DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Rassegna Stampa del 25 febbraio 2010

Don Giussani e il suo Dio di carne e ossa


«Per me che non l’ho mai visto, quest’uomo conosciuto soltanto nella sua eredità ha riedificato quella struttura umana cristiana che la mia generazione aveva perduto». Marina Corradi ricorda il fondatore di Cl

di Marina Corradi
Avrò avuto nove anni quando un giorno, guardando in giù dal finestrino di una funivia delle Dolomiti, notai un fiore viola, solo, bellissimo, abbarbicato sulle rocce a picco, sospeso sull’abisso. È strano come certe cose apparentemente insignificanti ti restino in mente: mi ricordo che mi domandai che senso avesse quel fiore così bello, in una piega della roccia in cui non lo avrebbe visto mai nessuno. Però non posi neppure la domanda agli adulti che erano con me. Non ero certa che fosse una domanda sensata.
Quel fiore del monte Faloria, nella mia memoria, è legato a don Luigi Giussani. Benché io Giussani non l’abbia mai conosciuto. L’ho solo letto, ho solo incontrato gente che lo ha seguito. Sono una “figlia” indiretta, come potrebbero esserlo i ragazzi di oggi, che la sua faccia non l’hanno vista mai.
Dunque, quel fiore era in realtà una faccenda importante. Col suo splendore gratuito speso su un anfratto irraggiungibile, interrogava sulla bellezza, e sul significato della bellezza. E perché poi una bambina doveva restarne tanto stupita e stranamente commossa? In fondo era solo un fiore. Passarono tanti anni da quel giorno in funivia. A venticinque anni io ero il tipico prodotto della cultura in cui ero vissuta. Sprezzante verso la Chiesa, acre verso ciò che del cristianesimo mi era stato tramandato: brandelli di un catechismo moralista e triste, di un pio appello a essere “buoni”, senza che se ne capisse la ragione. Nulla che potesse interessarmi. Senonché ero triste, e a volte quasi disperata: l’educato nichilismo in cui vivevo non mi bastava. Don Giussani, attraverso la voce di alcuni dei suoi, nei suoi libri, è stato per me l’uomo capace di ribaltare l’idea che mi ero fatta del cristianesimo. Di rovesciarla, riportandola all’essenza rivoluzionaria dell’origine. Che è: Dio si è fatto uomo. Verbum caro factum est. Duemila anni fa è nato un bambino che era il figlio di Dio. Ha predicato, è stato amato, è morto in croce ed è risorto. Tutto comincia da una storia di carne, tutto è concreto. Non è un’idea, non è un nobile “valore”: è un uomo, è quell’uomo, il cristianesimo.
Si dirà che tanti nella storia della Chiesa hanno ripetuto la stessa cosa. Certo, ma nei nostri anni, e soprattutto per i figli dei borghesi come me, Giussani ha saputo ridirlo con una straordinaria efficacia. Parlava la lingua giusta. Capiva da quali delusioni venivamo, si era accorto prima degli altri, ascoltando gli studenti del Berchet negli anni Cinquanta, di quanto formale e vuoto era diventato ormai, per molti, il cristianesimo. E il ripartire dal fatto, dal nascere di quell’uomo nella carne, comporta la pretesa cristiana di incidere pienamente nella storia: di avere a che fare con tutto ciò che l’uomo fa.
Quindici anni fa andai a intervistare un intellettuale laico allora molto in voga. Si parlava di smarrimento dei giovani, e dei soliti “valori” perduti. Tutto in astratto: perché, come disse il professore con sussiego, «Dio, se anche c’è, non c’entra». Ecco, ho amato Giussani proprio perché era il contrario di quell’intellettuale noioso e annoiante, e inutile col suo invocare vaghe utopistiche etiche. Ho amato Giussani con il suo Cristo di carne e ossa, con la sua orgogliosa pretesa di un Dio che c’entra con ogni uomo, con ogni istante della vita. Quel Cristo che è «tutto in tutti», come scriveva Paolo, nel vigore delle origini.
E però, insieme a questa totalità di pretesa, altrettanto grande è in Giussani l’amore per la libertà. Educava – mi hanno raccontato i suoi amici – ad aderire nella pienezza della ragione. Mai per conformismo, moralismo, abitudine. Ammettendo dunque implicitamente la possibilità di rifiutare, di sbagliare, di andarsene: perché siamo liberi. E di ritornare: perché il nostro Dio è misericordioso.

La ragione usata fino al culmine
Ha insegnato a usare la ragione fino al suo culmine: l’ammettere che c’è qualcosa che la supera, l’ammettere che siamo “fatti da”, che siamo creature. Questione determinante, in un tempo che fa dell’autosufficienza dell’uomo il proprio vero dogma. È il crinale che ci divide oggi: siamo creature o padroni assoluti di noi? A quanti ragazzi, allontanati da un cristianesimo che aveva ridotto la sua speranza a una morale, Giussani ha saputo dire, ha trovato le parole per dire che siamo “figli”. Figli di un padre che ci ha dato una vocazione: cioè un compito. Che dunque siamo qui a fare qualcosa di importante, non a ingannare il tempo. Che non andiamo verso il nulla, ma verso un destino. E che quel destino, qualsiasi siano le circostanze, è buono.
Per me, che Giussani non l’ho mai visto, quest’uomo conosciuto soltanto nella sua eredità di affetti e parole è stato un ricostruttore: ha riedificato quella struttura umana cristiana che molti della mia generazione avevano perduto. Ci ha detto che è vero ciò in cui credevano i padri dei padri; che ha un senso sposarsi per sempre, e avere dei figli, e continuare la storia. (Come il restauro di un tesoro sommerso, ossidato dal tempo, confuso nella memoria).
E il fiore del monte Faloria? Beh, quel fiore è una faccenda fondamentale. Perché la bellezza, ho imparato nei libri di Giussani, è segno, che potentemente rimanda all’Altro. Orma sui nostri sentieri, lasciata per chi liberamente voglia riconoscerla. O apparentemente abbandonata in terre senza nessuno, come quella genziana. Gratuitamente, verginalmente adorante il suo creatore. Come forse infantilmente avevo intuito – fedele a una domanda originaria – quel giorno in montagna. E poi dimenticato. Quel prete mai incontrato mi ha spiegato che tutto è ancora e sempre vero. Da quell’istante che ha tagliato la storia, con il vagito di un bambino.

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Pakistan: le conversioni all'islam sono pagate coi soldi e col sangue

Islamabad (AsiaNews) – Prima lusingato con offerte di denaro, una casa, mogli e favori dall’imam locale; poi picchiato fino a svenire e minacciato di morte dai fratelli. È quanto accaduto a Riaz Masih, cristiano 26enne di Kallur Kot, cittadina del Punjab in Pakistan, colpevole di essersi rifiutato di convertirsi all’islam. La vicenda risale ai primi di febbraio ed è raccontata da Compass Direct News (Cdn), che raccoglie testimonianze di cristiani perseguitati per la loro fede.

I genitori di Riaz Masih, di fede cristiana, sono morti quando era ancora giovane. Egli, insieme ai fratelli e alle sorelle, è cresciuto sotto la guida di Moulvi Peer Akram-Ullah, l’imam locale. Più volte il leader musulmano ha cercato di convertirlo all’islam, senza riuscirvi.

L’8 febbraio scorso, racconta Masih (nella foto), hanno saccheggiato la sua abitazione a Kallur Kot, cittadina del Punjab, 233 km a sud-ovest della capitale Islamabad. “Mi hanno minacciato – afferma – dicendo che si era arrivati al punto di non ritorno: conversione all’islam, oppure la morte”. Secondo il racconto del giovane, i fratelli lo incalzavano dicendo che “uccidere un infedele non è peccato” e, al contrario, rientra nei “pieni diritti in nome di Dio onnipotente”.

In precedenza, l’imam Akram-Ullah e i fratelli gli avevano offerto un milione di rupie (circa 12mila dollari), una moglie a scelta e una casa per abbracciare la religione di Maometto. Attraverso queste modalità, la guida religiosa islamica aveva convinto i fratelli a convertirsi e abbracciare la visione più fondamentalista dell’islam. Ma il giovane cristiano non ha mai voluto cedere alle lusinghe.

L’organizzazione per i diritti umani Rays of Development (Rod) conferma che i fratelli e le sorelle di Masih sono stati convertiti nello stesso modo. Oggi gli attivisti forniscono aiuti economici, medicine e sostengo psicologico al giovane cristiano, che è stato affidato alle loro cure – quando era ancora ferito – dall’associazione Christian Welfare Organization (Cwo).

Un portavoce di Cwo, in condizione di anonimato, aggiunge che “Akram-Ullah ha offerto ai fratelli e alle sorelle di Masih una casa e dei terreni, insieme a 500mila rupie (quasi seimila dollari) ciascuno, nel caso in cui avessero recitato il kalimah, la professione di fede che segna la conversione all’islam”.


HAITI - Appello del Nunzio ad Haiti: “I seminari e i seminaristi hanno perso tutto. Far tornare alla vita normale i seminaristi è una priorità”


Port au Prince (Agenzia Fides) – Il Nunzio apostolico ad Haiti, l'Arcivescovo Bernardito Auza, ha inviato un rapporto sulla situazione attuale dei seminaristi e un appello a Missio Inghilterra (Pontificie Opere Missionarie), che l’Agenzia Fides rilancia.
La situazione. Il Seminario Maggiore nazionale (Teologia e Filosofia) è crollato, uccidendo 15 seminaristi, un professore e alcuni membri del personale. Un certo numero di seminaristi sono rimasti feriti, due o tre dei quali hanno subito amputazioni. Molti di coloro che sono rimasti intrappolati sotto le macerie sono stati salvati dopo qualche giorno, altri sono stati in grado di uscire da soli. Prima del sisma c'erano 159 seminaristi e 8 Formatori residenti e docenti presso il Dipartimento di Teologia, e 97 seminaristi e 2 Formatori presso il Dipartimento di Filosofia.
La Conferenza Episcopale ha deciso che i 28 seminaristi del quarto anno di Teologia potranno finire l'anno accademico. Saranno alloggiati nelle tende, così saranno ordinati diaconi durante l'estate.
Per mancanza di strutture, i seminaristi di teologia saranno rimandati nelle loro diocesi. I rispettivi Ordinari si organizzeranno con dei professori per lezioni saltuarie, ma perderanno l'anno accademico. Questa decisione forse potrà essere modificata, data la situazione di dipendenza dalle risorse finanziarie e per altre considerazioni. I 97 seminaristi di Filosofia saranno rimandati alle loro rispettive diocesi. Anche loro perderanno l'anno accademico.
Quelli della pre-Filosofia (15 circa), appartenenti alla diocesi di Port-au-Prince, saranno ospitati in locali non ancora definiti.
Di cosa abbiamo bisogno. I seminari e i seminaristi hanno perso tutto. Nulla si è salvato, tranne alcuni libri della biblioteca al terzo piano. Le maggiori esigenze dei seminaristi sono capi di abbigliamento, articoli di biancheria, tende per dormire. Molti dei seminaristi sono stati rimandati nelle loro diocesi, ma le diocesi sono estremamente povere e hanno grande bisogno di assistenza.
Occorre sistemare il luogo delle tende per ospitare i 28 seminaristi di teologia del quarto anno, in modo da facilitarne l'uso (aule, cucine, servizi, ecc).
Bisogna assicurare il vitto e l’alloggio per i suddetti seminaristi, così come per tutti coloro che sono rimasti nelle loro diocesi. Dobbiamo ancora avere un preventivo su questo. La maggior parte delle parrocchie di Haiti non sono in grado di ospitare i seminaristi perché non possono provvedere al loro sostentamento. Haiti era molto povera prima, e ancor più lo è dopo il terremoto.
Occorre acquistare Bibbie e testi fondamentali (Documenti del Concilio Vaticano II, Catechismo della Chiesa Cattolica, ecc) dal momento che quelli che avevano sono andati tutti persi tra le macerie.
Il metodo più semplice, più flessibile e veloce per aiutare questi sfortunati seminaristi è attraverso gli aiuti finanziari che possiamo utilizzare in base alle esigenze più urgenti del momento.
L'Arcivescovo ha aggiunto: “Grazie anche per il vostro impegno a favore dei nostri seminaristi traumatizzati. Noi crediamo che far tornare alla vita ‘normale’ i seminaristi è una priorità. Nessuno qui (tranne pochissimi di noi!) vuole dormire all'interno degli edifici. Questa è un'altra sfida che dobbiamo prendere in considerazione nella ricostruzione”.
Mons. John Dale, direttore nazionale di Missio-Inghilterra e Galles, ha detto: “Missio sarà accanto alla Chiesa di Haiti nel tentativo di ripristinare un senso di normalità. Saremo lì per aiutare l'Arcivescovo Auza e quelli che stanno lavorando per l'assistenza ai Pastori del futuro. Missio ci sarà per tutto il tempo che il popolo di Haiti avrà bisogno di noi e per tutti gli anni che servono".


Non praevalebunt!. Di Antonio Socci

Lei, la Chiesa di Cristo, la Santa Chiesa, che ha subito fin dalla sua nascita le più feroci persecuzioni e che nel XX secolo ha dovuto sopportare il più oceanico macello della sua storia (45 milioni di credenti che hanno perduto la vita, in modo diretto o indiretto a causa della loro fede: dati provenienti da Oxford non dal Vaticano), lei che è stata perseguitata a tutte le latitudini, sotto tutti i regimi (da quello della Cina dei Boxers di inizio secolo, a quello massonico messicano, da quelli comunisti a quelli nazisti e fascisti fino a quelli pagani e a quelli islamici), lei che ha subìto il primo genocidio del Novecento, quello degli armeni. Ma non interessano a nessuno i morti cristiani, le suore rapite, i missionari uccisi i cristiani cacciati da tanti Paesi. E’ forse interessato a qualcuno il lungo genocidio consumatosi a Timor Est o quello ventennale del Sudan ad opera del regime jihadista contro i cristiani del Sud, con due milioni di morti, quattro milioni di profughi e centinaia di migliaia di donne e bambini catturati e venduti come schiavi al Nord? A nessuno. Se ne accorse il New York Times nel 1998.

Ma Gesù lo aveva detto: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”, “hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”, “diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia”, vi trascineranno davanti ai loro tribunali, vi tortureranno, vi metteranno a morte. Infatti non ci si è accontentati di macellare i cristiani: li si vuole anche infangati, disonorati. Anche quando loro – vittime di tutte le ideologie totalitarie – si sono presi cura, pressoché da soli, di altre vittime come i loro fratelli ebrei, anche quando il Papa Pio XII con migliaia di preti e suore, a rischio della loro stessa vita (vedi padre Kolbe), minacciati loro stessi di morte, hanno salvato centinaia di migliaia di poveri ebrei braccati da quell’ideologia pagana che già faceva strage di cattolici polacchi, anche dopo questa immensa e commovente impresa – che dopo la guerra fece sgorgare i più sinceri ringraziamenti dei maggiori esponenti del mondo ebraico e dei tanti salvati (anche esponenti politici avversi alla Chiesa) – anche dopo un evento del genere in cui la Chiesa pressoché da sola (come scrisse Albert Einstein) si oppose al Satana pagano hitleriano, anche dopo ciò alla Chiesa tocca l’onta dell’accusa di razzismo, ideologia biologista che è l’esatto opposto del cattolicesimo e che è nata proprio in odio al cristianesimo…

Ma questa sembra essere la sua sorte: la stessa di Gesù. L’odio del mondo. La mano assassina non è arrivata a colpire perfino il Papa stesso in piazza San Pietro? E già sul suo predecessore, Pio XII, non gravava un progetto di deportazione da parte dei nazisti? E un altro predecessore non era stato già deportato, 150 anni prima, da Napoleone?
Del resto perfino nella democrazie – se proprio non vogliamo ricordare il bagno di sangue cristiano che fu la Rivoluzione francese o le feroci persecuzioni della conquista piemontese (più di 60 vescovi italiani arrestati o esiliati, migliaia di frati e suore cacciati dai loro conventi e la Chiesa espropriata di tutto) – perfino nelle democrazie, dicevo, la Chiesa è odiata, perseguitata.

C’è qualcuno che ricordi come nella Inghilterra madre della democrazia (quella che proprio dalla Chiesa aveva imparato da democrazia con la Magna Charta) oggi, a 500 anni dalla svolta anglicana (imposta da un re tiranno) è ancora proibito a un cattolico diventare cancelliere? Blair ha dovuto aspettare, a dare la notizia della sua conversione, di aver perduto la carica. Pensate se vigesse un’analoga proibizione – che so – per gli atei o gli ebrei, o gli islamici…

E perfino negli Usa si è dovuto aspettare duecento anni perché un cattolico, nel 1960, diventasse presidente americano. E quante rassicurazioni dovette dare Kennedy, attaccato proprio in quanto cattolico che – come tale – non doveva andare alla Casa Bianca (in ogni caso fece subito una brutta fine e nessun cattolico più ci è tornato).

Ma, si sa, è proibito guardare la storia per quello che è. Sempre e solo sul banco degli accusati devono stare i cattolici. Ciononostante la Chiesa non fa mai vittimismo, non polemizza, non si perde in discussioni e controversie. Addirittura per volere di quel grandissimo Papa che è stato Giovanni Paolo II, che pure aveva provato sulla sua pelle sia la persecuzione nazista, che quella comunista e infine le pallottole di Ali Agca, arrivò quel gesto inaudito, stupendo che fu il grande “mea culpa” dell’Anno Santo: dalla Chiesa di Roma, che avrebbe avuto tutti i titoli, alla fine del Novecento, per puntare il dito su tutti i poteri e le ideologie del mondo che l’avevano straziata, venne questo struggente atto di umiltà, perché il mondo sapesse, capisse, che ai cristiani non interessa rivendicare meriti, né interessa aver ragione, ma – riconoscendosi peccatori, ultimi fra gli uomini e veramente indegni del dono che hanno avuto da Dio – a loro interessa solo indicare quel volto bellissimo che ci salva, in cui Dio si è fatto carne ed è venuto a salvarci.

Con il cui amore (cantato attraverso duemila anni di bellezza dagli artisti cristiani) hanno insegnato all’umanità a prendersi cura dei sofferenti, dei derelitti, coprendo il mondo di opere di carità e di ospedali. E ancora oggi, come sempre, la Chiesa quasi da sola, sentendo tutti gli uomini come suoi figli (anche coloro che la odiano), premurosamente fa sentire la sua voce contro l’immane massacro delle vite più indifese e innocenti (un miliardo in 40 anni), contro le risorgenti ideologie della morte, contro l’orrore della fame, dell’industria della guerra, contro l’odio che dilania i cuori e il mondo, contro tutte le violenze.

Ma ancora una volta la Chiesa è per questo vilipesa, oltraggiata, infangata, derisa (ora accusata falsamente di tacere, ora accusata dagli stessi di parlare: sempre in ogni caso odiata). Che spettacolo! Come si fa a non accorgersi che è veramente una cosa dell’altro mondo in questo mondo. E’ divina. Così la considerò uno dei suoi persecutori, arrivato alla fine della vita, nell’esilio di Sant’Elena, Napoleone Bonaparte: “Tra il cristianesimo e qualsiasi altra religione c’è la distanza dell’infinito. Conosco gli uomini e vi dico che Gesù non è (solo) un uomo…”.

I pensieri del Bonaparte, riportati in “Conversazioni religiose” (Editori riuniti), sono di questo tenore: “Tutto di Gesù mi sorprende. Il suo spirito mi supera e la sua volontà mi confonde. Tra lui e qualsiasi altra persona al mondo non c’è possibilità di paragone. E’ veramente un essere a parte... E’ un mistero insondabile… Cerco invano nella storia qualcuno simile a Gesù Cristo o qualcuno che comunque si avvicini al Vangelo… Nel suo caso tutto è straordinario…. Anche gli empi non hanno mai osato negare la sublimità del Vangelo che ispira loro una specie di venerazione obbligata! Che gioia procura questo libro!”. “Dal primo giorno fino all’ultimo, egli è lo stesso, sempre lo stesso, maestoso e semplice, infinitamente severo e infinitamente dolce… Che parli o che agisca, Gesù è luminoso, immutabile, impassibile…”. “Gesù è il solo che abbia osato tanto. E’ il solo che abbia detto chiaramente e affermato senza esitazione egli stesso di sé: io sono Dio…”.

Napoleone constata il suo potere divino nei fatti storici: “Voi parlate di Cesare e di Alessandro, delle loro conquiste e dell’entusiasmo che seppero suscitare nel cuore dei soldati” osservava Napoleone “ma quanti anni è durato l’impero di Cesare? Per quanto tempo si è mantenuto l’entusiasmo dei soldati di Alessandro?”.

Invece per Cristo “è stata una guerra, un lungo combattimento durato trecento anni, cominciato dagli apostoli e proseguito dai loro successori e dall’onda delle generazioni cristiane. Dopo san Pietro i trentadue vescovi di Roma di Roma che gli sono succeduti sulla cattedra hanno, come lui, subito il martirio. Durante i tre secoli successivi, la cattedra romana fu un patibolo che procurava sicuramente la morte a chi vi veniva chiamato… In questa guerra tutti i re e tutte le forze della terra si trovano da una parte, mentre dall’altra non vedo nessun esercito, ma una misteriosa energia, alcuni uomini sparpagliati qua e là nelle varie parti del globo e che non avevano altro segno di fratellanza che una fede comune nel mistero della Croce… Potete concepire un morto che fa delle conquiste con un esercito fedele e del tutto devoto alla sua memoria? Potete concepire un fantasma che ha soldati senza paga, senza speranza per questo mondo e che ispira loro la perseveranza e la sopportazione di ogni genere di privazione?... Questa è la storia dell’invasione e della conquista del mondo da parte del cristianesimo… I popoli passano, i troni crollano e la chiesa rimane! Quale è, dunque, la forza che mantiene in piedi questa chiesa, assalita dall’oceano furioso della collera e dell’odio del mondo? Qual è il braccio, dopo diciotto secoli, che l’ha difesa dalle tante tempeste che hanno minacciato di inghiottirla?”


Se un esorcista in Vaticano scopre di avere molto da fare

Roma. Satanisti in Vaticano? “Sì, anche
in Vaticano ci sono membri di sètte sataniche”.
E chi vi è coinvolto? Si tratta di
preti o di semplici laici? “Ci sono preti,
monsignori e anche cardinali!”. Mi perdoni,
don Gabriele, ma Lei come lo sa? “Lo
so dalle persone che me l’hanno potuto riferire
perché hanno avuto modo di saperlo
direttamente. Ed è una cosa ‘confessata’
più volte dal demonio stesso sotto obbedienza
durante gli esorcismi”. Il Papa
ne è informato? “Certo che ne è stato
informato! Ma fa quello che può. E’ una
cosa agghiacciante. Tenga presente poi
che Benedetto XVI è un Papa tedesco,
viene da una nazione decisamente avversa
a queste cose. In Germania infatti praticamente
non ci sono esorcisti, eppure il
Papa ci crede: ho avuto occasione di parlare
con lui tre volte, quando ancora era
prefetto della Congregazione per la dottrina
della fede. Altroché se ci crede! E ne
ha parlato esplicitamente in pubblico parecchie
volte. Ci ha ricevuto, come associazione
di esorcisti, ha fatto anche un bel
discorso, incoraggiandoci e elogiando il
nostro apostolato. E non dimentichiamo
che del diavolo e dell’esorcismo moltissimo
ne ha parlato anche Giovanni Paolo
II”. Allora è vero quello che diceva Paolo
VI: che il fumo di Satana è entrato nella
chiesa? “E’ vero, purtroppo, perché anche
nella chiesa ci sono adepti alle sètte sataniche.
Questo particolare del ‘fumo di Satana’
lo riferì Paolo VI il 29 giugno 1972.
Poi, siccome questa frase ha creato uno
scandalo enorme, il 15 novembre dello
stesso 1972 ha dedicato tutto un discorso
del mercoledì al demonio, con frasi fortissime.
Certo, ha rotto il ghiaccio, sollevando
un velo di silenzio e censura che
durava da troppo tempo, però non ha avuto
conseguenze pratiche. Ci voleva uno come
me, che non valeva niente, per spargere
l’allarme, per ottenere conseguenze
pratiche”.
Padre Gabriele Amorth è oggi uno dei
più grandi esorcisti a livello internazionale.
Svolge il proprio incarico nella città di
Roma. Nelle sue memorie raccolte da
Marco Tosatti in “Padre Amorth. Memorie
di un esorcista. La mia vita in lotta contro
Satana” (Piemme) è anzitutto una denuncia
alla chiesa che intende fare. Alla chiesa
e ai suoi vescovi: “Abbiamo moltissimi
preti e molti vescovi che purtroppo non
credono a Satana”, dice. E ancora: “Ci sono
nazioni intere senza esorcisti: la Germania,
l’Austria, la Svizzera, la Spagna, il
Portogallo… Molti vescovi non credono
nel demonio e arrivano addirittura a dire
in pubblico: l’inferno non esiste, il demonio
non esiste. Eppure Gesù nel Vangelo
ne parla abbondantemente per cui verrebbe
da dirsi, o non hanno mai letto il
Vangelo o non ci credono proprio!”.
Molti vescovi non credono nel demonio,
dunque. E, infatti, la battaglia di padre
Amorth è su due fronti: contro l’avversario
di sempre e contro il silenzio o l’incredulità
della chiesa: “Il codice di diritto
canonico dice che gli esorcisti dovrebbero
essere scelti fra il fior fiore del clero”,
spiega. E, invece, non avviene così.
Spesso i migliori sacerdoti sono destinati
dai vescovi ad altri incarichi. E quei pochi
esorcisti che ci sono hanno poca esperienza.
Dovrebbe essere l’opposto. Per tutti
dovrebbe verificarsi quanto capitò a
don Amorth: il cardinale Ugo Poletti lo affiancò
a padre Candido Amantini che da
quaranta anni era esorcista alla Scala
Santa. Dice don Amorth: “Devo a lui tutto
quello che so”. Racconta ancora don
Amorth: “Ci sono vari episodi che mi raccontava
padre Candido. Un giorno un sacerdote
gli disse chiaramente che non
credeva a nulla di tutto questo: demonio,
esorcismi e così via. Padre Candido replicò:
venga una volta ad assistere. Padre
Candido raccontò che questo sacerdote
stava con le mani in tasca, in piedi; alla
Scala Santa gli esorcismi li fanno in sacrestia,
e lui stava lì, con un’aria quasi di
disprezzo. A un certo punto il demonio si
è rivolto a lui e gli ha detto: tu non credi a
me ma alle femmine ci credi, eccome se ci
credi nelle femmine. Il sacerdote, cammi-
nando all’indietro, tutto vergognoso, ha
raggiunto la porta ed è filato via”.
Don Amorth riceve nel suo studio centinaia
di persone all’anno. Di queste soltanto
poche sono davvero possedute. La maggior
parte ha semplicemente gravi problemi
psichici e psichiatrici. Ma i posseduti ci
sono. Si presentano da don Amorth per essere
liberati. Lo fanno spontaneamente
seppure la “presenza” che si è impossessata
del loro corpo faccia di tutto perché
gli esorcismi non abbiano effetto.
Come avviene la possessione? La maggior
parte della gente rimane posseduta
dopo aver partecipato a messe nere o a riti
satanici. Dice don Amorth: “La principale
caratteristica delle messe nere è che
c’è il disprezzo dell’eucaristia. Nella vera
messa nera c’è una donna nuda che fa da
altare, e che dovrebbe essere vergine, e
viene violentata da quello che fa da sacerdote
e poi da tutti gli altri, dopodiché fra
di loro succede di tutto. Ossia diventa un
vero bordello. Per cui molti alla messa nera
ci vanno per il ‘dopo’, per il bordello”.
Don Amorth ha un metodo – che a volte
riesce altre no – per riconoscere se una
persona è davvero posseduta: l’acqua benedetta.
Ne parla raccontando di una
donna che gli chiese di essere esorcizzata.
Don Amorth non sapeva se si trattava
davvero di una possessione. Così preparò
sul tavolo due bicchieri, uno con acqua
comune e uno con acqua benedetta: “Le
offersi da bere l’acqua comune; mi ringraziò
e bevve. Alcuni minuti dopo le porsi
l’altro bicchiere, con l’acqua benedetta.
La bevve, ma questa volta il suo aspetto
cambiò di colpo: da bimba impaurita a
persona in collera. Scandendo le parole
con timbro di voce basso e forte, come se
un uomo parlasse dentro di lei, mi disse:
‘Ti credi furbo, prete!’. Ebbe così inizio la
preghiera di esorcismo e solo un’ora dopo,
compiuto il rito, avvenne la liberazione
in chiesa”.

© Copyright Il Foglio 25 febbraio 2010


di John-Henry Westen e Kathleen Gilbert

PORT-AU-PRINCE, Haiti 12 febbraio, 2010 (LifeSiteNews.com) - Secondo quanto riferito da un testimone oculare, il flusso di medicine in attesa di essere distribuite a decine di migliaia di vittime del terremoto ad Haiti è stato ritardato per settimane da una fornitura massiccia di preservativi che dominavano lo spazio del principale magazzino.

Il centro dei rifornimenti farmaceutici, chiamato PROMESS (sta per Program on Essential Medicine and Supplies), è il quartier generale delle operazioni dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms)/Organizzazione pan-americana della sanità di questa zona. "Senza PROMESS avremme avuto una seconda catastrofe," ha detto recentemente il dott. Alex Larsen, Ministro haitiano della sanità.

Ma, secondo una fonte interna, l'intasamento dei preservativi in questo magazzino ha ritardato il flusso massiccio di aiuti che arrivavano da tutto il mondo, e può essere costato delle vite. La fonte riferisce che non era possibile scaricare le navi container piene di provviste mediche da suddividere e distribuire alla popolazione in quanto una fornitura enorme di preservativi ha intasato la struttura fino ai primi giorni di febbraio, quando è stato possibile toglierli. I preservativi occupavano circa il 70 per cento dello spazio del magazzino di 17.000 piedi quadrati (= grosso modo 6.000 mq, ndt)

L'afflusso di rifornimenti è gigantesco. Secondo Reliefweb “solo dal 16-21 gennaio sono arrivati all'aeroporto di Port-au-Prince 483.091 kg di medicinali e 4.990 kg di prodotti sanitari come i guanti di lattice e le maschere.”

Nicholas Reader dell'Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari umanitari ha dichiarato di "non essere al corrente" del problema, e ha indirizzato LifeSiteNews all'OMS per avere altre informazioni. Anche il responsabile delle comunicazioni per le emergenze e gli affari umanitari all'Oms, Paul Garwood, ha detto di non esserne al corrente. Garwood ha girato la domanda ai colleghi ad Haiti, che al momento di andare in stampa non avevano risposto.

Mentre i funzionari Oms non parlano specificamente dell'intasamento dei preservativi, hanno in termini più generici ammesso le difficoltà logistiche nell'affrontare il flusso dei rifornmenti.


[....] La scena che vede le strutture mediche del mondo in via di sviluppo occupate soprattutto da preservativi, ma gravemente carente di rifornimenti medici, non è nuova.

Quando il Generale canadese Romeo Dallaire ritornò dal Rwanda in seguito al massacro ruandese, notò in un discorso del 1996 che quando il personale militare si riferiva all'ONU e ad altri aiuti esteri parlava del "tappezzare il paese con il lattice."

Dallaire spiegò che tonnellate di preservativi ed altri contraccettivi venivano spediti e distribuiti in giro per la regione in quantità di gran lunga superiori a quelle che la popolazione potesse usare e al posto di cibo, medicine ed altri aiuti cruciali. I negozi di medici, egli disse, erano pieni di contracceettivi ed estremamente carenti del necessario per curare le ferite dei ruandesi.

Alcune persone del mondo in via di sviluppo hanno aguzzato l'ingegno e sono riusciti a trasformare la montagna di preservativi scaricati dall'Occidente in un vantaggio. Secono un servizio della BBS, in una sola città indiana si usavano 600.000 preservativi al giorno nell'industria della tessitura dei sari. I tessitori di sari usano il lubrificante presente nei preservativi per ungere il meccanismo del telaio e velocizzare la tessitura senza rischiare di macchiare la seta.

La strategia dell'ONU di promuovere massicciamente i preservativi come soluzione primaria alla crisi dell'AIDS è riportata anche in rapporti recenti, e non ci sono segni di rallentamento.

Carol Ugochukwu, Presidente di United Families of Africa a Enugu, in Nigeria, ha detto in un'intervista del 2000 che le delegazioni occidentali all'ONU stavano cercando di "sterminare l'intera razza" con la loro promozione di preservativi.

Ugochukwu si disse esasperata che il Canada, gli USA e l'UE sprecassero la maggior parte del tempo all'ONU per cercare di ottenere l'approvazione dell'omosessualità, mentre i bisogni delle donne africane come il cibo, un tetto e l'acqua pulita venivano in gran parte ignorati. "Le grosse organizzazioni spendono tanti soldi," ella disse," ma quando sentono che stai facendo fronte a tutto questo [bambini e madri moribondi] non si interessano. Devi dire loro che ti occupi di diritti riproduttivi prima di ottenere del sostegno."

Concludeva la Ugochukwu, "[Gli occidentali] adesso vengono con i preservativi - abbiamo preservativi dappertutto! Spendono così tanto sui preservativi e così spingono i nostri bambini alla promiscuità. Dicono che questo fermerà l'AIDS - ma sta peggiorando! Non ha senso."

http://www.lifesitenews.com/ldn/2010/feb/10021812.html


Preservativi rotti


Così è fallito il costosissimo piano
del governo inglese per evitare
le gravidanze nelle giovanissime


Roma. Missione fallita. Dopo 12 anni e
una pubblicizzatissima strategia costata
alla Gran Bretagna quasi 300 milioni di
sterline, i laburisti non hanno raggiunto
l’obiettivo, fissato dall’allora premier
Tony Blair, di dimezzare entro il 2010 il
“vergognoso” numero di gravidanze fra
minorenni. Certo il traguardo indicato era
un po’ ambizioso, ha detto ieri il ministro
dell’Istruzione Ed Balls facendo spallucce
in diretta alla Bbc che gli chiedeva di
commentare i dati appena diffusi dall’Ufficio
statistico nazionale, ma in fondo da
46 babymamme ogni mille adolescenti siamo
riusciti ad arrivare a 40 su mille. Il ministro
per l’Infanzia, Dawn Primarolo,
continua a dirsi soddisfatta: come si prevedeva
le cifre sono in calo e hanno raggiunto
i minimi storici degli ultimi 20 anni,
quindi “le gravidanze fra minorenni
non sono più un problema crescente” in
Gran Bretagna. Peccato che il calo del 3,9
per cento registrato nell’ultimo anno sia
soltanto una sorta di ritorno alla normalità
dopo l’aumento del 2007. E Primarolo
potrà anche considerare passata l’emergenza
sociale che preoccupava Blair, ma
nel 2008 più di 41 mila adolescenti sono rimaste
incinte e quasi la metà di loro ha finito
per abortire.
E’ colpa quindi delle speranze eccessive
di Blair se il governo ha fallito. Ma anche
delle autorità locali che non fanno il
loro dovere: “E’ chiaro che alcune non
prendono sul serio la strategia governativa”,
spiegano dall’esecutivo. Probabilmente,
dicono, quando le ragazzine arrivano in
farmacia o si presentano negli ambulatori
il personale non applica i diktat governativi
in materia di anticoncezionali e palloncini
per adulti, non offre spiegazioni
esaustive e non le accoglie come si deve
quando corrono a chiedere consigli. Eppure
la costosissima strategia, che consiste
nel bombardare gli adolescenti con lezioni
di sesso, pillole, preservativi e pubblicità
di cliniche abortive, era chiarissima.
Incassato il colpo, però, il governo non si
arrende e guarda oltre: il prossimo passo
è un nuovo piano d’azione, battezzato ieri
“Teenage Pregnancy Strategy: Beyond
2010”, che preso atto dei fallimenti passerà
a misure più serie di impronta orwelliana.
Come i contraccettivi “ad azione
prolungata”, ovvero piccoli pezzetti di plastica
impiantati sottopelle (che durano fino
a 3 anni), o iniezioni che tolgono il pensiero
fino a 12 settimane. Oppure ancora
un servizio via sms che ricordi alle ragazzine
di prendere precauzioni.
Suore e banane
Il ministro che ieri ha dovuto affrontare
l’imbarazzo laburista arrivava già da una
settimana parecchio difficile. Non soltanto
Balls è accusato di voler soffiare il posto
al cancelliere dello Scacchiere, Alistair
Darling, approfittando della stima
del premier Brown nei suoi confronti, ma
è stato fatto letteralmente a pezzi dalla
stampa che solitamente lo osannava per
un emendamento, approvato martedì sera,
alla sua legge sull’educazione sessuale. Al
testo che rende obbligatorie le lezioni di
sesso a scuola a partire dai cinque anni è
stata aggiunta una “deroga” per le scuole
di orientamento religioso, che saranno libere
di affrontare argomenti come l’aborto,
la contraccezione o l’omosessualità secondo
il loro credo.
Balls è stato accusato di aver annacquato
una legge stupenda, di essersi fatto mettere
i piedi in testa dalla lobby cattolica in
attesa dell’arrivo del Papa in Inghilterra o
ancora di aver cercato il consenso di molte
famiglie in vista delle prossime elezioni
politiche. Lui si è difeso spiegando che il
diritto delle scuole di orientamento religioso
a seguire le proprie convinzioni esiste
da decenni, mentre la novità resta l’educazione
sessuale obbligatoria per tutti,
credenti o atei. Ed effettivamente, in fede
alla ferrea logica britannica dell’omologazione
politicamente corretta, “le scuole
non potranno esimersi dall’insegnare cose
come la contraccezione o l’aborto o l’esistenza
delle coppie di fatto”, ma potranno
poi esprimere la loro posizione in materia.
Mentre al momento non esiste alcun obbligo
per gli istituti, da settembre “ogni scuola
– ha detto Balls – dovrà insegnare l’intero
programma in una maniera equilibrata
che rispetti l’uguaglianza e non sia discriminatoria”.
In pratica le suore dovranno
spiegare ai loro piccoli alunni che cos’è un
rapporto omosessuale, prima di indottrinarli
con Adamo ed Eva e quelle storiacce
sul matrimonio. E soprattutto sarà loro
compito insegnare ai bambini come infilare
correttamente i preservativi sulle banane,
ma poi avranno pur sempre la libertà
di spiegare che non sono d’accordo con il
loro utilizzo.
Valentina Fizzotti



Se l’educazione è senza argini

La metafora è quella del greto del fiume. «Senza argini l’ac­qua impetuosa straripa. E co­sì è la vita dei bambini, senza argi­ni il loro impeto e la loro energia non li condurranno tranquillamen­te alla vita adulta. Bisogna incana­larli e contenerli. Questa è l’educa­zione, il compito dei genitori. Se non ha limiti il bambino sconfina siste­maticamente e finisce con l’amma­larsi ». Quando Daniele Novara parla di malattie dell’educazione pensa al­l’insonnia, all’obesità, all’enuresi notturne, persino alle difficoltà sco­lastiche, a tutti quei nuovi disturbi che costituiscono il settanta per cento dell’attività ordinaria dei pe­diatri. Disturbi che i medici fatica­no a guarire, per cui non servono medicine semplicemente perché nascono quando qualcosa no va nell’educazione.
«Un’educazione che c’è, dice, perché ai bambini si cerca di non far mancare nulla, ma che non riesce a rispondere ai loro bisogni profondi». Pedago­gista,
direttore da vent’anni del Cen­tro psicopedagogi­co per la pace e la gestione dei conflit­ti di Piacenza, Daniele Novara i ge­nitori li ascolta da una vita. Confu­si e disorientati, pieni di sensi di col­pa, appesantiti da un passato fatto di millenni di vessazioni sui bam­bini, ma preoccupati di far bene, di non commettere gli errori delle ge­nerazioni passate, di costruire con i figli relazioni autentiche non au­toritarie e alla pari, affettuose e coin­volgenti. Morbide.

«Troppo morbide, spiega. Le ma­­lattie dell’educazione nascono so­prattutto da un eccesso di accudi­mento e di cure. I genitori si sono ri­tagliati un ruolo di riferimento af­fettivo rinunciando al senso stesso della presenza adulta nella vita dei figli, che è insegnare loro a stare al mondo. Ovvero l’autonomia».

Molti adulti credono che un buon rapporto con i figli debba essere fondato sulla vicinan­za e sulla confidenza continua e as­soluta, che deve proseguire anche di notte. Non è così. Si cresce in uno spazio definito e regolato di confi­ni chiari e di libertà. La pipì a letto dei bambini, dopo i cinque, e la dif­ficoltà nel togliere il pannolone so­no altrettanti sintomi di uno stesso disagio. Papa e mamma sono ac­condiscendenti, lasciano fare, sen­za capire che il loro eccesso provo­ca atteggiamenti tirannici del bam­bino. La parola stessa incontinenza suggerisce il nesso tra l’enuresi e la mancanza di argini e di conteni­mento dell’ambiente familiare».

Che anche i disturbi del linguaggio come quelli dell’alimentazione non siano difficoltà da rimandare tanto al logopedista o al dieto­logo ma nuovamente a un difetto educativo è un’ulteriore conferma per Da­niele Novara, che i genitori va­dano aiutati nel capire il loro compito. E non è un caso che il libro che offre u­na moltitudine di riflessioni e grado di intercettare le richieste del bambino prima ancora che questi le esprima verbalmente, a lui non resta che disattivare queste funzio­ni, salvo arrivare a tre anni senza strutture di linguaggio sufficiente­mente articolate. Se infine si confonde l’alimentazione con il ri­to sacro e comunicativo del man­giare come occasione d’incontro, l’equivoco è totale e le cose non van­no meglio». Il bambino che ha accesso al frigo a qualsiasi orario, che partecipa a pranzi e cene in cui tv e cellulari so­no accesi e ognuno pensa ai casi suoi, che infine vive una vita da se­dentario televisivo, evidentemente ingrassa. Gli scompensi sono lam­panti. Con la pacatezza e l’ironia che gli sono congeniali Daniele Novara propone una semplice soluzione, da sperimentare. «Dobbiamo usci­re dalla cultura delle proibizioni e punizioni ed entrare in quella delle regole».

«Noi lo sgridiamo tanto… –, mi di­cono molti genitori, disperati dei ca­pricci del figlio. – Lo minacciamo di togliergli la tv…» ma così, confon­dendo la regola con il comando, non fanno che indebolire il proprio ruolo. Allora l’effetto è drammati­co: ma se la regola è chiara, se è sta­ta capita, se i genitori la condivido­no sistematicamente e sono uniti nel farla rispettare, il bambino si a­degua facilmente, l’acquisisce la re­gola naturalmente come fatto di li­bertà. Come un territorio entro cui può muoversi liberamente.
Invece da noi continua a imperver­sare la cultura del genitore sponta­neo, che a volte concede a volte no, a seconda dei propri umori, che di­scute, che accondiscende pur di non dispiacere al bimbo, che si pie­ga a scaramucce continue alla do­manda ossessiva… «e tu cosa vuoi fare?» Interrogativo che caccia i bambini in uno stato di ansia e agi­tazione, in una specie di orfanità e­ducativa. Mentre al contrario a­vrebbero bisogno di sentire che i ge­nitori sanno prendere decisioni e responsabilità. E sono determinati.

Il bambino ha accesso al frigo a qualsiasi orario, a pranzo e cena tv e cellulari sono accesi e ognuno pensa ai casi suoi...
«Dobbiamo uscire dalla cultura delle proibizioni e punizioni e entrare in quella delle regole»


Quel numero primo di Flannery O’Connor



Più che un «classico» la scrittrice statunitense è un «unicum» della letteratura del ’900, come dimostra il ritorno del romanzo culto «La saggezza nel sangue». Un’autrice irripetibile che scrive non per l’arte, ma per la verità
Quando un autore diventa un «classico» c’è qualcosa di bello della letteratura che se ne va per sempre. Se ne vanno gli ardori giovanili, le prese di posizione parziali, se ne va quella sana ingiustizia, quel sano settarismo, quel vedere tutto bianco o nero, senza vie di mezzo, che caratterizza l’approccio di un giovane alla letteratura, la folgorazione dell’inizio. Un giovane non incontra mai «la» letteratura, ma sempre questo o quell’autore, che finirà per contrapporsi ferocemente ad altri autori. Dispute interminabili, notturne. Litigi, anche.
Ci sono i classici dell’infanzia, quelli dell’adolescenza e quelli dell’età adulta. Ci sono i classici del teatro e quelli della risata. Proust è un classico, Totò è un classico. Certi tromboni diventano classici mentre sono ancora in vita. Ma Flannery O’Connor (1925-64) è un’altra cosa. Flannery non può diventare un classico. Dedicatele pure un’edizione di lusso, se volete, inseritela in tutte le storie della letteratura, datele un posto, create gli argini opportuni intorno alle sue parole, ma ciò che questa donna - morta a 39 anni dopo tredici di una spaventosa malattia ereditata dal padre, il lupus eritematoso sistemico (LES) - fece nella letteratura è unico e non ripetibile. Tanto da creare ancora imbarazzo nel lettore onesto.
Nata, vissuta e morta in Georgia (tranne qualche breve viaggio occasionale e un soggiorno nel Connecticut presso gli amici Robert e Sally Fitzgerald), Flannery appartiene, storicamente e stilisticamente, alla galassia molto varia ma al tempo stesso ben riconoscibile che comprende William Faulkner, Truman Capote, Carson McCullers, e che un tempo veniva identificata come la letteratura del profondo sud: una letteratura terragna, poco cittadina, in cui vivi e morti, fantasmi e incubi convivono in un unico paesaggio circolare, dal quale è impossibile evadere. Tuttavia lei è un numero primo. Scrisse due romanzi, La saggezza nel sangue (del 1952, ristampato in questi giorni da Garzanti, pagg. 229, euro 17,60) e Il cielo è dei violenti. Il capitolo iniziale di questo romanzo è anche un racconto a sé stante intitolato Non si può essere più poveri che da morti. Ed è soprattutto nei racconti che Flannery mostra la sua abnormità. Basterebbero alcuni titoli, oltre a quelli già citati, a dimostrarlo. Nessuno scrive racconti intitolati Un brav’uomo è difficile da trovare, oppure La vita che salvi può essere la tua, o ancora Incontro tardivo col nemico, o Il negro artificiale se non è uno scrittore molto speciale e, in qualche modo, qualcosa di diverso da uno scrittore così come lo immaginiamo noi.
Noi immaginiamo, ad esempio, lo scrittore - e soprattutto lo scrittore di racconti - profondamente impegnato con la forma del racconto. Da Ernest Hemingway a Raymond Carver ad Alice Munro, la letteratura nordamericana ci ha regalato capolavori immortali nell’arte della narrazione breve (short story). L’impressione invece, leggendo Flannery, è che questa arte - di cui è stata maestra - in fondo non la interessasse più di tanto. Alla domanda «perché lei scrive?» rispondeva abitualmente «perché mi riesce bene». C’era ben altro di cui occuparsi.
Cattolica, cattolicissima, Flannery ancora oggi è indigesta a quel tipo di lettore cattolico che vuole il lieto fine, il trionfo dei valori, e chiede alla letteratura di rappresentare il mondo un po’ presepiale che ha in testa. Tra le verità della fede e la realtà nuda e cruda - quella che è, non quella che vorremmo - per lei non ci sono mediazioni. La Chiesa unisce tutti coloro che dicono sì a Cristo, buoni o cattivi che siano. E il mondo, per quanto orribile, esiste solo come luogo della salvezza o della perdizione.
Nel suo racconto più celebre, Un brav’uomo è difficile da trovare, una donna anziana riconosce il figlio nell’uomo che sta per sgozzarla. In Brava gente di campagna un venditore ambulante di bibbie seduce una ragazza senza una gamba e poi le ruba la gamba, lasciandola sola in un fienile. Nel romanzo La saggezza del sangue ci viene presentato il mondo dei predicatori protestanti, dove l’impossibilità della consacrazione totale a Dio genera una totale incapacità di vivere. Nel racconto La schiena di Parker un ubriacone scioperato, per fare un regalo alla moglie Sarah Ruth, rigida puritana, si fa tatuare sulla schiena l'immagine di Cristo, col risultato di farsi accusare di idolatria.
Leggendo Flannery ci prende un brivido che la letteratura, anche cattolica, conosce pochissimo: il sospetto cioè che il mondo così come crediamo di conoscerlo sia solo l’epifania di qualcos’altro. Nel volto di un bambino uguale allo zio passa come un’ombra il tema della Resurrezione della Carne, una bottiglia di whisky può parlarci dello Spirito Santo, un tatuaggio può svelarci il mistero dell’Incarnazione, incomprensibile ai moralisti.
Ma non sono soltanto le storie di Flannery a colpire, lo è anche il loro andamento imprevedibile, come se qualcosa che il lettore non sa deviasse la massa narrativa verso una direzione ignota. Oggi tutti noi leggiamo libri nati qui e ora, scritti da gente le cui opinioni divergono forse un po’ dalle nostre, ma la cui forma mentis è la stessa. In altre parole, noi sappiamo sempre quello che sa lo scrittore. Qui c’è invece una radicale diversità. I romanzi e i racconti di Flannery O’Connor danno perciò al lettore la possibilità di fare una reale esperienza di lettura, che è sempre un avventurarsi dentro qualcosa che è altro da noi.
La Scuola di Francoforte, negli anni ’30, parlava della filosofia come della «nostalgia del totalmente-altro». Bene, la letteratura, almeno secondo Flannery (e secondo me) è la stessa cosa, esprime lo stesso impulso. Ciò che veramente interessa all’uomo non sono i soldi, il potere o il sesso: sono queste cose, sì, ma per il riverbero di mistero che contengono, e di cui la narrativa è chiamata a fare il ritratto.