecchia ecumène, dei tre stati del mondo (i sacerdoti, i guerrieri, i produttori), dei tre momenti dell’esistenza umana (la giovinezza, la maturità, la vecchiaia), dei tre aspetti del tempo (il passato, il presente, il futuro).

Ma a dir la verità, il sospetto che nasce dinanzi a un esame della più bella fiaba del mondo è che la si sia fino a oggi letta in modo unilateralmente etnocentrico. Da un lato, essa pare davvero presentare il Cristo come punto d’arrivo e d’incontro, momento perfetto, definitivo di tutte le tradizioni e di tutte le religioni. Dall’altro, però, essa lo collega strettamente a Zarathustra, a Mithra, indirettamente anche a Vishnu e a Buddha in un modo tale da farci chiedere se qualcosa - nella genesi dei sistemi mitico-religiosi tra V secolo a.C. e VII d.C. (da Buddha e da Zarathustra fino all’Imam nascosto degli ismailiti) - per caso non ci sfugga. Qualcosa di profondo e di fondamentale.

L’«Opus imperfectum in Matthaeum» parla di un «Mons Victorialis» al quale ogni mese ascendevano i magi (in quel testo in numero di dodici: come i mesi dell’anno e gli apostoli) per scrutare le stelle. Lì avrebbero avvistato l’astro all’interno del quale era un Fanciullo sormontato da una Croce. Infiniti testi iconici occidentali ripetono quest’evento. Ma nel Seistan, tra Iran e Afghanistan, ogni anno ancor oggi i “parsi” - gli ultimi eredi dei mazdei - si riuniscono ai piedi del monte Usida (il Kuh-i-Khwga, il “Monte del Signore” dell’«Avesta») là dove sta il lago Hamun, dove secondo il XIX «yast» avestico sarebbe stato sparso il seme del profeta Zarathustra. I parsi celebrano la loro riunione al principio dell’equinozio di primavera: che equivale al tempo in cui, secondo la tradizione cristiana, la Vergine ha concepito il Cristo. Usida, «Mons Victorialis»: nell’Avesta, il Soccorritore è chiamato anche «il Vittorioso».


Vanni DERONDA
Tre saggi, il bue e l'asino
tratto da: Avvenire, 6.1.1999.

Su un sarcofago del IV secolo in Sicilia compare l'immagine del Presepe


Sono in tre, avanzano in processione, portano doni al Bambino e indossano il berretto frigio. Non c'è dubbio, sono loro: i Magi. La loro immagine - accompagnata a quella che potrebbe essere una delle primissime raffigurazioni della Sacra Famiglia nella grotta di Betlemme - appare per ben due volte sulle pareti del sarcofago di Adelfia, il capolavoro dell'arte paleocristiana in Sicilia che in questi giorni è al centro di «Et lux fuit», la bella mostra documentaria allestita nella Cappella Sveva dell'Arcivescovado di Siracusa [...]

Scoperto nel luglio del 1872 nelle catacombe di San Giovanni a Siracusa, il prezioso sarcofago in marmo del IV secolo conservava i corpi del «comites» Valerio e della moglie Adelfia. Si tratta del più importante reperto di archeologia cristiana in terra siciliana: una vera e propria cattedrale in miniatura, sulle cui pareti sono raffigurati gli episodi salienti della Storia della salvezza. La stessa Adelfia - oltre ad apparire nel ritratto centrale in compagnia dello sposo - viene ritratta nell'atto di attingere alle fonti della salvezza e mentre si presenta davanti al trono di Cristo, che in questa immagine assume anche il significato simbolico della Sapienza del Padre.
Scorrono le sequenze del sacrificio di Isacco e della moltiplicazione dei pani e dei pesci, dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme e della consegna delle Tavole a Mosè, del miracolo delle nozze di Cana e del canto dei giovani nella fornace, in una continua, fitta tramatura fra episodi dell'Antico e del Nuovo Testamento. Una «lectio» per immagini che già anticipa, per molti aspetti, l'interpretazione figurale (il Nuovo Testamento come inveramento dell'Antico, che già ne annuncia le verità) che verrà poi sviluppata nel corso del Medioevo.

"La scena dell'adorazione dei Magi ricorre due volte - osserva il professor Claudio Calvano, che ha partecipato all'allestimento della mostra traducendo, tra l'altro, alcuni testi di Prudenzio e Giovenco, poeti cristiani latini contemporanei alla costruzione del sarcofago -. Sul coperchio vediamo una scena in cui i tre saggi venuti dall'Oriente, caratterizzati dal cappello frigio, adorano un bambino avvolto in fasce e deposto su una mangiatoia. Uno di loro tende un braccio per indicare una stella con sette raggi, mentre reca un piatto con la corona d'oro. Gli altri due portano i grani d'incenso e le fiale della mirra. Ritroviamo la scena sotto il clipeo, con figure di proporzioni ridotte per mancanza di spazio. La Madonna appare adesso seduta su una cattedra e tiene in braccio il Bambino, che si protende nell'atto di ricevere la corona d'oro gemmata offerta dal primo dei tre Magi".

In entrambi i casi a fianco della Vergine appare una figura maschile che potrebbe rappresentare san Giuseppe oppure uno dei pastori giunti per l'adorazione. La stessa incertezza riguarda, del resto, le scene analoghe che incontriamo, per esempio, nel cosiddetto «sarcofago della Natività» conservato presso il museo di Arles (un manufatto di datazione incerta, ma comunque coevo rispetto all'opera in mostra a Siracusa) e nella lastra del loculo di Severa, una lapide del 330 circa che fa parte della dotazione dei Musei vaticani. Se in quest'ultimo caso i personaggi sono disposti in modo quasi identico a quello del sarcofago di Adelfia, il monumento di Arles dispone la scena su due piani, relegando i Magi in basso rispetto alla vignetta della Natività, nella quale compaiono altri due «personaggi» destinati ad avere grande fortuna nei successivi presepi: il bue e l'asino.

Spiega Calvano: "La presenza di questi animali richiama la profezia di Abacuc: «Il Signore sarà riconosciuto in mezzo a due animali». Anche Isaia mette in bocca al Signore il seguente lamento: «Il bue conosce il suo proprietario e l'asino il presepio del suo padrone, ma Israele non mi conosce e il mio popolo non mi intende». I Padri della Chiesa fanno riferimento in genere al secondo profeta. Il bue e l'asino non sono soltanto un indice della modestia del Creatore che si fa uomo, ma racchiude anche un'allusione al simbolismo teologico animale".



La Stella di Betlemme

I. La stella di Betlemme e i Magi nella Sacra Scrittura - II. Rappresentazioni ed interpretazioni della stella nella tradizione - III. Alcune associazioni con fenomeni di natura astronomica - IV. La “stella” di Betlemme come fenomeno di congiunzioni planetarie - V. La data di nascita di Gesù di Nazaret - VI. La stella di Betlemme ed il lavoro del ricercatore nell’orizzonte del rapporto fra scienza e fede.

Nelle rappresentazioni artistiche tradizionali della Natività di Gesù di Nazaret compare un riferimento di natura astronomica, legato alle apparenze del cielo, comunemente indicato col nome «stella di Betlemme». All’origine di tale richiamo vi è un motivo di carattere biblico, essenzialmente il testo del Vangelo secondo Matteo (cfr. Mt 2,1-11). Il modo più diffuso di riferirsi a questa “stella”, specie nel linguaggio comune, è quello di chiamarla “stella cometa”. È con le apparenze di una cometa, appunto, che la stella di Betlemme viene ritratta nelle opere artistiche più famose e riprodotta nella maggior parte dei presepi, artistici o familiari, conosciuti dalla tradizione cristiana.

Accanto a commenti di natura spirituale e teologica — alcuni fra i quali hanno semplicemente qualificato la stella come un “evento miracoloso” — nel corso della storia non sono mancate domande sulla reale possibilità e sulla natura di un fenomeno celeste come quello descritto dal Vangelo. Quest’ultimo interrogativo possiede, in linea generale, dei riflessi interdisciplinari, in quanto uno studio su cosa abbia dato origine al fenomeno visto dai Magi è in fondo ancora un’indagine sui rapporti tra Rivelazione biblica e mondo naturale. In ambito teologico, una tale indagine riguarderebbe la ricerca di quei significati, allegorici o simbolici, legati alla stella, che l’ermeneutica biblica può scoprire e valutare alla luce della tradizione teologica ed ecclesiale. In ambito scientifico, l’aspetto interdisciplinare concerne invece l’eventualità di ricercare se e come la stella di Betlemme possa venire associata ad un determinato fenomeno astronomico realmente avvenuto: fra le possibili ricadute positive di tale riconoscimento vi sarebbe anche quella di fornire utili elementi — senza dubbio fra i più decisivi — alla datazione storica della nascita di Gesù (cfr. Firpo, 1983). A testimonianza dell’interesse che la stella di Betlemme ha suscitato e continua a suscitare anche fra gli scienziati depone ormai una certa bibliografia, sotto forma di molteplici articoli ed alcune qualificate monografie (cfr. Hughes, 1979; Martin, 1996, Teres, 2000). Minore, ma non trascurabile, l’attenzione rivoltale dalla teologia e dall’esegesi (cfr. Holzmeister, 1942; Rosenberg, 1972; Quéré e Léna, 1996).

I. La stella di Betlemme e i Magi nella Sacra Scrittura

Il Vangelo di Matteo è l’unica fonte del NT che parla di questo oggetto, indicandolo col nome di «stella» (gr. astér). Riportiamo qui il testo completo: «Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella (tòn astéra en têi anatolêi) e siamo venuti per adorarlo”. All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele”. Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: “Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”. Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella (o astér), che avevano visto nel suo sorgere (en têi anatolêi), li precedeva (proêghen autoús), finché giunse e si fermò sopra (estáthe epáno) il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese […]. Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi» (Mt 2,1-12.16)

Come è noto, il testo del Vangelo di Matteo a noi trasmesso è quello greco. Su un possibile originale aramaico si fanno solamente supposizioni. Il problema dell’interpretazione del testo va quindi fatto partire dalle espressioni greche. Le parole en têi anatolêi dei vv. 2 e 9 sono state tradotte spesso in passato con la forma «in oriente», facendo sembrare che si riferissero al “luogo” in cui i Magi si trovavano quando videro la stella. La traduzione italiana ufficiale contemporanea riporta più correttamente: «nel suo sorgere». Infatti, l’espressione è usata per indicare un oggetto stellare il quale, seguendo la rotazione della volta celeste dovuta alla rotazione della terra, “sorge”; si tratterebbe, secondo alcuni, precisamente del suo sorgere in opposizione al sole: vorrebbe dire, cioè, che mentre il sole tramonta, quell’oggetto sorge. Vale la pena subito notare che questa prima e più semplice interpretazione porterebbe a considerare la menzione o l’apparizione della stella come un riferimento di natura simbolica, ma non come una vera e propria indicazione di direzione: se i Magi venivano «da oriente», come si dice infatti al v. 1, essi non potevano avere, come guida materiale verso occidente (Gerusalemme), un oggetto che, almeno in quel momento dell’anno, appariva a levante. Non conosciamo quale sia stata la fonte di Matteo riguardo l’episodio dei Magi. Se alla sua base vi fosse una narrazione risalente alla madre di Gesù, sarebbe forse più plausibile non attribuire un eccessivo peso tecnico ai termini utilizzati.

Nell’AT, il Libro dei Numeri riporta la seguente affermazione: «Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele» (Nm 24,17). Sono parole di Balaam, indovino o mago il quale, chiamato dal re moabita Balac a maledire Israele, invece lo benedice e ne profetizza un futuro radioso perché riceve una rivelazione divina al riguardo. Le interpretazioni di questo testo spaziano dall’identificare la stella con il re Davide (trae qui origine il simbolo del popolo di Israele noto come «stella di Davide»), fino a vederne un anticipo della manifestazione della stella di Betlemme. La stella che spunta da Giacobbe potrebbe essere però lo stesso Messia: così era già letto da alcuni commentatori ebrei dei primi secoli avanti Cristo.

La profezia riferita in Mt 2,6 dai sacerdoti interpellati da Erode è quella del Libro di Michea: «E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele» (Mi 5,1). Si può notare la differenza con la trascrizione da parte di Matteo che capovolge l’affermazione «così piccola» in «non sei davvero il più piccolo»: ciò non cambia il senso, ma piuttosto lo rafforza. È una delle numerose dimostrazioni dell’uso delle citazioni dell’AT, tanto frequenti in Matteo, alla luce degli eventi accaduti nel NT. Contrariamente al nostro atteggiamento moderno, all’autore sacro non interessava la perfetta corrispondenza testuale, ma il senso e il simbolismo delle profezie. Gli altri evangelisti ( Vangeli) non parlano dei Magi, né della stella. Per Marco e Giovanni non c’è da stupirsi in quanto la loro narrazione inizia con la vita pubblica di Gesù, mentre Luca, molto dettagliato sull’infanzia, curiosamente non cita nulla di questo episodio. Forse Luca conosceva il Vangelo di Matteo e non volle ripetere quanto vi si trovava già scritto. C’è anche chi attribuisce a Luca una certa prudenza nell’evitare di parlar bene dei persiani (popolo di provenienza dei Magi), perché nemici di Roma.

Secondo Erodoto (V sec. a.C.), i Magi (gr. mágoi) sarebbero stati una casta dei Medi, appartenenti alla classe dotta dei sacerdoti, studiosi dei libri sacri e dediti all’osservazione del cielo (cfr. Storie, lib. I, 101), ma la ricerca storiografica più recente ne colloca l’origine più probabilmente a Babilonia e in Persia, piuttosto che nella Media. Nell’Antico e Nuovo Testamento con quel nome si indicano persone dedite alla magia, seppur ampiamente intesa. Matteo non parla di “re”, né sono definiti così dai Padri della Chiesa più antichi; eppure già Tertulliano all’inizio del 200 scrive che i Magi in Oriente erano considerati re. La spiegazione può essere nel desiderio di applicare profezie come quella di Isaia: «Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere» (Is 60,3), oppure del Salmo 68: «Per il tuo tempio, in Gerusalemme, a te i re porteranno doni» (Sal 68,30). Il fatto che l’evangelista Matteo non citi queste e altre profezie, pur così opportune e applicabili agli eventi narrati, potrebbe essere un indizio della storicità del racconto dei Magi: sapendo che non erano re, non ritiene che queste citazioni siano pertinenti alla loro adorazione del Bambino. Se avesse avuto come obiettivo solamente il compimento di profezie, non avrebbe perso l’occasione di utilizzare anche queste. Presto, però, nella cristianità si cominciò a chiamare Re i Magi, anche per indicare la loro importanza e, con la loro adorazione, la sottomissione dei potenti della terra al Dio fatto Bambino.

I personaggi in questione erano quasi certamente di religione zoroastriana e cultori dell’osservazione del cielo, assai probabilmente astrologi, nel senso che questo termine indicava all’epoca, nella sua accezione assiro-babilonese e non ellenica. Ricordiamo che nell’originale tradizione mesopotamica le apparenze del cielo venivano viste come un “riflesso” e a volte una “anticipazione” di quanto avveniva sulla terra, ma senza implicazioni di carattere causale ed astrolatrico ( Cielo, II.1). Dei Magi non se ne conosce il numero: la tradizione cristiana ne rappresenta due in un affresco del IV secolo nelle catacombe dei santi Marcellino e Pietro a Roma, tre o quattro in altre note rappresentazioni catacombali, ma anche fino a quattordici. Sui loro nomi, a partire dal VII secolo si trovano fonti a favore di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, come riferisce il Venerabile Beda (673-735), che specifica inoltre come il terzo fosse anche negro. I loro presunti resti furono trovati in Persia, portati a Costantinopoli da s. Elena o dall’imperatore Zenone, quindi trasferiti a Milano nel V secolo e poi portati definitivamente a Colonia nel XII secolo, nel cui Duomo esiste tuttora un sepolcro oggetto di grande venerazione. Il discorso rivolto nel 1980 da Giovanni Paolo II a scienziati ed universitari riuniti proprio in quella cattedrale a Colonia ne fa un esplicito riferimento in chiusura (cfr. Insegnamenti, III,2 (1980), p. 1211).

Riuscire a identificare la loro provenienza può aiutare a stimare il tempo di percorrenza dalla loro terra a Gerusalemme. A seconda della localizzazione nel vicino Oriente mesopotamico, le distanze dalla Città Santa variano tra gli 800 e i 2000 km; con una media di 50 km al giorno (un’andatura tranquilla per i cammelli delle carovane che attraversavano il deserto), la durata netta del viaggio potrebbe essere stata di 15-40 giorni. Ma non è escluso che un simile viaggio implicasse un tempo anche più lungo. In merito alla loro provenienza, Tertulliano dirà che essi venivano dall’Arabia, applicando alla lettera uno dei salmi messianici: «i re degli Arabi e di Saba offriranno tributi» (Sal 72,10).

È ragionevole ipotizzare, sempre alla luce dei pochi dati presenti nei Vangeli, che la visita dei Magi non sia avvenuta nel luogo, provvisorio e di fortuna, ove nacque Gesù. Al v. 11 del testo di Matteo è esplicito l’utilizzo del termine «casa» (gr. oikía); la cronologia degli eventi sembra propendere per la collocazione della visita tra la circoncisione, avvenuta otto giorni dopo la nascita (cfr. Lc 2,21), e la successiva presentazione di Gesù al tempio con la purificazione di sua madre al quarantesimo giorno dal parto (cfr. Lc 2,22). Esiste infine un riferimento alla stella di Betlemme nel Protovangelo di Giacomo, un testo apocrifo del II secolo ( Vangeli, III). Come accade di frequente in queste fonti, le descrizioni sono spesso esagerate ed enfatizzate, per cui il riferimento alla stella come “tanto brillante da far scomparire le altre stelle” non può essere utilizzato come un dato attendibile per ricostruire l’eventuale natura fisica del corpo celeste e le modalità della sua comparsa.

Riassumendo quanto fin qui visto a partire dall’analisi del testo evangelico e dalle conseguenze che da esso possono dedursi, è possibile fare alcune considerazioni sulle condizioni minime che una spiegazione naturale della «stella di Betlemme» (cioè come corpo o fenomeno fisico realmente apparso) debba soddisfare. La stella deve essere stata vista da un Paese ad est della Palestina, al momento del suo sorgere. Non deve essere stato un fenomeno tanto eclatante da risultare chiaramente visibile a Gerusalemme, altrimenti non si comprenderebbero la sorpresa ed il turbamento di Erode — e con lui di tutta la città — a quanto i Magi narrarono circa l’apparizione della stella. È possibile anche pensare che a Gerusalemme il fenomeno fosse stato visto, ma non fosse stato associato alla nascita del Messia; in questo modo si spiegherebbe la richiesta fatta ai Magi, da parte di Erode, di conoscere «con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa». Siamo dunque di fronte ad un fenomeno la cui congiuntura è sufficientemente chiara da motivare un viaggio a Gerusalemme, ma al tempo stesso sufficientemente discreto da essere riconosciuto facilmente solo da “professionisti” dell’osservazione del cielo. Il testo evangelico non parla in alcun modo di una stella “che indichi il cammino” dal Paese dei Magi a Gerusalemme, mentre il v. 9, segnalando che la stella «li precedeva», si riferisce solo alla parte finale del tragitto, quella da Gerusalemme a Betlemme. In linea generale va comunque affermato che, sempre secondo il testo, il motivo che spinge i Magi a recarsi in Palestina non consiste in una “indicazione direzionale”, ma va cercato altrove.

Nella narrazione può risultare inusuale il fatto che Erode non abbia seguito o fatto seguire i Magi a Betlemme, pensando che questa si trova a circa 10 km da Gerusalemme. Pur se i Vangeli ce lo descrivono di solito molto sospettoso, è possibile che Erode si fosse fidato di loro, oppure non avesse voluto mancare di riguardo a ospiti così illustri. Meno strano è il fatto che li abbia convocati segretamente: ciò risulta in linea con quanto ci viene detto circa il carattere del re giudeo; si può immaginare che egli non volesse dare adito a chiacchiere sul suo interessamento verso un futuro Messia, il cui ruolo sarebbe stato quello di spodestarlo. Nella visione giudaica dell’epoca, il Messia era atteso infatti come un re ed un liberatore terreno, che avrebbe riscattato il suo popolo dalla dominazione straniera.

Nel partire verso Betlemme i Magi videro nuovamente la stella, che «li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino» (Mt 2,9). Questa descrizione, se interpretata alla lettera, è la più stringente e difficile da associare ad un fenomeno naturale. Si sta dicendo innanzi tutto che la “stella” si vede da Gerusalemme verso sud (cioè nella direzione di Betlemme), mentre non è chiaro il significato dell’espressione «si ferma sopra», che può indicare una posizione sulla verticale, in alto, oppure in basso avanti, traguardando da lontano la casa. Il verbo greco, nella forma passiva, indica semplicemente lo «stare fermo», mentre l’avverbio «sopra» ne individua la posizione. Il testo segnala infine che i Magi provarono una «grandissima gioia» nel rivedere la stella, in quanto la sua chiara ricomparsa viene subito interpretata come una conferma dell’esattezza della loro decisione di andare a Betlemme, un’emozione particolare forse non lontana da quella che prova uno studioso quando riceve la conferma sperimentale di una deduzione teorica o di una previsione scientifica.

II. Rappresentazioni ed interpretazioni della stella nella tradizione

In quasi tutte le rappresentazioni artistiche della Natività che mostrano l’adorazione dei Magi compare anche la “stella”, ma questa viene spesso presentata come elemento caratterizzante del solo “luogo della nascita” in quanto tale. L’immagine più famosa è assai probabilmente l’affresco del ricco ciclo biblico che decora la cappella degli Scrovegni a Padova, opera di Giotto all’inizio del Trecento. In tale affresco la stella viene dipinta con una coda, a voler indicare l’apparenza di una cometa, oggetto celeste non particolarmente frequente, ma ben noto fin dall’antichità. È comune ritenere che nel disegnarne i tratti, particolarmente realistici, Giotto si sia ispirato alla cometa di Halley, in orbita attorno al sole con un periodo di rivoluzione di circa 76 anni e visibile ad occhio nudo nell’anno 1301, in occasione di uno dei suoi passaggi vicino alla terra. Le immagini più antiche mostrano invece una stella senza coda. Sono a otto punte quelle del mosaico di s. Maria Maggiore a Roma del 433 e di s. Apollinare Nuovo a Ravenna del VI secolo, che curiosamente riporta due stelle, una dentro l’altra. Nel sarcofago in marmo di Adelfia, trovato nelle catacombe di s. Giovanni a Siracusa, e risalente al IV secolo, uno dei Magi indica una stella a sette raggi. Dello stesso secolo, verso il terzo decennio, è il fronte di sarcofago trovato in Vaticano: uno dei tre Magi in adorazione, accanto a due cammelli, indica una stella a sei punte a forma di ruota. La più antica rappresentazione dei Magi, in un affresco delle catacombe di Priscilla a Roma, è del II secolo: ne riporta tre, ma la stella non è visibile, forse perché la parte più alta della raffigurazione è molto rovinata; vi appare invece nell’affresco che raffigura la Madonna, con Balaam che la indica. Tra gli elementi comuni di buona parte di queste rappresentazioni, va menzionata la diversificazione somatica dei Magi — che col passare dei secoli ha conosciuto varianti a seconda delle nuove scoperte geografiche — ad indicare l’universalità della redenzione cristiana e della chiamata di tutti i popoli alla salvezza.

Tra gli autori più antichi che specularono su una origine fenomenica naturale della stella di Betlemme troviamo Origene (185 ca. -253 ca.), che ne parla due secoli dopo l’evento della nascita di Gesù di Nazaret. Egli ne difende un’interpretazione fisica e, per distanziare la reazione dei Magi dalle pratiche astrologiche dei Caldei, la descrive come una “nuova” stella, diversa da quelle conosciute (e dunque non assimilabile a congetture già prestabilite, di tipo oroscopico), analoga a quei fenomeni celesti che appaiono ogni tanto, come le comete (cfr. Contra Celsum, I, 58-59). Cita al riguardo un trattato Sulle comete dello stoico Cheremone, precettore di Nerone, ricordando che era prassi accettata che l’apparizione di comete o di nuovi astri segnalasse la nascita di importanti personaggi, ricordando al suo avversario Celso la profezia riportata da Nm 24,17 (vedi supra, I) e giustificando in base ad essa il viaggio dei Magi. Ireneo di Lione (II secolo) parla della stella in riferimento all’avverarsi della profezia di Balaam, ma non si sbilancia sulla sua possibile origine naturale (cfr. Adversus haereses, III, 9,2). Diversamente, s. Giovanni Crisostomo (350 ca. - 407) considera la stella un vero e proprio miracolo, perché non riesce a conciliare quanto il racconto evangelico narra a proposito dell’astro con quelli che sarebbero i comportamenti abituali degli oggetti celesti.

In particolare, il Crisostomo dedicherà alla stella di Betlemme e al suo simbolismo tutta la VI omelia del Commento al Vangelo di Matteo (cfr. PG 57, 61-72). A motivo del contesto ellenico in cui scrive, chiarirà immediatamente che quanto la Scrittura dice a proposito dell’apparizione della stella non può essere assimilato ad alcun vaticinio od oroscopo di natura astrologica (cfr. V, 1). Lo stesso viaggio dei Magi verso la Giudea presenta lati paradossali, perché implica delle disposizioni di umiltà che consentano loro di riconoscere un re appena nato laddove non si sarebbe mai cercato... L’autore pare concludere che «la stella dei Magi non fu una stella ordinaria, ancor più non fu una vera stella, ma una forza invisibile che prese le apparenze di una stella […] Considerate dunque donde venne ai Magi l’idea del viaggio e ciò che li spinse ad intraprenderlo. A me pare che non fu solo opera della stella, ma anche opera di Dio che mosse le loro anime» (VI, 2.4). Egli vuole in sostanza mettere in luce la dimensione spirituale del viaggio e del riconoscimento, ma non nega l’esistenza di un segno sensibile, però miracoloso, in quanto non legato a fenomeni naturali — ordinari o straordinari che siano — del cielo stellato.

Un’attenzione particolare al commento all’episodio dei Magi viene prestata anche da papa Leone Magno (440-461) nei suoi otto Sermoni sull’Epifania (PL 54, 234-263). Nel terzo di essi leggiamo: «Una stella, più fulgente delle altre, attira l’attenzione dei Magi, abitanti dell’estremo oriente. Essi erano uomini non ignari nell’arte di osservare le stelle e la loro luminosità, per questo comprendono l’importanza del segno. Certamente operava nei loro cuori la divina ispirazione, affinché non fosse nascosto a essi il mistero significato da questa grande visione e non restasse oscuro per l’animo ciò che era mostrato agli occhi» (Sermones, XXXIII, 2). L’autore, pur sviluppando in questo ed altri sermoni la valenza allegorico-spirituale della narrazione, propende dunque per un evento naturale come avvio che spinse i Magi a comprendere il più alto significato cui esso puntava. L’articolazione si fa esplicita nel primo sermone: «Per questo ai tre Magi apparve in Oriente una stella di straordinaria luminosità […] perché facilmente attirasse la loro attenzione. Così poterono rendersi conto che non avveniva a caso ciò che sembrava loro tanto insolito. Infatti, colui che aveva dato il segno, diede a quei che l’osservavano anche l’intelligenza per poterlo comprendere (dedit ergo aspicientibus intellectum, qui praestitit signum). E poi fece ricercare ciò che aveva fatto comprendere e, ricercato, si fece trovare» (Sermones, XXXI, 1). Di certo interesse in merito all’universalità con cui parla il linguaggio del cosmo, oggetto anche delle scienze, è il collegamento proposto da s. Leone fra la dimensione celeste, in qualche modo pubblica, del segno e la vocazione universale di tutte le genti a conoscere l’evento e la grazia di Gesù Cristo. Egli commenta che, mentre il riconoscimento del Messia da parte del Battista, all’inizio della sua vita pubblica, e ancor prima l’annunciazione a Maria e la notizia della nascita data ai pastori erano stati conosciuti da pochi, «questo segno che muove efficacemente i Magi da lontani paesi e li attira irresistibilmente a Gesù, Signore, senza dubbio è il segno sacro di quella grazia e l’inizio di quella vocazione per cui non solo nella Giudea, ma in tutto il mondo si sarebbe predicato il Vangelo. […] Il significato di questi mistici fatti persiste ancora: ciò che era iniziato nell’immagine si compie oggi nella realtà. Infatti irraggia dal cielo, come grazia, la stella, e i tre Magi, chiamati dal fulgore della luce evangelica, ogni giorno in tutte le nazioni accorrono ad adorare la potenza del sommo Re» (Sermones, XXXV, 1-2).

Per quanto concerne l’esegesi biblica, occorre osservare che non di rado è stata incline ad una lettura della narrazione evangelica nel quadro della Midrash, un modo di interpretare le Scritture proprio del giudaismo. L’autore del Vangelo secondo Matteo, che scrive in ambiente ebraico dirigendosi principalmente ad ebrei, potrebbe averne fatto egli stesso uso, ricostruendo cioè gli eventi alla luce della tradizione biblica precedente, associando quanto accaduto in quegli anni ad episodi o immagini già descritte nell’AT. Tutto il racconto dei Magi, oppure anche solo l’episodio dell’apparizione della stella, potrebbero essere un esempio di midrash haggadico (che a differenza di quello halakhico non fa riferimento a legislazione, ma ad aspetti morali, filosofici e teologici), costruito dall’evangelista per dimostrare il compimento delle profezie di Balaam o di Michea, oppure quella di Isaia (cfr. Is 41,2-3). Quest’ultima parla del re persiano Ciro (di cui la stella apparsa in oriente o gli stessi Magi che provenivano da quel luogo sarebbero un’immagine) che libera il popolo d’Israele dalla schiavitù babilonese. Si tratterebbe, con terminologia moderna televisiva, di una fiction, cioè di una rappresentazione verosimile, basata su fatti realmente accaduti. Ciò non toglierebbe fondamento alla storicità di quanto rivelato, ma influirebbe solo sulla scelta degli elementi della narrazione. In linea con la lettura midrashica, la stella e il suo fulgore potrebbero essere anche un modo di riproporre la gloria di Dio (eb. kabôd Jahvè), che si manifestava in modo visibile con una nube, una luce o un bagliore, coprendo il luogo ove Jahvè scendeva con la sua presenza, il Tabernacolo (eb. ’ohel) dell’Esodo e, successivamente, il Tempio di Gerusalemme (cfr. Es 40,30-34; 1Re 8,10). Il luogo della nascita di Gesù Cristo, visibile con l’umiltà di una tenda o di una sistemazione di fortuna, ma figura del vero tempio, quello invisibile, verrebbe così ricoperto dallo splendore “luminoso” della stella, come “luminosa” era la nube della gloria divina nell’AT. L’esegesi non ha invece esplorato interpretazioni di tipo astrologico-divinatorio, trattandosi di una pratica condannata nell’AT (cfr. Is 47,13-15; Ger 10,1-2; Cielo, II.2) e rifiutata dal cristianesimo ( Padri della Chiesa, IV).

III. Alcune associazioni con fenomeni di natura astronomica

Le posizioni riscontrate nell’ambiente astronomico e scientifico nei riguardi della «stella di Betlemme» non sono certamente univoche e spaziano dal voler evitare ogni possibile associazione con fenomeni naturali fino alla meticolosa ricerca di una possibile corrispondenza con qualcuno di essi. La prima posizione, come logico, non risponde ad alcuna scelta confessionale, in quanto anche chi considera i Vangeli come documenti storici, e li accoglie inoltre con fede, può sempre propendere verso un’interpretazione spirituale ed interpretare con un «senso tipico o figurato» l’apparizione dell’astro ( Sacra Scrittura, III). Le diverse posizioni degli astronomi possono essere emblematicamente comprese fra quella di Tycho Brahe (1546-1601), che sosteneva come la stella non fosse affatto un fenomeno naturale (cfr. Opera Omnia, Frankfurt 1648, vol. I, pp. 239, 420-423), e quella di Johannes Kepler (1571-1630), che cercò di identificarla prima con una Nova e poi con una congiunzione planetaria (cfr. Opera Omnia, Frankfurt 1863, vol. IV, pp. 3 e 46). Esamineremo ora in rapida sintesi le principali interpretazioni di natura astronomica suggerite per la stella di Betlemme.

1. Possibile associazione con l’apparizione di una stella nova o supernova. Alcune stelle, in momenti particolari della loro evoluzione termodinamica, possono aumentare rapidamente la loro luminosità. Ciò è dovuto essenzialmente a due fatti. In un primo caso, che coincide col fenomeno delle Novae, una stella appartenente ad un sistema binario, esaurita la sua fonte di energia termonucleare, può collassare come nana bianca o in un oggetto ancora più denso, come una stella di neutroni, attraendo su di sé gli strati gassosi superficiali della stella compagna, i quali, cadendo ad alta velocità sull’altra stella collassata, si surriscaldano emettendo un repentino ed intenso irraggiamento di natura termica. La luminosità totale del sistema stellare originale aumenta così di svariati ordini di grandezza, sebbene per poche settimane. Nel secondo caso, una stella anche isolata ma più massiccia, può esplodere come Supernova al termine della sua evoluzione, a causa dell’innescarsi di un’instabilità irreversibile fra la forza dovuta alla sua energia di irraggiamento e la forza di gravità della sua massa. A seconda del valore della massa stellare, la fenomenologia può essere diversa, ma si assiste al rilascio, anch’esso repentino e poi lentamente decrescente, di una grande quantità di energia, sia sotto forma di luce visibile, sia in altre bande dello spettro elettromagnetico. In ambedue i casi si osserva nel cielo l’improvviso apparire di un astro, che prima dell’evento era assai più debole o addirittura invisibile ad occhio nudo. Ovviamente ciò non implica che la sua luminosità sovrasti quelle delle stelle più brillanti del cielo: ciò può accadere statisticamente solo in un numero assai limitato di casi.

La storia passata e recente segnala diverse stelle novae o supernovae visibili ad occhio nudo (il numero di quelle visibili al telescopio aumenta ovviamente col crescere della tecnologia implicata negli strumenti di osservazione). Dagli annali cinesi abbiamo resoconti piuttosto dettagliati di alcune novae visibili a occhio nudo. Tra il 100 a.C. e il 1690 ce ne sono state in media una ogni 20 anni, e dunque non si tratta di eventi rarissimi per gli astronomi. Sono buone candidate a motivo della loro data di apparizione quelle del 5 a.C. e del 4 a.C. (cfr. Hughes, 1979, cap. 7). Si trattava di oggetti stellari “nuovi”, che si aggiungevano a quelli già noti e che arricchivano di nuove stelle fisse lo scenario delle costellazioni esistenti. Ai fini del nostro discorso è importante segnalare che si tratta di stelle il cui picco di luminosità nella parte visibile dello spettro dura solo un breve periodo, dell’ordine di alcuni giorni, per poi decrescere lentamente fino a stabilizzarsi (con fenomenologie diverse a seconda dei tipi di novae e di supernovae) su intensità luminose assai più moderate. Va anche segnalato in chiave storico-interpretativa che le novae non godevano di buona reputazione tra gli astrologi del tempo: essendo fenomeni non prevedibili, la loro apparizione sembrava annunciare eventi negativi.

2. Una stella cometa? Le comete sono corpi solidi in orbita intorno al sole, di dimensioni assai inferiori rispetto a quelle dei pianeti o dei loro satelliti. Ruotano su orbite fortemente ellittiche, cioè molto allungate; in un numero limitato di casi possono essere corpi celesti esterni al sistema solare, che il campo gravitazionale del sole ha catturato obbligandoli a muoversi su traiettorie paraboliche o iperboliche e, dunque, non in orbite ricorrenti. Approssimandosi al sole, dalle comete evapora buona parte del materiale di cui è composta la loro superficie, formando una chioma di gas che gli sciami di particelle provenienti dal sole — il cosiddetto vento solare — spingono e rendono luminosa; ha così origine una “coda” di polveri e particelle ionizzate, la cui direzione varia lungo l’orbita, mantenendo sempre un orientamento opposto rispetto alla posizione del sole. La loro luminosità vista dalla terra dipende dalle dimensioni e dalla distanza dal sole, aumentando notevolmente quando esse vi si avvicinano maggiormente, sebbene tale prossimità renda nel contempo più difficoltosa la loro osservazione (perché visibili solo fra le luci dell’alba o del tramonto). La spettacolarità del fenomeno, la presenza di una coda in grado di indicare una certa direzionalità, ed un debole movimento diurno rispetto allo sfondo delle stelle fisse, hanno tradizionalmente favorito una identificazione “classica” fra la «stella di Betlemme» ed una particolare cometa.

Dagli almanacchi astronomici cinesi e babilonesi, è possibile ricostruire quali furono le comete viste nel periodo nel primo decennio avanti Cristo. La nota cometa di Halley, dal nome dell’astronomo Edmond Halley (1656-1742) che per primo la identificò, si muove lungo un’orbita avente un periodo di 76,3 anni ed effettuò certamente un passaggio in prossimità della terra nell’anno 12 a.C. La sua registrazione coincide probabilmente con quella riportata da Dione Cassio e dagli astronomi dell’antica Cina. Tale data risulta però essere troppo in anticipo rispetto alla datazione della nascita di Gesù calcolata in base a specifiche fonti (vedi infra, V).

Va tenuto presente che nelle registrazioni astronomiche dell’antichità non è sempre facile distinguere le comete dalle novae. Anche se sono normalmente usati termini diversi, esistono ambiguità che fanno pensare a un’intercambiabilità dei nomi adottati, nonostante sia abbastanza facile distinguerle, in quanto la posizione delle comete varia di giorno in giorno rispetto alle stelle fisse, mentre le novae non presentano alcun moto proprio apprezzabile ad occhio nudo, trattandosi di stelle a tutti gli effetti. Negli annali cinesi è generalmente la presenza della coda ad identificare le comete: si parla infatti di una hui hsing (o sui hsing), cioè di una stella che “spazza il cielo”. La nova del marzo 5 a.C., ben visibile per ben 70 giorni, è definita anch’essa una hui hsing (e quindi potrebbe essere una cometa), ma non ne viene registrato alcun movimento rispetto alle stelle. Vi è inoltre incertezza se un oggetto senza coda osservato nell’aprile del 4 a.C. fosse da considerare una cometa oppure una nova, analogamente a un altro apparso nel 10 a.C.

L’obiezione principale contro l’identificazione della stella di Betlemme con una cometa è di carattere astrologico. Generalmente le comete erano qualificate come presagi di sventura ed inoltre non erano dei fenomeni particolarmente rari e straordinari, sebbene in alcuni casi potessero essere spettacolari. Perché i Magi avrebbero dovuto mettersi in viaggio proprio in quell’occasione? Tuttavia l’interpretazione delle comete come foriere di sventura non è stringente: esistono anche casi nei quali le si associa all’annuncio di buone nuove. Una cometa risponde al criterio di “apparire” due volte: la prima mentre si avvicina al sole, la seconda mentre se ne allontana (è infatti nella situazione di massima vicinanza al sole, come già osservato, che la coda si fa più appariscente); fra i due periodi vi è un periodo intermedio nel quale il corpo non è più visibile perché in congiunzione eliaca (cioè angolarmente troppo vicino al sole per poter essere visto). In merito ad un confronto col testo biblico, va osservato che, pur muovendosi rispetto alle stelle, una cometa non è così veloce da spostarsi significativamente nel giro di poche ore, cioè in quello che poteva essere un tempo ragionevole per percorrere la distanza tra Gerusalemme e Betlemme. L’espressione evangelica «li precedeva e si fermò» non può essere presa alla lettera nel caso di una cometa. Un periodo di tempo di due anni, identificato come momento fra la nascita di Gesù ed il limite superiore della sua età al momento in cui Erode decide di procedere alla strage degli innocenti (cfr. Mt 2,16) sarebbe troppo lungo se con esso si volesse vedere l’intervallo tra la prima e la seconda apparizione di uno stesso oggetto cometario. Se si fosse trattato di una cometa, essa sarebbe stata ben visibile anche a Gerusalemme, ma non “interpretata”, e dunque il turbamento dei giudei potrebbe essere dipeso dalla particolare “lettura” fattane dai Magi.

3. Meteoriti e fulmini globulari. Piccoli asteroidi e pietre vaganti nel sistema solare incrociano frequentemente la terra ed entrano nell’atmosfera con velocità sostenuta, bruciando ed emettendo una forte radiazione luminosa. A volte non si distruggono del tutto e cadono sulla superficie del nostro pianeta. La luce dura pochi secondi e poche volte è accompagnata da un rumore avvertibile (bolidi). La frequenza di questi fenomeni è elevata: praticamente ogni notte sono visibili, con delle punte in periodi particolari nei quali l’orbita terrestre incrocia i principali sciami di meteoriti, come il 10 agosto per lo sciame delle Perseidi ed in novembre per quello delle Leonidi. L’unico modo di accordare la narrazione evangelica con questo tipo di oggetti sta nel supporre una serie di grossi meteoriti. Ma dovrebbero essersi verificate troppe coincidenze per poter dare credito a questa ipotesi. Soprattutto non si comprenderebbe perché i Magi avessero deciso di muoversi in corrispondenza di un evento così ripetitivo, a meno che non si fosse trattato di un bolide enorme, del quale però non vi è traccia negli almanacchi astronomici dell’epoca. Il termine «meteora» viene utilizzato nel linguaggio comune in modo piuttosto ampio, per un generico fenomeno transiente localizzabile nell’atmosfera terrestre; non c’è dunque da sorprendersi se, in modo alquanto approssimativo, Salvatore Garofalo indichi nella nota corrispondente al passo di Mt 2,2 scritta per l’edizione ufficiale della CEI della Sacra Bibbia, un commento come: «la stella è da intendere come un fenomeno luminoso nell’atmosfera terrestre». Anni prima, l’Enciclopedia Cattolica ne parlava come di una «meteora miracolosa, poco alta nell’atmosfera».

I fulmini globulari sono fenomeni di natura elettrica, non ancora completamente spiegati, che interessano gli strati bassi dell’atmosfera. Hanno forme diverse, spesso sferiche. Durano da pochi secondi a un paio di minuti, si muovono in modi curiosi e a velocità molto diverse, descrivendo traiettorie singolari fino a restare talvolta immobili. Per questa sola particolarità, essi sarebbero fra i candidati migliori per un’interpretazione letterale, sia pure identificandolo con un fenomeno molto rapido, del periodo: «si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino». Ma perché questo tipo di fenomeni sia compatibile con tutto il racconto evangelico, se ne dovrebbero supporre due in momenti diversi. Ciò rende però assai problematico l’uso del termine astér (stella) per un oggetto che non assomiglia a corpi celesti. Se i Magi erano davvero professionisti dell’astronomia, non avrebbero parlato di una stella a Erode. Il problema della parola astér è comunque generale: se dovesse essere preso alla lettera, escluderebbe anche la traduzione «pianeta» (gr. planétes). Ma non va neanche dimenticato che nella versione dell’AT in lingua greca il termine planes non viene mai usato.

4. Una stella variabile? Alcune stelle, ben note anche agli astronomi non professionisti, variano la loro luminosità nel tempo, in modo periodico. La variazione può essere dovuta a varie cause, fra le quali le due principali sono la pulsazione della struttura termodinamica della stella (variabili pulsanti) o l’eclissi periodica di uno o più componenti di un sistema stellare doppio o multiplo.

La migliore candidata per la Stella di Betlemme potrebbe essere Mira, nella costellazione della Balena. In un ciclo di 11 mesi, Mira può giungere talvolta ad uno splendore paragonabile a quello della stella polare (una stella di seconda grandezza, in termini di luminosità visuale) o, come accade più frequentemente, a quello di una stella di terza grandezza, per poi diminuire di oltre 1000 volte il suo splendore divenendo invisibile ad occhio per poco più della metà del suo intero ciclo di variazione. Il colore rossastro di Mira poteva ricordare ai Magi il simbolismo divino che il fuoco assumeva nella cultura persiana di Zoroastro. La mancanza di carte stellari precise e lo scarso interesse per lo studio della variazione di luminosità delle stelle (considerate piuttosto come fisse ed immutabili) poteva far sì che Mira fosse scambiata per una stella nova (cfr. supra, n. 1).

La regione della costellazione della Balena in cui si trova Mira è anche assai vicina alla posizione ove nel 6-7 a.C. avvenne la tripla congiunzione planetaria fra Giove e Saturno (vedi infra, IV), cosa che poteva probabilmente spingere ad osservare con maggiore attenzione quella zona del cielo. Una volta notata la stella dallo splendore in rapida ascesa, i Magi avrebbero potuto mettersi in cammino ma, a causa del periodo di variazione luminosa di Mira, l’avrebbero successivamente persa di vista. Giunti a Gerusalemme, avrebbero poi chiesto ad Erode le note indicazioni. I consiglieri del re non avrebbero notato la stella, perché non particolarmente evidente per i non specialisti dell’osservazione stellare. La bassa latitudine celeste della costellazione della Balena potrebbe infine suggerire che l’espressione «si fermò sopra il luogo» indicherebbe non la posizione sulla verticale, ma quella sull’orizzonte, servendo da traguardo per individuare una direzione da seguire.

I problemi di questa interpretazione sono soprattutto il breve tempo di circa un mese, corrispondente alla periodicità della stella variabile in questione, per il viaggio dei Magi (anche se c’è chi valuta in soli dieci giorni il tempo minimo necessario da Babilonia a Gerusalemme forzando i cammelli...). La brevità del periodo non concorda con l’uccisione, da parte di Erode, di tutti i bambini fino a due anni, secondo il tempo corrispondente all’informazione ricevuta dai Magi. Il simbolismo astrologico (in senso ampio) della stella non sarebbe infine ben definito.

IV. La “stella” di Betlemme come fenomeno di congiunzioni planetarie

A motivo del maggiore spazio dedicatole nella letteratura scientifica, l’ipotesi di una congiunzione planetaria va qui considerata con maggiore estensione. Quando due o più oggetti celesti, stelle o pianeti, appaiono angolarmente molto vicini tra loro, si dice che sono in «congiunzione». Si tratta in realtà solo di un effetto prospettico, poiché la loro distanza lineare assoluta resta generalmente assai grande: proiettati però sullo sfondo del cielo, sembra che si avvicinino. In alcuni casi paiono “fondersi” in un unico oggetto visibile. Uno dei corpi può giungere fino a eclissarne un altro (si parla allora di «occultazione»), restando così visibile solamente il corpo celeste a noi più vicino: in questo caso il massimo di luminosità avviene quando i due corpi sono ancora adiacenti, prima che uno eclissi l’altro.

Nel 1603 Keplero assistette prima di Natale a una congiunzione tra Giove e Saturno. La distanza minima tra i due pianeti fu di circa un grado d’arco, cioè il doppio delle dimensioni apparenti della luna. Ad interessarlo fu anche il fatto che tale congiunzione avveniva nella costellazione dei Pesci e lo scienziato risalì ad alcune tradizioni ebraiche che sottolineavano l’importanza di un simile evento. Calcolò che nel 7 a.C. era avvenuta una simile congiunzione con una caratteristica ancora più interessante: in quell’anno la congiunzione era stata tripla, cioè da maggio a dicembre i due pianeti si erano avvicinati e allontanati tre volte. Ciò è possibile perché le orbite planetarie, proiettate sulla volta celeste delle stelle fisse, sembrano descrivere degli anelli, più esattamente un moto diretto e poi un moto retrogrado, a causa delle differenze nei moti relativi della terra e dei pianeti, che hanno diverse velocità di rivoluzione intorno al sole. L’evento di una congiunzione ripetutasi tre volte in pochi mesi è piuttosto raro. L’anno successivo Keplero notò un evento ancora più raro, cioè l’avvicinamento contemporaneo di tre pianeti: Giove, Saturno e Marte. Non era una vera e propria congiunzione, perché i corpi erano distanti diversi gradi d’arco, tuttavia il fenomeno acquistava una grande rilevanza per chi era abituato a studiare il cielo poiché tre oggetti molto luminosi nella stessa ristretta zona di cielo forniscono indubbiamente uno spettacolo denso di fascino. Egli calcolò che questo raggruppamento triplo poteva accadere ogni 805 anni. Si era quindi verificato nel 799 (periodo di Carlo Magno), nel 7 a.C. (la data presunta della nascita di Cristo), nell’812 a.C. (periodo di Isaia), nel 1617 a.C. (periodo di Mosè). Nel suo cammino a ritroso volle giungere fino al 4032 a.C., ipotizzando in quell’anno la creazione di Adamo. Nell’ottobre 1604 osservò poi una supernova che restò visibile per un anno. Keplero non pensava che queste congiunzioni coincidessero con ciò che poteva eventualmente essere apparso come la “stella di Betlemme”, ma le considerava un fenomeno sufficientemente spettacolare da attirare l’attenzione di astronomi persiani, insomma una specie di “preparazione” per i Magi al grande evento, che secondo lui si sarebbe poi manifestato con una nova successiva.

L’ipotesi della congiunzione ha suscitato l’interesse di vari studiosi contemporanei e a tale fenomeno è stata attribuita la maggiore probabilità di poter essere identificato con la stella di Betlemme. Le misure delle posizioni di Giove e Saturno relative all’anno 7 a.C., oltre a coincidere con i calcoli previsti teoricamente, sono state ritrovate anche su tavolette babilonesi che contengono alcuni calendari astronomici. Una possibile ricostruzione della cronologia degli eventi può essere stata la seguente. Nel maggio del 7 a.C. i Magi osservano la prima delle tre congiunzioni di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci e le attribuiscono un valore simbolico in relazione alla nascita del Messia ebraico. Avendo poi anche calcolato le successive congiunzioni, decidono di recarsi a Gerusalemme. Intorno al mese di settembre osservano la seconda congiunzione, mentre sono in viaggio. Nel mese di dicembre giungono a Gerusalemme e chiedono ad Erode informazioni sulle profezie relative alla nascita del Messia. Subito dopo osservano la terza congiunzione, occupando la costellazione dei Pesci in questo mese (con i due pianeti) una posizione che, dopo il tramonto, appare di sera in direzione sud, cioè verso Betlemme. Muovendosi da Gerusalemme verso Betlemme nel pomeriggio, col primo oscurarsi del cielo, i due pianeti sorgerebbero a sud-est per culminare a sud, abbastanza in alto per essere ben visibili e luminosi. Certamente, in nessuna di queste circostanze i due corpi celesti apparirebbero come una stella sola, per cui l’uso del termine astér da parte del testo evangelico va considerato in senso generico, non impiegando certo un linguaggio tecnico-astronomico. Si potrebbe anche ipotizzare che “la stella” fosse solo Giove (come simbolo del Messia, mentre Saturno avrebbe potuto simboleggiare Jahvé). Nel loro moto angolare apparente (quello di Giove è un po’ più rapido di quello di Saturno) i pianeti conoscono un «punto stazionario», nel quale paiono fermi rispetto alle stelle fisse: nel caso di Giove ciò sarebbe stato più evidente, suggerendo una possibile interpretazione dell’espressione «si fermò sopra il luogo...» (Mt 2,9).

Perché proprio questa congiunzione e non altre precedenti, anche più spettacolari, sia pure non triple, avrebbero messo in viaggio gli astronomi persiani? Il motivo principale potrebbe proprio essere di simbologia celeste. La costellazione dei Pesci era collegata dagli astrologi al popolo ebraico (associazioni frequenti avvenivano con altre costellazioni nei confronti di altri popoli) e Giove era considerato il pianeta della regalità. Una certa attesa del Messia ebraico era nell’aria; i Magi conoscevano le Scritture e le profezie al riguardo, perché la deportazione del VI a.C. del popolo ebreo a Babilonia e la possibile presenza di ebrei in Mesopotamia avevano permesso una sufficiente diffusione delle tradizioni connesse. In un quadro di riferimento mitologico ed astrologico di tipo ellenico (che qui ci limitiamo solo a suggerire), Saturno (Krónos) veniva sostituito da Giove (Zeus), suo figlio, a capo di tutte le divinità, offrendo così un certo parallelo, sia pure con modalità del tutto diverse, all’attesa di un Figlio di Dio. Può essere infine interessante ricordare che, nell’iconografia dei primi cristiani, i pesci sono diventati un simbolo di Gesù Cristo, perché il termine greco ichthys (pesce) corrisponde alle iniziali di Iesus Christos Theou Uios Soter, cioè Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. Il fatto che il tempo di due anni calcolato da Erode non coincida con lo sviluppo degli eventi visti dai Magi può essere semplicemente effetto di un arrotondamento per eccesso, per essere sicuro di non sbagliare, di cui il linguaggio biblico non è esente. In Matteo, in particolare, troviamo spesso alcuni “raddoppi” rispetto a quanto riportato da altri sinottici (come, ad es., per i “due” ciechi nati: cfr. Mt 20,29; Mc 10,46).

Seguendo la tesi di Ferrari d’Occhieppo (1978), David Hughes (1979) aggiunge altri dettagli alla precedente ricostruzione, giungendo a concludere che una probabile data per la nascita di Gesù potrebbe essere stata la sera di martedì 15 settembre 7 a.C., quando Giove e Saturno sorsero insieme in opposizione al sole, mentre questo tramontava.

Ernest Martin (1996) sostiene invece che la “stella” di Betlemme sia stata Giove, a motivo di una serie di congiunzioni avvenute però in tempi diversi rispetto a quelli della tripla congiunzione con Saturno. La ricostruzione di Martin parte dal 3 a.C. quando Giove è in congiunzione con Regolo (etimologicamente «piccolo Re»), la stella più luminosa della costellazione del Leone. Il legame con la profezia di Giacobbe su Giuda, erede della promessa divina, come giovane leone (cfr. Gen 49,9) è immediato. L’11 settembre del 3 a.C. è, secondo lui, la data più probabile della nascita di Gesù. È l’inizio dell’anno ebraico (Rosh ha-Shanah), il sole è nella costellazione della Vergine, e al mattino la luna sorge proprio ai piedi di questa costellazione (si noti il parallelo con Ap 12,1: «una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle»), fatto unico nell’anno. Una dozzina di stelle visibili a occhio nudo stanno nella parte superiore della costellazione, a mo’ di cerchio. La spiegazione del «si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino» è data anche qui considerando il punto stazionario di Giove, il 25 dicembre del 2 a.C. al centro (“nel ventre”) della costellazione della Vergine. Questo stazionamento, durato una settimana, risulta particolarmente simbolico della nascita di Gesù e avvenne proprio nel solstizio d’inverno (che vuol dire “il sole che sta” il che, secondo Martin, farebbe pensare ancora alla frase “si fermò sopra”), che cadeva in prossimità della festa dei Saturnalia ed ora vicino a quella del Natale cristiano. Tutta la tesi di Martin è però condizionata dalla data della morte di Erode, che dovrebbe essere spostata all’anno 1 a.C. oppure 1 d.C. (cfr. Pratt, 1990) contrariamente a quanto affermano quasi tutti gli studiosi, i quali la collocano nel 4 a.C.

La morte di Erode il Grande incontra un analogo problema di datazione se si accettasse l’ipotesi di identificare la stella di Betlemme con il pianeta Venere, l’oggetto più luminoso del cielo notturno, dopo la Luna. Partendo da una interessante stretta congiunzione con Giove del 12 agosto dell’anno 3 a.C., si passa a una congiunzione del 17 giugno 2 a.C. talmente stretta — i due corpi non potevano essere separati ad occhio nudo — da far apparire i due pianeti un solo astro nel cielo del tramonto. Anche Martin (1996) giudica fondamentale questo evento per la tesi appena illustrata. Lo spettacolo dev’essere stato veramente eccezionale e, visto dal Paese dei Magi, appariva proprio in direzione della Palestina (ovest). La costellazione del Leone e la vicinanza prospettica dei due pianeti con Regolo aumentano le associazioni a un Re dei Giudei. Venere è inoltre detta «stella del mattino» perché risulta particolarmente visibile, con periodicità regolare, all’alba. La stella del mattino è riferita a Cristo in alcuni passi del NT (cfr. 2Pt 1,19; Ap 2,28 e 22,16). I Magi sarebbero quindi partiti per Gerusalemme dopo questa strettissima congiunzione e ne avrebbero lì vista un’altra, meno stretta, il 21 agosto 1 a.C., nella costellazione della Vergine, che in qualche modo ricordava la precedente. Resterebbe tuttavia da spiegare l’espressione «abbiamo visto sorgere la sua stella» (Mt 2,2) dato che nel giugno del 2 a.C. la congiunzione fra Venere e Giove si vedeva al tramonto. L’espressione si potrebbe però applicare alla prima delle tre congiunzioni, avvenuta nell’agosto del 3 a.C., che ebbe luogo nel cielo orientale. Ciò obbligherebbe ad estendere a tutti e tre gli eventi l’uso del termine singolare “stella”, che a rigore poteva essere applicato solo alla seconda congiunzione. Il maggior punto a favore di questa tesi è la durata di due anni tra il primo e l’ultimo evento, che corrisponde alla risposta dei Magi alla domanda di Erode.

V. La data di nascita di Gesù di Nazaret

L’identificazione astronomica della stella di Betlemme e la data di nascita di Gesù sono strettamente correlate. Le informazioni disponibili possono dare elementi di valutazione a entrambi gli eventi. Inoltre, anche ai fini della discriminazione di alcuni dei precedenti fenomeni astronomici, ne viene coinvolta, come abbiamo appena visto, la datazione della morte di Erode.

Il nostro calendario parte dall’anno 1 d.C., preceduto dall’anno 1 a.C. Nei calcoli astronomici, invece, per comodità si inserisce l’anno zero, ma le date si scrivono con + e con –, non con a.C. e d.C.; quindi il 6 a.C. corrisponde all’anno –5. Nel VI secolo Dionigi il Piccolo pensò che fosse più opportuno avere un riferimento cristiano per il calcolo delle date, invece di contare gli anni — come si era soliti fare fino ad allora — partendo dalla nomina a imperatore di Diocleziano, che era stato, fra l’altro, uno dei maggiori persecutori della nuova religione. Prima di Diocleziano, il calendario romano usava ricominciare il calcolo alla nomina di ogni imperatore. Dionigi calcolò che Gesù era nato nell’anno 753 ab Urbe condita, cioè dopo la fondazione di Roma. Quasi tutti gli studiosi ritengono che abbia sbagliato i calcoli di circa sei anni. Non era un compito facile anche a causa dei diversi metodi di calcolo in vigore nei primi secoli prima e dopo Cristo, riferiti quasi sempre a eventi regali, ma senza regola fissa sulla definizione di “inizio del primo anno di regno”: il giorno della designazione, quello della presa di possesso, il primo giorno dell’anno successivo, o altro. Dionigi fissò che Gesù fosse nato il 25 dicembre dell’anno 1 a.C. e che l’anno 1 d.C. fosse iniziato una settimana dopo, il 1° gennaio. Ci vollero però ancora due secoli per iniziare ad usare il nuovo sistema di computo degli anni, che è tuttora utilizzato in modo praticamente universale.

Un limite inferiore per la data di nascita di Gesù può essere dedotto da Lc 3,23 che scrive: «Gesù quando incominciò il suo ministero aveva circa trent’anni». Inoltre in Lc 3,1-2, introducendo il ministero del Battista, si legge: «Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto». Sapendo che il 15° anno dell’impero di Tiberio corrisponde all’intervallo 27-29 d.C. (l’incertezza è dovuta ai diversi modi di calcolare gli anni da parte dei romani), togliendo un massimo di 34 anni (il circa trent’anni) si arriva all’8-7 a.C. La morte di Gesù ci fornisce altri elementi: sappiamo dalla narrazione evangelica che avvenne di venerdì, il giorno 14 (oppure 15) del mese ebraico di Nisan. Questa coincidenza fra giorno della settimana e datazione mensile si verifica negli anni 30 e 33, calcolati secondo il computo annuale di Dionigi (e quello dell’era cristiana universale).

Il limite superiore per valutare la nascita di Gesù è invece dato dalla morte di Erode, a motivo dei fatti di cui, ancora in vita, egli fu protagonista essendo Gesù già nato. Va qui ricordato che generalmente viene chiamato Erode il Grande, per distinguerlo da suo figlio Erode Antipa, che regnò in Giudea negli anni della vita pubblica di Gesù Cristo. La fonte principale per tale datazione è Giuseppe Flavio, storico ebreo che, dopo la distruzione di Gerusalemme, si dedicò per conto dei romani a scrivere la storia del popolo eletto. Le sue opere sono della fine del I secolo. Secondo Giuseppe Flavio (cfr. Guerra giudaica, I, 33,1 e 5-6.8; II ,1,3; Antichità giudaiche, XVII, 6,1.4-5; XVII, 8-9), Erode, di origine idumea, conquistò Gerusalemme e iniziò a regnare nel 37 a.C., per 34 anni. Morì, in preda a forti dolori, poco dopo un’eclissi di luna e prima della Pasqua di quell’anno. Poiché da calcoli astronomici siamo certi che ci fu un’eclissi parziale di luna nelle prime ore del 13 marzo del 4 a.C., è stato dedotto che la sua morte avvenne tra il 13 marzo e l’11 aprile dell’anno 4 a.C.

Questa data è quasi universalmente accettata, anche se sono state sollevate delle obiezioni, dotate di un certo fondamento. La principale di esse è la difficoltà di far accadere tutti gli eventi descritti da Giuseppe Flavio tra l’eclissi di luna del 13 marzo e la Pasqua seguente, 29 giorni dopo (cfr. Caspari, 1896, pp. 21ss). I tentativi di cura di Erode dai suoi crescenti malanni, con trasferimento fuori città, l’uccisione del figlio Antipatro (da non confondere con Antipa), la sua morte cinque giorni dopo tale uccisione, i funerali solenni e il periodo di lutto di sette giorni, oltre all’ulteriore periodo di lutto per alcuni patrioti uccisi il giorno prima dell’eclissi, sono tutti eventi che dovrebbero essere accaduti prima della Pasqua, periodo nel quale il lutto era proibito dalla Mishnah. Se si scarta l’anno 4 a.C. e si va indietro di un anno a quella totale del 23 marzo 5 a.C., si trova lo stesso problema della vicinanza alla Pasqua (un mese) oltre ad incongruenze per aver anticipato troppo l’evento. L’eclissi totale del 15 settembre 5 a.C. sembra invece troppo lontana dalla Pasqua successiva. Non è logico che Archelao abbia atteso sei mesi prima di partire per Roma per ottenere la conferma della successione: sappiamo infatti che si mosse «subito dopo le feste». Nel 3 e nel 2 a.C. non vi furono eclissi visibili in Palestina, per cui bisogna saltare a quella del 10 gennaio 1 a.C. oppure a quella parziale del 29 dicembre dello stesso anno. Proprio quest’ultima, secondo Pratt (1990), rappresenta l’ipotesi più probabile, perché visibile perfettamente subito dopo il tramonto, essendo iniziata prima. In questo modo si spiegherebbe perché Flavio Giuseppe cita solamente questa eclissi nei suoi Annali: si trattò di un evento molto appariscente e, in più, immediatamente seguente all’uccisione dei patrioti. Quindi Pratt sostiene che Erode sia morto all’inizio dell’1 d.C. Da questo si dedurrebbe che una data possibile per la nascita di Gesù sia proprio l’1 a.C., prima di quel 21 agosto nel quale i Magi vedono una congiunzione Venere-Giove. La data di Pasqua dell’1 a.C. è certamente suggestiva e porterebbe a considerare, fra l’altro, il 2001 come inizio vero del terzo millennio dalla nascita di Cristo. Giulio Firpo (1983) riafferma invece la validità della data del 4 a.C. per la morte di Erode, basandosi su diversi episodi connessi che hanno datazioni abbastanza certe. Altri autori (cfr. Filmer, 1966) propongono però interpretazioni alternative per fissare nel tempo alcuni di questi episodi, il che lascia un certo margine di credibilità alle tesi di Martin, che sostiene quella dell’eclissi del 10 gennaio 1 a.C., e di Pratt.

Una delle principali obiezioni alla ridatazione della morte di Erode rispetto al 4 a.C. è basata sui regni di Archelao e Filippo, suoi eredi, riportati nelle fonti storiche come iniziati nel 4 a.C. Chi sostiene che la morte di Erode sia avvenuta nell’1 a.C., oppure d.C., afferma che i suoi successori retrodatarono fittiziamente l’inizio del loro governo e la conferma verrebbe dal non aver mai trovato monete coniate prima dell’anno 5 del loro regno. L’anno 1 a.C. oppure d.C. sarebbe quindi il primo anno di vero regno, ma de jure si considerava che questo fosse iniziato nell’anno 4 a.C., e così era registrato negli annali. Il censimento citato in Lc 2,1 è infine un altro dato importante per stabilire la data della nascita di Gesù. Comunemente si pensa al censimento dell’8 a.C., ma c’è chi sostiene che questo si applicava solamente ai cittadini romani. Orosio, uno storico del V secolo, afferma che per il suo 25° anno di regno (cioè intorno al 2 a.C.) Augusto ordinò un censimento (che iniziò l’anno precedente) con giuramento di fedeltà all’impero romano e che Gesù fu iscritto nelle liste del censimento appena nato. Questa tesi concorda con quella di Pratt per la nascita di Gesù nell’1 a.C. e con quella di Martin che la pone l’11 settembre 3 a.C.

Restano dunque ancora vari nodi da sciogliere e la ricerca storiografica non ha concluso definitivamente il suo ruolo nell’indagare sulla cronologia di Gesù. La mancanza di riferimenti cronologici universali, alcune notevoli discrepanze fra diverse fonti e una manifesta carenza di dati nel periodo 6 a.C. - 4 d.C. rendono complesso il lavoro di interpretazione. Probabilmente dovremo attendere la scoperta di nuove fonti (come ad esempio lapidi o iscrizioni) per risolvere la questione.

VI. La stella di Betlemme ed il lavoro del ricercatore nell’orizzonte del rapporto fra scienza e fede

Con i dati in nostro possesso, non è possibile raggiungere una conclusione certa sulla reale corrispondenza della «stella di Betlemme» con un fenomeno astronomico e sulla natura precisa di quest’ultimo. Esistono comunque dei motivi sufficientemente fondati per ritenere che la narrazione del testo evangelico di Matteo, nel riportare l’episodio dei Magi e della loro ricerca di Gesù nato a Betlemme, presenti un contesto, storico e linguistico, tale da considerare “ragionevole” l’ipotesi che l’osservazione di un fenomeno celeste sia stata alla base del viaggio che portò alcuni studiosi del cielo dalla Mesopotamia fino a Gerusalemme. Fra le possibili associazioni con i fenomeni qui brevemente riproposti, quella che trova il maggior consenso in ambito scientifico è la tripla congiunzione di Giove e Saturno. La sua allegoria, le sue caratteristiche di fenomeno raro, la concordanza con le date più probabili della morte di Erode, ne fanno il candidato preferito, anche se l’alternativa proposta da Martin legata a Giove e Venere è molto ricca di riferimenti biblici e risulta suggestiva. Continuare a studiare la questione potrebbe sembrare forse un esercizio privo di utilità: riteniamo invece che ogni approfondimento delle conoscenze astronomiche dell’epoca, oltre a tutte le questioni legate alla cronologia su Gesù di Nazaret, sia un arricchimento culturale importante e costituisca un esempio di ricerca interdisciplinare degno di nota.

Ma c’è forse qualcosa di più. Nell’orizzonte dei rapporti fra scienza e fede, il credente può trovare nell’episodio dei Magi alcuni spunti piuttosto significativi. Astraendo dal dibattito scientifico, biblico o astronomico, sul significato e sulla natura della stella, e contestualizzando i personaggi di cui parla il Vangelo nelle conoscenze e nella cultura dell’epoca, si potrebbe dire che l’episodio dei Magi rappresenta uno dei più singolari paradigmi del rapporto fra l’osservazione scientifica e le dinamiche della fede. In accordo con altri passi biblici ben noti (cfr. Sap 13,1-5; Sal 19; 104; Is 40,25-26; Rm 1,18-20; At 14,15-17 e 17,26-27; ecc.) ci viene presentato un itinerario che, partendo dall’osservazione del creato — del cielo in particolare — è capace di condurre fino all’incontro con Dio. La singolarità di tale itinerario è che esso non si esaurisce in una dimensione estetica, ma pare coinvolgere un certo aspetto “professionale”, legato all’applicazione di conoscenze, procedimenti, previsioni. Il ricercatore, per dirlo in qualche modo, viene interpellato in modo personale, al punto da dover essere disposto ad intraprendere egli stesso un cammino che gli consenta di acquistare una certa prospettiva, forse un trascendimento, rispetto a quanto può conoscere o prevedere restando sul suo posto di osservazione. Occorre assumersi la responsabilità ed il coraggio di una verifica, che impegna in prima persona, e vi è probabilmente contenuta anche l’esperienza di un certo distacco e di una prova, il cui esito è quello di sperimentare la gioia di aver trovato ciò che si cercava.

È in questo contesto che si può allora rileggere una delle interpretazioni spirituali più radicate nella tradizione cristiana (vedi supra, II), quella che associa la stella alla luce della vocazione che ogni essere umano riceve, come chiamata divina ad andare incontro a Dio accostandosi al mistero del Verbo incarnato, compimento e pienezza della rivelazione. Con le parole di un santo a noi contemporaneo, «Dio ci ha chiamati con inequivocabile chiarezza. Come i Magi, anche noi abbiamo scoperto nel cielo dell’anima la stella che ci guida e illumina […] il dono di un impulso efficace per giungere alla pienezza della carità, convinti che è necessario — e non solo possibile — raggiungere la santità anche in mezzo alle attività professionali, sociali […]. La vocazione cristiana non ci toglie dal nostro posto, ma esige che abbandoniamo tutto ciò che è di ostacolo al volere divino» (Beato J. Escrivá, È Gesù che passa, Milano 1982, nn. 32-33). Il riconoscimento della vocazione, la guida di una luce vista che a volte scompare, i sentimenti di stupore, di attesa e di gioia, sono in fondo la metafora di ogni vita cristiana come ricerca e incontro con Dio. E il fatto che di questo cammino ne siano protagonisti degli studiosi, proprio a partire dal contesto del loro lavoro scientifico, è sicuramente incoraggiante.

Michele Crudele

Vedi: Astronomia; Cielo; Sacra Scrittura; Vangeli.

Bibliografia:

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