Tra i sacerdoti del Mazdesmo c’erano dei «Mágoi» – di cui parlano sia Erodoto che Strabone, lo storico e il geografo per antonomasia dell’antichità – che si dedicavano all’osservazione delle stelle con lo scopo di vaticinare l’arrivo del Saoshyant. «Mágoi» è anche il termine con cui, nel II capitolo del Vangelo di Matteo, sono apostrofati coloro che «giunsero a Gerusalemme dall’oriente» domandando: «Dov’è il neonato re dei Giudei? Poiché abbiamo visto la sua stella in oriente e siamo venuti ad adorarlo». Di quegli uomini i vangeli sinottici non riferiscono molto altro: per avere ulteriori notizie su di loro dobbiamo fare riferimento a testi cosiddetti «apocrifi» e impregnati di saggezza orientale come il Vangelo Armeno dell’Infanzia, il Vangelo Arabo dell’Infanzia e soprattutto il Libro della Caverna dei Tesori. E’ da questi scritti che apprendiamo alcuni dati – per esempio quanti erano, quali erano i loro nomi, l’entità dei doni e la loro condizione regale – che sono entrati a far parte della tradizione.
I Magi dei vangeli erano dei Mágoi zoroastriani? Molti studiosi sostengono di sì, ma è impossibile avere certezze in proposito. Di sicuro c’è che i punti di contatto tra le credenze del Mazdeismo e certi assunti teologici dell’Ebraismo e del Cristianesimo sono impressionanti. E chiaro inoltre che lo stesso Matteo insiste sulla provenienza «da oriente» dei Magi – lo scrive per ben due volte nello stesso versetto – collocando in quella dimensione geografica e religiosa l’origine e il senso della loro vicenda.
Sappiamo d’altra parte che la festa stessa del Natale ha qualcosa a che fare con il culto di Mithra, una divinità della luce di derivazione zoroastriana, particolarmente sentito nella Roma imperiale. Sulla commemorazione mithraitica del Dies Natalis Sol Invictus, attorno alla metà del IV secolo, si innestò infatti la festività natalizia, proprio come sull’Epifania celebrata sfarzosamente dal Cristianesimo orientale si è inserita l’odierna ricorrenza cattolica.
All’insegna dell’Oriente è anche il rapporto tra i Magi e Milano. Secondo la leggenda a portare le reliquie dei tre Re nel capoluogo ambrosiano sarebbe stato, attorno al V secolo, il vescovo Eustorgio, un greco di origine asiatica che, prima di essere scelto dai Milanesi come il loro pastore, aveva governato la città su mandato bizantino. Le reliquie vennero collocate nella chiesa fatta costruire appositamente da Eustorgio – e in seguito, una volta proclamato santo, a lui dedicata – ma per molto tempo vennero quasi dimenticate.
I Magi
tratto da: Giuseppe RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, Mondadori, Milano 1999, § 252
Attorno al neonato Messia, Luca finora ha condotto, oltre ai cortigiani celestiali, soltanto gente umile in funzione di cortigiani terreni, i pecorai della steppa e i due vecchi della città. Su tutti costoro tace Matteo; il quale invece gli conduce dappresso non solo personaggi insigni ma - ciò che può sorprendere nel più israelita fra i quattro evangelisti - personaggi precisamente non israeliti e appartenenti agli aborriti «gojim». Se questo nuovo episodio fosse stato narrato da Luca, si sarebbe detto ch'era stato introdotto per dimostrare avverato l’annunzio di Simeone riguardo “alla rivelazione di genti”; ma trattandosi di Matteo, non rimane che da richiamarsi alla realtà dei fatti selezionata diversamente dai diversi narratori. Essendo dunque nato Gesù, “ecco che magi da Oriente si presentarono a Gerusalemme dicendo: Dov’è il nato re dei Giudei? Vedemmo infatti la stella di lui nell’Oriente, e venimmo ad adorarlo. - Allora, avendo udito (ciò), il re Erode si turbò, e tutta Gerusalemme con lui; e avendo adunato tutti i sommi sacerdoti e gli Scribi del popolo, ricercava da essi dove il Cristo debba nascere. E quelli gli dissero: In Beth-lehem della Giudea; così infatti è stato scritto per mezzo del profeta «E tu Beth-lehem, terra di Giuda, non sei in alcun modo la minima fra i duci di Giuda; da te infatti uscirà un duce il quale pascolerà il popolo mio Israele»” (Matteo, 2, 1-6). Gl’inaspettati stranieri, dunque, erano magi e venivano da Oriente; questi sono a loro riguardo i soli dati sicuri, ma anche vaghi. Il più vago è Oriente, che geograficamente designa tutte le regioni di là dal Giordano, ove procedendo verso levante s'incontra dapprima l'immenso deserto siro-arabico, quindi la Mesopotamia (Babilonia), e infine la Persia: e infatti nell'Antico Testamento tutte e tre queste regioni sono designate come Oriente, anche la lontanissima Persia (come appare da Isaia, 41, 2, ove si allude al persiano Ciro il Grande). Ma precisamente in Persia, a preferenza delle altre due regioni più prossime, ci conduce il termine «magi» che è originariamente persiano e strettamente legato alla persona e alla dottrina di Zarathushtra (Zoroastro). (1)
Di Zarathushtra i magi furono originariamente discepoli; ad essi aveva egli affidato la sua dottrina riformatrice delle popolazioni dell’Iran, ed essi ne furono poi i custodi e i trasmettitori. La loro classe appare molto potente fin nei tempi più antichi, già all’epoca dei Medi e ancor più a quella degli Achemenidi: era un «mago» quel Gaumata (il «falso Smerdi») che usurpò il trono achemenide nel 522 av. Cr. durante la campagna di Cambise in Egitto; ma, anche dopo l’uccisione di Gaumata, i magi si mantennero sempre potenti nell’Impero persiano e nei regimi successivi, fin verso il secolo VIII dopo Cr. Nel campo culturale essi si saranno anche occupati del corso degli astri come tutte le persone colte a quei tempi e in quelle regioni, ma astrologi e fattucchieri certamente non erano: ché anzi, come discepoli di Zarathushtra e fedeli trasmettitori dell’«Avesta», essi dovevano essere i naturali nemici delle dottrine astrologiche e mantiche dei Caldei, le quali sono recisamente condannate nell’«Avesta».
1) Erodoto afferma che «magi era il nome di una tribù della Media, e può darsi che ai tempi di lui i «magi» con le loro prerogative e leggi particolari costituissero una casta chiusa e una specie di tribù; ma il loro nome è certamente assai più antico. Già nelle «Gatha» ricorre il termine «magavan» e nell’«Avesta» recente il termine «mogu» (antico persiano «magu»), quali aggettivazioni del nome «maga» - «dono», e hanno il significato di «partecipe del dono»; ora, poiché già nelle «Gatha» col termine «dono» è designata la dottrina di Zarathushtra, evidentemente i partecipi del «dono» cioè i «magi» sono i fedeli di Zarathushtra, ossia i suoi discepoli. Difatti autori greci antichi e accreditati, quali Xantos, Ermodoro e Aristotile, convengono nel presentare i «magi» come seguaci di Zarathushtra, e definiscono la loro dottrina una filosofia «chiarissima ed utilissima»: per questi autori il primo «mago» fu Zarathushtra stesso. Bisogna scendere ad autori posteriori, specialmente a Bolos di Mendes, fondatore della scuola neopitagorica e naturalista di Alessandria, per trovare i «magi» presentati come astrologi e stregoni, e confusi perciò in parte con i Caldei babilonesi e in parte con i maghi egiziani; tuttavia più tardi, in Babilonia, anche i magi fecero di Zarathushtra un astrologo. Per tutto questo argomento, cfr. G. Messina, «Ursprung der Magier und die zarathustrische Religion», Roma 1930; id., «I Magi a Betlemme e una predizione di Zoroastro», Roma 1933; id., «Una presunta profezia di Zoroastro sulla venuta del Messia», in «Biblica», 1933, pagg. 170-198.
I Magi ed Erode
tratto da: Giuseppe RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, Mondadori, Milano 1999, § 254-255.
§ 254
Erano proprio stranieri quei Magi e non sapevano proprio nulla delle condizioni politiche di Gerusalemme, giacché appena entrati si dànno a domandare: “Dov’è il nato re dei Giudei?” Di re dei Giudei non c’era altri che Erode; bastava del resto conoscere un pochino il carattere di costui (§ 9 segg.) per star sicuri che un suo eventuale competitore, appena si fosse mostrato, avrebbe avuto i giorni e anche le ore contate. Perciò, nell’interesse stesso del bambino ricercato, quella domanda era pericolosa nella sua ingenuità.
I primi cittadini interpellati rimasero stupiti, e anche un po’ turbati, perché una domanda di quel genere fatta da quegli ignoti personaggi induceva a subodorare tenebrose congiure, le quali si sarebbero portate appresso i soliti sconvolgimenti civili e le stragi di gente sospetta. Passando di bocca in bocca la domanda pervenne a gente della corte, e quindi anche ad Erode.
Il vecchio monarca, che per sospetti di congiure aveva già ammazzato due figli e stava per ammazzarne un terzo, non poté non turbarsene; ma capì subito che, se una minaccia c’era, era ben diversa dalle altre. La sua polizia segreta, egregiamente organizzata, (1) lo teneva informato dei minimi fatti che accadevano in città, e in quei giorni non era stato riferito assolutamente nulla d’inquietante; d’altra parte dalla lontana Persia non si dirigevano facilmente le fila d’una congiura, né si sarebbero inviate sul posto persone così inesperte e ingenue come quei Magi. No, qui doveva esserci sotto qualcosa d’altro genere, qualche ubbìa religiosa, molto probabilmente la fisima di quel Re-Messia che i suoi sudditi aspettavano ma che egli non aspettava affatto. Ad ogni modo era bene premunirsi, dapprima informandosi chiaramente in proposito, eppoi giocando d’astuzia.
Trattandosi di beghe religiose, Erode consultò non l’intero Sinedrio (§ 58) ma quei suoi due gruppi ch’erano più versati in simili faccende, cioè i “sommi sacerdoti e gli Scribi del popolo” (§§ 41, 50), e propose loro il quesito astratto e generico “dove il Cristo (Messia) debba nascere” [...]. Egli cioè voleva sapere quale sarebbe stato, secondo le tradizioni giudaiche, il luogo di nascita dell’aspettato Messia: saputo ciò, avrebbe provveduto egli a servirsi di quei semplicioni di Magi per fare i suoi propri conti col neonato re dei Giudei.
I consultati risposero che il Messia doveva nascere a Beth-lehem, e citarono a prova il passo di Michea, 5, 1-2, che nel testo ebraico dice: “E tu Beth-lehem Efrata, piccola pur essendo nelle ripartizioni (2) di Giuda, da te per me uscirà (colui che) sarà dominatore in Israele, le cui uscite (origini) dall’antichità, dai giorni eterni. Perciò (Dio) li consegnerà (in potere dei nemici), fino al tempo in cui la partoriente partorirà”. Si noterà che questo passo non è riprodotto né integralmente né con queste precise parole dalla risposta dei dottori consultati, qual è riferita da Matteo (§ 252); ad ogni modo c’è l’essenziale, cioè la designazione di Beth-lehem come luogo d’origine del Messia, e in tal senso si esprime anche il Targum allo stesso passo. Questa designazione era dunque tradizionale nel giudaismo di quei tempi.
Ottenuta questa risposta, Erode dovette rimanere perplesso. Beth-lehem era un paesucolo qualunque, in cui la sua polizia segreta non gli segnalava assolutamente nulla di sospetto; tuttavia quel complesso di stella, di sconosciuti Magi, e specialmente quell’appellativo di re dei Giudei, mentre da una parte stuzzicavano la sua curiosità, dall’altra disturbavano alquanto la sua tranquillità. Per soddisfare dunque alla prima e provvedere alla seconda, non rimaneva che servirsi degli stessi Magi, in maniera tale da non destare i sospetti né di loro né di altri.
1) Come la polizia segreta di Erode sorvegliasse minutamente il popolo di Gerusalemme e come a sua volta il popolo odiasse le dissimulate spie del monarca, risulta dalla narrazione di “Antichità giud.”, XV, 284-291.
2) Ripartizioni è in ebraico letteralmente “migliaia”, perché le antiche ripartizioni della popolazione avevano per base il migliaio.
§ 255
Questo piano fu attuato. Erode fece chiamare i Magi “di nascosto” (Matteo, 2, 7), perché non voleva né apparire troppo credulo dando importanza a gente forse squilibrata, né rinunciare alle sue misure di precauzione. Interrogatili quindi accuratamente sul tempo e modo dell’apparizione della stella, li lasciò andare a Beth-lehem : cercassero bene il neonato, e appena trovatolo ne informassero lui, perché sarebbe venuto anch’egli laggiù ad adorarlo.
Mandare appresso a quei buffi orientali un manipolo di soldati con qualche ordine segreto sarebbe stato un provvedimento più sicuro, dispensando il vecchio monarca dall’aspettare la notizia che il bambino era stato trovato: ma lo avrebbe anche esposto alle beffe dei suoi sudditi, giacché in tutta Gerusalemme non si faceva che parlare di quella strana comitiva, pur prevedendosi con certezza che tutto sarebbe finito in una scena da ridere e che quegli orientali sarebbero risultati sognatori esaltati. Ad ogni modo essi, com’erano passati allora per Gerusalemme, così dovevano ripassarci al loro ritorno, e quindi Erode li avrebbe avuti sempre a sua disposizione.
I Magi, dopo l’udienza reale, “partirono. Ed ecco la stella, che videro nell’Oriente, li precedeva finché venendo stette sopra dov’era il bambino. Ora vedendo la stella, godettero di gaudio assai grande. E venuti nella casa, videro il bambino con Maria la sua madre, e caduti l’adorarono: e aperti i loro forzieri, gli presentarono doni, oro, incenso e mirra. E ricevuta rivelazione per sogno di non ritornare da Erode, per altra strada si ricondussero alla loro regione” (Matteo, 2, 9-12). La narrazione è ristretta alle sole linee principali e astrae da tempo e da luogo. Se ne raccoglie tuttavia che i Magi passarono almeno una notte a Beth-lehem, giacché vi ricevettero rivelazione per sogno, e non è escluso che vi rimanessero anche più d’un solo giorno; si raccoglie pure che la famiglia di Giuseppe, abbandonata la grotta, si era ricoverata in una casa (§ 249).
Avviandosi per rendere omaggio a un «re», i Magi avevano preparato donativi come esigeva l’etichetta orientale. La reggia di Erode in Gerusalemme splendeva d’oro, e lungo i suoi ambulacri i bruciaprofumi esalavano vapori d’incenso e di resine odorifere. Altrettanto avveniva in quel suo suntuoso Herodium ove il suo fiero costruttore sarebbe stato sepolto fra pochi mesi e che si elevava a poca distanza da Beth-lehem (§ 12), forse più d’una volta i pastori di là, aggirandosi alle falde della sua collinetta, ne avevano intravisto i riflessi aurei delle sale ed erano stati raggiunti dalle folate di profumo che ne uscivano. Conforme al cerimoniale delle grandi corti i Magi offrirono oro, incenso e quella resina profumata che tutti i Semiti chiamavano «mor», da cui il nostro nome di «mirra». Erode stesso largheggiava in donativi con altri monarchi, specialmente se più potenti di lui: ad esempio, proprio in quei giorni, egli nel suo testamento lasciava ad Augusto un legato di ben 1000 o anche 1500 talenti (“Guerra giud.”, I, 646; II, 10; cfr. “Antichità giud.”, XVII, 323), somma altissima anche per quei tempi, che però fu rifiutata signorilmente da Augusto. I Magi certamente non poterono essere munifici quanto Erode, ma in compenso ebbero la gioia di vedere accettati i loro doni e inoltre d’accorgersi ch’erano opportunissimi: se tutti e tre i doni riconoscevano la dignità regale del neonato, specialmente l’oro arrivava come una provvidenza per restaurare le finanze di quella corte, la quale di suo non aveva né un tetto e forse neanche un mezzo siclo, dopo averne lasciati cinque interi al Tempio di Gerusalemme (§ 249).
Compiuti gli omaggi, i viaggiatori dopo qualche tempo ripartirono alla volta del loro paese, ma non passarono per Gerusalemme e Gerico, bensì forse per l’altra strada che toccando la fortezza erodiana di Masada costeggiava la spiaggia occidentale del Mar Morto. E di loro non si seppe più nulla. (1)
1) Per i razionalisti l’episodio dei Magi è, naturalmente, una leggenda: parecchi di essi poi ritrovano l’occasione del formarsi della leggenda nel viaggio che Tiridate re d’Armenia fece per venire in Italia ad ossequiare Nerone, e che è accennato da Plinio (“Natur. hist.”, XXX, 2, 16), da Tacito (“Annal.”, xv, 24, 29), da Svetonio (“Nero”, 13), e narrato ampiamente da Cassio Dione (LXIII, I, 1 segg.). Senonché fra i due viaggi non esiste la minima somiglianza, perché quello di Tiridate è fastoso, solenne, teatrale nel suo tragitto e nelle sue accoglienze in Italia (basta leggere Cassio Dione), mentre quello dei Magi è tutto all’opposto; l’unica analogia puramente verbale è, come dice Plinio, che Tiridate “magos secum adduxerat”, i quali però sono presentati in senso sfavorevole come maestri d’arti occulte. Ma, oltre a ciò, il viaggio di Tiridate avvenne nell’anno 66, e se ebbe risonanza nella Siria attraversata e nell’Italia raggiunta, non interessò affatto la Palestina; perciò, in precedenza, bisognerebbe dimostrare che il racconto dei Magi di Beth-lehem fu scritto dopo il 66, e che il viaggio di Tiridate fu argomento notissimo anche in Palestina. Finché questi punti non siano dimostrati, anche astraendo dal resto, la suddetta ipotesi si presenta come del tutto arbitraria e fantastica.
Magi da dove venite?
tratto da: Avvenire, 6.1.1999.
L’unico a parlarne è Matteo. Ecco dove ci portano le tracce dei re che andarono ad adorare il Salvatore
Per la tradizione si chiamavano Melchiorre, Gaspare e Baldassarre. E uno era nero. Li guidò una stella dalla lunga coda luminosa
Chi erano, davvero, i magi? E perché re? È logico rifarsi al testo greco (l’aramaico è andato perduto) di Matteo (2, 1-12): il solo dei “sinottici” a narrarci come, essendo nato Gesù in Betlemme di Giudea al tempo di re Erode III il Grande, giunsero là alcuni «magusàioi» venuti “dall’Oriente” in cerca del “re dei giudei”, del quale avevano scorto “la stella”. Erode, convocati i sacerdoti e i saggi d’Israele, chiese loro dove sarebbe nato il Messia: essi risposero che ciò sarebbe avvenuto in Betlemme, com’era stato annunziato dal profeta Michea. Il re ricevette allora segretamente i «magusàioi» e accuratamente li interrogò sulla stella prima di congedarli raccomandando loro di fargli sapere dove fosse il Bambino in modo che anch’egli potesse recarsi ad adorarLo. I «magusàioi» ripartirono dunque, seguendo la stella che li precedette sino a fermarsi sul luogo dov’era il Bambino: dopo averlo adorato aprirono i loro scrigni, e Gli offrirono oro, incenso e mirra. Quindi, avvisati in sogno di non tornare da Erode, rientrarono al loro paese seguendo un'altra strada.
Quei «magusàioi» potevano essere gli indovini e astrologhi, di solito “caldei”, che riempivano allora l’Oriente; ma resta il dubbio che si trattasse di veri e propri magi iranici, che negli astri scrutavano la venuta di un futuro «Saoshyant», il Difensore-Salvatore-Vincitore periodicamente atteso nel mazdaismo.
Siamo abituati a chiamare “re” i “magi”; a conoscere i loro nomi (Melchiorre, Gaspare, Baldassarre); a ritenere tradizionalmente che almeno uno di loro sia negro; a vederli seguire una cometa dalla lunga coda luminosa. Nulla di tutto ciò nel testo di Matteo: i suoi «magusàioi» provengono genericamente “dall’Oriente”, non se ne conoscono né il nome né il numero, a guidarli è una stella di cui nulla si dice.
Da dove proviene l’immagine tradizionale dei magi? Da dove giungono i molti elementi non riconoscibili nel testo evangelico e affermati viceversa attraverso una lunga tradizione? E perché mai il racconto dei «magusàioi» è solo in Matteo; forse perché è solo un’aggiunta nel testo greco di Matteo, che non c’era in quello aramaico (scomparso) ch’era quello utilizzato da Marco, da cui passò a Luca? O forse si trattò di un episodio “censurato” dagli altri evangelisti in quanto considerato ambiguo e compromettente?
In effetti, un minimo d’imbarazzo dinanzi ai “magi” la tradizione cristiana l’ha sempre mantenuto. I magi figurano anche altrove che non in Matteo, nel Nuovo Testamento, e sono presentati in una luce - giusto e sbagliato che ciò sia - non positiva. Appartiene a tale categoria anche quel Simone che, negli Atti degli Apostoli, propone a Pietro di acquistare per mezzo di danaro la forza che permetteva all’Apostolo di compiere miracoli. E, da “Simon mago” (come l’ha chiamato Dante), si definiscono “simoniaci” tutti coloro che hanno traffico venale di valori spirituali.
I «magusàioi», al tempo di Gesù, erano indovini-astrologi d’origine genericamente “caldea”, quindi siro-mesopotamica: e, per la Giudea, la caldea era senza dubbio a est: che il testo di Matteo sostenga quindi che essi venivano “da Oriente” è un pò banale e generico ma non errato, per quanto vada sottolineato che, all’epoca e per uno scritto vicino-orientale, quel termine “Oriente” non aveva nulla delle risonanze fatidiche e misteriose che può assumere alle orecchie di noialtri occidentali moderni.
Ma la parola «magusàios» era termine semicorrotto, passato dal persiano «mogû» o «magû» attraverso l’aramaico «magusha» a indicare quei semiciarlatani che in qualche modo si rifacevano all’antica scienza dei «magû», la tribù meda che - un pò come quella di Levi tra il popolo di Israele - deteneva il monopolio di rituali e pratiche a carattere magico-astrologico-divinatorio nel mondo persiano mazdaico. Ma una più restrittiva interpretazione propone che già durante l’impero persiano achemenide i «magi» - chiamiamoli d’ora in poi senz’altro così -, colpiti nel VI secolo a.C. da una condanna del Gran Re Serse in quanto esponenti del culto «daivico» (cioè del sistema mitico-religioso prezoroastriano), si sarebbero sparsi per la Caldea degradando al livello di ciarlataneria e di stregoneria la loro scienza originariamente sacrale. Da qui la fama ambigua di quella che poi - dal loro nome - i greci hanno chiamato «maghèi» e i latini «magia»: per quanto il corretto etimo di tale parola si sia perduto sin dall’antichità: lo stesso sant’Agostino, al riguardo, non aveva per nulla le idee chiare.
Eppure, fra I e II secolo d.C., Plutarco era stato molto esplicito. Nel suo «De Iside et Osiride» aveva parlato della concezione dualistica propria del mazdaismo persiano e dei riti dai magi officiati in onore dei due grandi Principi della Luce (Ahura Mazda) e delle Tenebre (Angra Mainyu): per la verità anch’egli lasciava irrisolto il grande tema dell’effettivo rapporto tra magi e ortodossia zarathustriana. Oggi si tende a pensare che, in realtà - a parte gli abusi e le degenerazioni in senso occultistico o ciarlatanesco da parte di qualche esponente autentico o sedicente del loro gruppo -, i magi si proponessero come una casta sacerdotale-sapienzale all’interno della quale, con i segreti del rito e dell’osservazione degli astri, si custodiva il nucleo d’un messaggio in grado di superare il dualismo mazdaico riconducendo Luce e Tenebre a un originario Principio superiore, «Zurvan Akarakana» (il “Tempo Increato”), signore di tutte le cose. L’idea del tempo che ciclicamente si rinnova conduceva il mazdaismo detto appunto “zurvanita” alla costante attesa messianica di un “soccorritore divino” il ruolo del quale sarebbe stato quello di aprire ciascuna era di rinnovamento e di rigenerazione dopo la fase di decadenza che l’aveva preceduta. In tal senso, il mazdaismo si collega all’attesa messianica che, in forme diverse, si riscontra altresì nell’islam, soprattutto in quello sciita e ismailita), ma anche nel mithraismo, nel buddismo, nell’induismo soprattutto vishnuista (si pensi alla dottrina dei successivi avatara, le discese di Vishnu nel mondo sotto forme sempre diverse).
Nel mazdaismo si attendevano tre successive, arcane figure di salvatori e rigeneratori del tempo a venire: l’ultimo di essi, il Saoshyant (“Soccorritore”), sarebbe nato da una Vergine discendente di Zarathustra e avrebbe condotto con sé la resurrezione universale e l’immortalità degli esseri umani. Molte leggende accompagnavano il mito del “Soccorritore”: una stella lo avrebbe annunziato, sarebbe stato stella egli stesso, sarebbe scaturito da una roccia come una scintilla di fuoco che sprizza dalla pietra.
Sappiamo peraltro da Matteo che i magi portarono con loro dei doni. Ciò introduce una variante nell’etimologia della parola che li designa. Difatti, nelle Gatha (i “Canti”, la parte più antica dell'Avesta, la Scrittura sacra mazdaica) il termine maga indica propriamente il “dono”, sia nel senso propriamente sacerdotale e sacrificale di offerta, sia in quello sapienziale di sapere, di conoscenza divina. E il sacerdote, in quanto “partecipe del dono”, e magavan. L’oro, l’incenso e la mirra recati dai magi a Gesù - tre tipi di dono, che stanno alla base forse del numero dei magi stessi, più tardi fissato dalla tradizione - rinvia nella logica testuale di Matteo (una fittissima trama di riferimenti veterotestamentari, volta a comprovare come la nascita di Betlemme adempisse puntualmente le Scritture) agli arabi, ai sabei, ai “re delle isole” citati nel Salmo 72: si tratta di prodotti commerciati abitualmente sulla cosiddetta “Via dell’Incenso”, che dall’Oceano Indiano risaliva la penisola arabica recando al mondo mediterraneo le merci dell’Asia orientale, del Corno d’Africa, dell’Arabia felix.
Per la tradizione esegetica cristiana, i magi sono essenzialmente la «primitia gentium», i primi fra i pagani ad aver riconosciuto e adorato il Signore. Per questo il loro culto fu tanto fortunato, diffuso e radicato tra i convertiti d’origine non ebraica. Ma i testi scritturali canonici fornivano nei loro confronti ben poche indicazioni. Da dove venivano, in realtà? Quanto tempo era durato il loro viaggio? Con che mezzi erano giunti? Che itinerario avevano seguito nell’andata, quale scelsero per il ritorno? Quanti erano? Come si chiamavano?
A fornire, magari in modo contrastante e ridondante, queste e altre informazioni provvide una lunga serie di testi evangelici apocrifi: il Protovangelo di Giacomo (forse anteriore al V secolo) e il Vangelo dello Pseudo-Matteo (un testo aramaico derivante dal precendente e datato al V-VI secolo), il “Vangelo arabo-siriaco dell'Infanzia” (metà VI secolo), il “Vangelo armeno dell’Infanzia” - che pone la nascita di Gesù al 6 gennaio e l’arrivo dei magi al 9 e che fissa a tre il numero dei magi, li chiama per nome e li definisce come re (Melkon re dei persiani, Gaspar re degli indiani, Balthasar re degli arabi).
I temi relativi alla profezia di Zarathustra relativa alla nascita del Soccorritore e alla sua attribuzione a Gesù furono a loro volta sviluppati in testi profetico-esegetici d’origine soprattutto siriaca come il «Liber nomine Seth» (antico: forse del III secolo), il «Libro della Caverna dei Tesori» (secc. V-VI), la «Cronaca pseudoisidoriana» detta anche di «Zuqnin» (sec. VIII) e il «Liber scholiorum» siriaco di Teodoro Bar Konai (VIII-IX secolo). Tali testi furono tutti o in parte, a differenti riprese, tradotti anche in latino: un rifacimento di alcuni di essi è da considerarsi l’«Opus imperfectum in Matthaeum», una cui redazione - originaria? - in greco potrebbe appartenere al IV secolo, da cui sembra dipenderne una latina redatta in ambiente ariano africano tra VI e VII.
Da questi testi ha finito con l’affermarsi, anche grazie al soccorso d’una tenace e splendida tradizione iconica - si pensi alla teoria dei magi nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo di Ravenna -, la nostra tradizione, sostenuta da un acceso dibattito esegetico che dei “tre santi re” ha fatto di volta in volta il simbolo delle tre “razze primigenie” della terra scaturite dai tre figli di Noè, dei tre continenti della vecchia ecumène, dei tre stati del mondo (i sacerdoti, i guerrieri, i produttori), dei tre momenti dell’esistenza umana (la giovinezza, la maturità, la vecchiaia), dei tre aspetti del tempo (il passato, il presente, il futuro).
Ma a dir la verità, il sospetto che nasce dinanzi a un esame della più bella fiaba del mondo è che la si sia fino a oggi letta in modo unilateralmente etnocentrico. Da un lato, essa pare davvero presentare il Cristo come punto d’arrivo e d’incontro, momento perfetto, definitivo di tutte le tradizioni e di tutte le religioni. Dall’altro, però, essa lo collega strettamente a Zarathustra, a Mithra, indirettamente anche a Vishnu e a Buddha in un modo tale da farci chiedere se qualcosa - nella genesi dei sistemi mitico-religiosi tra V secolo a.C. e VII d.C. (da Buddha e da Zarathustra fino all’Imam nascosto degli ismailiti) - per caso non ci sfugga. Qualcosa di profondo e di fondamentale.
L’«Opus imperfectum in Matthaeum» parla di un «Mons Victorialis» al quale ogni mese ascendevano i magi (in quel testo in numero di dodici: come i mesi dell’anno e gli apostoli) per scrutare le stelle. Lì avrebbero avvistato l’astro all’interno del quale era un Fanciullo sormontato da una Croce. Infiniti testi iconici occidentali ripetono quest’evento. Ma nel Seistan, tra Iran e Afghanistan, ogni anno ancor oggi i “parsi” - gli ultimi eredi dei mazdei - si riuniscono ai piedi del monte Usida (il Kuh-i-Khwga, il “Monte del Signore” dell’«Avesta») là dove sta il lago Hamun, dove secondo il XIX «yast» avestico sarebbe stato sparso il seme del profeta Zarathustra. I parsi celebrano la loro riunione al principio dell’equinozio di primavera: che equivale al tempo in cui, secondo la tradizione cristiana, la Vergine ha concepito il Cristo. Usida, «Mons Victorialis»: nell’Avesta, il Soccorritore è chiamato anche «il Vittorioso».
Tre saggi, il bue e l'asino
tratto da: Avvenire, 6.1.1999.
Su un sarcofago del IV secolo in Sicilia compare l'immagine del Presepe
Sono in tre, avanzano in processione, portano doni al Bambino e indossano il berretto frigio. Non c'è dubbio, sono loro: i Magi. La loro immagine - accompagnata a quella che potrebbe essere una delle primissime raffigurazioni della Sacra Famiglia nella grotta di Betlemme - appare per ben due volte sulle pareti del sarcofago di Adelfia, il capolavoro dell'arte paleocristiana in Sicilia che in questi giorni è al centro di «Et lux fuit», la bella mostra documentaria allestita nella Cappella Sveva dell'Arcivescovado di Siracusa [...]
Scoperto nel luglio del 1872 nelle catacombe di San Giovanni a Siracusa, il prezioso sarcofago in marmo del IV secolo conservava i corpi del «comites» Valerio e della moglie Adelfia. Si tratta del più importante reperto di archeologia cristiana in terra siciliana: una vera e propria cattedrale in miniatura, sulle cui pareti sono raffigurati gli episodi salienti della Storia della salvezza. La stessa Adelfia - oltre ad apparire nel ritratto centrale in compagnia dello sposo - viene ritratta nell'atto di attingere alle fonti della salvezza e mentre si presenta davanti al trono di Cristo, che in questa immagine assume anche il significato simbolico della Sapienza del Padre.
Scorrono le sequenze del sacrificio di Isacco e della moltiplicazione dei pani e dei pesci, dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme e della consegna delle Tavole a Mosè, del miracolo delle nozze di Cana e del canto dei giovani nella fornace, in una continua, fitta tramatura fra episodi dell'Antico e del Nuovo Testamento. Una «lectio» per immagini che già anticipa, per molti aspetti, l'interpretazione figurale (il Nuovo Testamento come inveramento dell'Antico, che già ne annuncia le verità) che verrà poi sviluppata nel corso del Medioevo.
"La scena dell'adorazione dei Magi ricorre due volte - osserva il professor Claudio Calvano, che ha partecipato all'allestimento della mostra traducendo, tra l'altro, alcuni testi di Prudenzio e Giovenco, poeti cristiani latini contemporanei alla costruzione del sarcofago -. Sul coperchio vediamo una scena in cui i tre saggi venuti dall'Oriente, caratterizzati dal cappello frigio, adorano un bambino avvolto in fasce e deposto su una mangiatoia. Uno di loro tende un braccio per indicare una stella con sette raggi, mentre reca un piatto con la corona d'oro. Gli altri due portano i grani d'incenso e le fiale della mirra. Ritroviamo la scena sotto il clipeo, con figure di proporzioni ridotte per mancanza di spazio. La Madonna appare adesso seduta su una cattedra e tiene in braccio il Bambino, che si protende nell'atto di ricevere la corona d'oro gemmata offerta dal primo dei tre Magi".
In entrambi i casi a fianco della Vergine appare una figura maschile che potrebbe rappresentare san Giuseppe oppure uno dei pastori giunti per l'adorazione. La stessa incertezza riguarda, del resto, le scene analoghe che incontriamo, per esempio, nel cosiddetto «sarcofago della Natività» conservato presso il museo di Arles (un manufatto di datazione incerta, ma comunque coevo rispetto all'opera in mostra a Siracusa) e nella lastra del loculo di Severa, una lapide del 330 circa che fa parte della dotazione dei Musei vaticani. Se in quest'ultimo caso i personaggi sono disposti in modo quasi identico a quello del sarcofago di Adelfia, il monumento di Arles dispone la scena su due piani, relegando i Magi in basso rispetto alla vignetta della Natività, nella quale compaiono altri due «personaggi» destinati ad avere grande fortuna nei successivi presepi: il bue e l'asino.
Spiega Calvano: "La presenza di questi animali richiama la profezia di Abacuc: «Il Signore sarà riconosciuto in mezzo a due animali». Anche Isaia mette in bocca al Signore il seguente lamento: «Il bue conosce il suo proprietario e l'asino il presepio del suo padrone, ma Israele non mi conosce e il mio popolo non mi intende». I Padri della Chiesa fanno riferimento in genere al secondo profeta. Il bue e l'asino non sono soltanto un indice della modestia del Creatore che si fa uomo, ma racchiude anche un'allusione al simbolismo teologico animale".
Da Oriente seguendo una stella
Mercoledì 25, ore 15
Relatori:
Enrico Gamba
Franco Cardini
Enrico Gamba, docente di Storia della Matematica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia
Gamba: L’ipotesi da cui sono partito è che la stella dei Re Magi sia qualcosa di fisicamente riscontrabile, un avvenimento, qualcosa di astrologicamente interpretabile e visibile nel senso classico, escludendo che si trattasse di una leggenda o di allucinazione.
Questo fu il primo passo, che scartò di mezzo una serie di discorsi sui Re Magi: da dove venivano, quanti erano... tutte cose estremamente controverse. Il poco di solido che c’era era il terreno astronomico-astrologico.
Una delle eredità che l’Occidente ha avuto dall’Oriente è l’astrologia: fino a tutto il 1600, astronomo e astrologo erano parole sinonime. Dall’astrologia non dipendevano soltanto i destini umani cioè l’oroscopo, ma l’astrologia era legata alla medicina, per cui dalle stelle dipendevano le diagnosi e addirittura la terapia delle malattie. Gli astronomi si guadagnavano da vivere perché facevano gli astrologi. E le due cose erano unite, perché era insensato osservare il cielo per puro spirito di conoscenza.
Keplero fu un grande astrologo; anche Galileo fece oroscopi, sebbene nell’edizione nazionale delle sue opere fatta nell’epoca positivistica non siano stati inclusi. Newton scrisse molto più di alchimia che di fisica; l’astrologia era coltivata in un certo contesto, per il quale non si osservava il cielo per il gusto di osservarlo, ma per vedere dei segni, per capire quello che sarà del destino umano.
Circa la stella dei Re Magi, le due ipotesi fatte sono che, se fu un evento celeste, questo evento o fu un fenomeno o fu un oggetto. Se noi diciamo che quella dei Magi è una cometa parliamo di un oggetto; se invece diciamo che la stella dei Magi fu una congiunzione tra Giove e Saturno è un fenomeno, perché significa che Giove e Saturno ad un certo punto compaiono nel Cielo molto vicino.
Quale delle due ipotesi è vera?
Ognuna ha la sua veridicità e la sua falsità, anche se in parte coincidono perché il testo evangelico ci parla di un avvenimento che aveva un significato astrologico, anche se abbastanza misterioso, perché i Magi che sono arrivati sono due, tre, al massimo dodici. Se avesse avuto un significato univoco, a Gerusalemme avremmo avuto una folla di Magi.
Un altro elemento che hanno in comune le due ipotesi è questo: la cometa appare, scompare quando è in congiunzione col sole, e riappare; e la stessa cosa succede per Giove e Saturno, perché nel 7 a.C., data ipotetica della congiunzione, essa si è verificata per ben sette volte. Quello che sembra far pendere – per quanto è possibile nel campo dell’opinabile totale – la bilancia dalla parte della congiunzione, è il fatto che questa stella sembra essere qualcosa di privato dei Magi e non un avvenimento astronomico eclatante. Dal contesto evangelico, si comprende che la stella è qualcosa che solo persone in possesso di un particolare sapere, con un accesso a recondite cognizioni potevano capire, quindi non un fenomeno, come quello cometario, estremamente eclatante e visibile in tutta la Terra. Oltre all’astrologia, anche l’astronomia fu ereditata dall’Oriente (coltivata in zona mesopotamica) ed ha grandemente influenzato quella occidentale: dall’Oriente abbiamo ricevuto la divisione dell’angolo giro in 360 gradi, un sistema sessagesimale, lo zodiaco, ovvero la fascia di riferimento in cui si muovono il Sole e i pianeti, i 12 segni zodiacali, le coordinate a cui gli astronomi ancora oggi riferiscono i corpi celesti e i loro movimenti...
I Magi quindi non sono usciti casualmente, sono usciti da una tradizione astronomica estremamente sofisticata e lunga. Tolomeo, nell’Almagesto, scritto fra il II-I secolo a.C., dice che i Babilonesi avevano registrazioni pressoché complete delle eclissi dal 750 a.C.. Si tratta, dunque, di un’astronomia che viene da una lunghissima serie di osservazioni, ed estremamente diversa da quella greca.
L’astronomia a cui siamo abituati, che leggiamo nelle scuole, è un’astronomia geometrica: siamo abituati all’idea del corpo celeste che si muove su una certa orbita lungo un certo tempo, e che quindi occupa un certo numero di posizioni in maniera continua durante il tempo. Questa è l’astronomia greca, l’idea di dare ai corpi celesti un moto continuo lungo traiettorie geometricamente determinate (non importa se circolari o ellittiche).
L’astronomia babilonese è aritmetica, mentre quella dei greci è geometrica: i babilonesi non sono interessati al moto complessivo delle stelle o dei pianeti, ma a determinati fenomeni: "quando Giove si congiungerà a Saturno, quando ci sarà la prima falce di luna piena, quando ci sarà un’eclisse lunare, quando ci sarà il sorgere di una stella"?
Per questo senso ci saranno una serie di conti aritmetici eseguiti mediante somme e sottrazioni; moltiplicazioni di determinati parametri numerici determinano il momento, il luogo e l’ora delle posizioni del giorno di questi particolari avvenimenti.
Questa astronomia è stata completamente occultata dall’astronomia greca: infatti la scoperta dell’astronomia babilonese è abbastanza recente, essendo avvenuta per merito di alcuni gesuiti che poco più di 100 anni fa hanno decifrato le tavolette astronomiche del British Museum.
Franco Cardini, Presidente dell’ENEC e Docente di Storia Medievale alle Università di Bari e Firenze
Cardini: Le mie osservazioni saranno abbastanza sparse, rapsodiche, sulla tradizione folklorica e mitografica.
Sappiamo che dei Magi vennero dell’Oriente, si informarono su questo bambino, fu detto a loro che il Bambino doveva nascere a Betlemme secondo la tradizione profetica ebraica che essi in qualche modo conoscevano, e andarono lì. Non si sa bene chi erano questi Magi.
Nella "koinè dialectos", la lingua corrente in tutto il Vicino Oriente, da est rispetto a Roma fino all’Eufrate, ovvero il greco parlato in genere dai non greci, il termine per indicare i magi, magusaioi, è un termine un po’ buffo, strano, un impasto linguistico ambiguo. Esso è evidentemente peggiorativo: sono gli imbroglioni, i ciarlatani, gli astrologi, i profeti. Conosciamo anche dalla tradizione neo-testamentaria Simon Mago: non sono personaggi che godono di buona stampa, soprattutto nella tradizione cristiana. Però sono i primi fra i pagani che si rendono conto della regalità, della divinità del Cristo, della compresenza in Lui delle tre dimensioni: regalità, divinità, umanità a cui si può far riferimento facendo l’esegesi dei tre doni. L’incenso rimanda a Dio, l’oro, quindi, la potenza terrena, al re, e la mirra all’immortalità. La mirra, infatti è una pianta da cui si estrae l’unguento che serve per imbalsamare i corpi: morte, ma anche imbalsamazione che rende i corpi refrattari alla corruzione, quindi immortalità, e questo morte-immortalità non solo nel cristianesimo, ma in tutte le religioni è il destino dell’uomo.
Questi filosofi, medici, scienziati, astronomi, si sono resi conto che stava succedendo qualcosa di importante, il cui segnale era un segno astrale, una stella. Nella cultura "maznadica" era molto sentito il problema della nascita del restauratore, il quale annunziato da una stella, non solo nascerà in una grotta, ma anche da una grotta, quasi come se la sua struttura fisiologica fosse annunciata dal cielo, ma poi partorita dalla terra, nascerà misteriosamente dal grembo di una vergine. Avrà compagni animali particolari, il toro e l’onagro, che non sono esattamente i nostri bue e asino, ma sono i loro parenti "più nobili" (ammesso che ci sia una graduatoria).
Dietro questo quadro, a noi familiare, probabilmente c’è il rapporto tra l’ebraismo (Gesù nasce in un ambito di attesa vivificato dalla tradizione ebraica) e la tradizione alessandrina. E’ qualcosa di molto straordinario a livello dell’incontro fra religioni, che pone Cristo come punto di incontro tra l’ebraismo e quelle che noi molto genericamente e quasi volgarmente chiamiamo religioni pagane.
Accanto a questa, c’è anche una tradizione negativa, che vede i magi non solo come ciarlatani, ma anche come manovratori di forze occulte, di forze demoniache che esistono, ma che di per sé non vanno evocate.
Quindi, per un verso abbiamo una tradizione ellenistica che presenta i Magi come operatori del sacro, dall’altro verso la tradizione condannatrice degli Atti degli Apostoli. La tradizione cristiana si è trovata con questo problema non risolto, costituito da questi tre personaggi (per la verità in alcuni Vangeli apocrifi sono tre, in altri dieci, nove, dodici, ciascuno dei quali ha un nome, a ciascuno dei quali corrisponde un Regno). Evidentemente c’è stata una scissione quasi schizofrenica in tutta la tradizione cristiana, che viene osservata dal fatto che i Magi di Gesù vengono fatti oggetto di un mutamento di stato, mentre gli altri Magi, i Maghi, vengono assegnati ad una tradizione negativa, condannatoria, che poi durerà fino al rinascimento ed oltre.
Dei Magi, Matteo dice poco, ma in cambio ci sono numerosissimi apocrifi, arabi, siriani, armeni ecc., che parlano in continuazione di questi Magi, che fanno l’esegesi della loro figura, ne parlano dicendo che erano sacerdoti ma li presentano anche come re temporali; questa tradizione viene accolta anche da Tertulliano, e la ritroviamo nell’iconografia occidentale, dopo l’XI secolo. I Magi sono presentati come sapienti persiani, con riferimenti filologici molto precisi al costume nazionale persiano. Questa tradizione scompare man mano che l’Occidente si allontana dall’Oriente, e l’abito persiano, il berretto che noi comunemente chiamiamo ‘Frigio’, ma che bisognerebbe più correttamente chiamare ‘persiano’ – non dicono più nulla all’Occidente latino-germanico che nel frattempo si è ‘imbarbarito’. I Magi assumono un andamento sempre più formalizzato, diventano un numero specifico (tre), ognuno prende un nome (di origine evangelico apocrifa), ma divengono figure per così dire disincarnate rispetto alla storia.
Nell’XII secolo abbiamo un rinnovato incontro fra Oriente e Occidente e di conseguenza anche il mito dei Magi si modifica. Si recupera la tradizione che faceva dei Magi anche dei Re, secondo la tradizione apocrifa-evangelica; nel XII e XIII secolo, assistiamo ad un grosso boom del culto dei Magi. I Magi avevano come tutti i culti Medievali prodotto delle reliquie. In pieno XII secolo, si viene a scoprire che a Milano ci sono delle reliquie veneratissime dei Magi, di cui stranamente non si sapeva nulla prima.
L’arcicancelliere dell’Impero si impadronisce di queste reliquie e le porta nel suo duomo di Colonia: Colonia, da allora in poi, diventerà un centro per definizione del culto dei Magi, centro addirittura di un pellegrinaggio dedicato ai Magi. Il culto dei Magi invade l’Europa, addiritttura invade il teatro europeo, ci sono decine e decine di sacre rappresentazioni, ‘ludistella’, dedicate ai Magi.
Un secolo dopo noi abbiamo l’invasione mongola che arriva fin quasi al Reno, durante la quale cominciano a circolare delle leggende, secondo cui i mongoli sono in qualche modo discendenti dai Magi, e la loro invasione dell’Europa mira a impadronirsi del Santuario di Colonia. Da questo momento l’iconografia cristiano-occidentale si impadronisce fortemente della tradizione secondo cui i Magi non sono genericamente re, ma re orientali. Attraverso il culto dei Magi e l’iconografia dei Magi assistiamo all’elaborazione primitiva di quello che noi oggi chiamiamo esotismo. Infatti penetra fortemente nella nostra letteratura e nella nostra iconologia l’elemento della ricostruzione dei culti delle cerimonie, dei costumi, degli aspetti fisiologici, addirittura delle mentalità che genericamente si chiamano orientali, d’un Oriente estremamente vasto che va da Tunisi e arriva fino alla Cina e che viene fortemente tipizzato dalla cultura occidentale, che lo rivive, che lo rielabora continuamente, disincarnandolo rispetto alla realtà dei molti Orienti presenti nella storia effettiva.
Il crescere degli interessi astrologici, il ritorno nel mondo tardo medievale del ‘400 delle filosofie soprattutto greco-orientali e più propriamente gnostiche, fa sì che dei Magi ci si possa impadronire con maggior sicurezza filologica a partire dal ‘400. In questo periodo abbiamo trattati filosofico-religiosi-astrologici, uno dei quali dà il nome proprio alla mostra, il "De Stella Magorum" scritto niente meno che dal grande traduttore di testi greco orientali alla corte dei Medici, Marsilio Ficino, dove si ha finalmente lo statuto definitivo del Mago che va alla mangiatoia del Cristo bambino. Il Mago non è solo sapiente, ma esegeta di tutte le tradizioni pagane, che vengono "battezzate", per così dire, cristianizzate nel momento stesso in cui questi saggi si recano a rendere omaggio alla mangiatoia del Bambino.