Questo cristianesimo sta per sparire o quantomeno
per diventare un fenomeno marginale. E
non per la sua debolezza nei confronti di laici o
islamici né per la lotta intestina tra progressisti e
conservatori né per gli scandali di natura sessuale
o finanziaria che ciclicamente lo scuotono – questa
è presbiopia mediatica. Semplicemente manca il
ricambio che per secoli è stato naturale e oggi, per
la prima volta, naturale non è. Alla chiesa mancano
i giovani (e non vale il contrario). Un’assenza così
evidente da passare inosservata, poi arriva una
giornata mondiale della gioventù e tutti a chiedersi
perché l’oratorio del proprio paese è deserto. “In
occidente per lunghissimo tempo la trasmissione
della fede è stata una semplice questione di ‘casa’,
non di chiesa… Questa cinghia di trasmissione tra
le generazioni si è, a un certo punto, spezzata… Oggi,
nascere e diventare cristiano sono due cose distinte.
Non si diventa più cristiani mentre si viene
allattati dalla mamma”. Così scrive Armando Matteo
in un breve saggio, “La prima generazione incredula.
Il difficile rapporto tra i giovani e la fede”,
appena pubblicato da Rubbettino. L’autore è assistente
ecclesiastico nazionale della Federazione
universitaria cattolica italiana, la gloriosa Fuci di
Montini e Moro oggi praticamente scomparsa dal
discorso pubblico; e forse anche guardando in casa
propria ha messo a fuoco quella che definisce “l’ultima
battaglia” della chiesa in occidente, una battaglia
“di ordine culturale” in cui è in gioco la sua
stessa sopravvivenza.
Già da qualche tempo Matteo va riflettendo sulla
sorte del cristianesimo nell’età postmoderna sulle
orme del suo maestro, il teologo benedettino Elmar
Salmann. Due anni fa aveva pubblicato, sempre
per Rubbettino, un altro saggetto sfizioso, “Come
forestieri”, in cui spiegava che l’epoca postmoderna,
dando addio ai sogni metafisici (Platone) e
alla morale del sacrificio (Agostino), ha messo in
grave imbarazzo il cristianesimo che non sa più
quale lingua parlare. Si è aperto uno scenario nuovo,
infido e insieme promettente, in cui i credenti
devono giocare bene le loro carte se non vogliono
soccombere al neopaganesimo, propugnato da maître
à penser come Umberto Galimberti, per il quale
“Dio non è più necessario”.
Purtroppo è quello che non sta succedendo nella
battaglia decisiva, scrive il cappellano della Fuci
nel suo ultimo libro: “La nostra ipotesi di lavoro
è che, nella sua relazione con i giovani, la chiesa
subisca l’influenza della malsana logica che struttura
i rapporti intergenerazionali nella società civile,
una logica scandita da un continuo parlare dei
giovani e dei loro problemi, cui corrisponde un altrettanto
costante accumulo di privilegi nelle mani
degli adulti, persi nei loro miti e nei loro riti,
ben saldi ai loro posti di potere, incapaci ormai
non solo di prendersi cura del mondo giovanile ma
più semplicemente di guardarlo in faccia”. Una società
giovanilista che odia i giovani non trova argine
in una chiesa che parla molto di “emergenza
educativa” ma è rallentata da un apparato istituzionale
rigido. Matteo constata una “straordinaria
lentezza” della comunità ecclesiale a realizzare il
cambiamento avvenuto, il fatto che per i giovani
“la fede è una lingua straniera”. Non hanno antenne
per Dio, per usare l’immagine di un celebre
teologo, il cardinale Kasper.
Il cristianesimo occidentale è davvero destinato a
morire di vecchiaia? L’analisi del teologo calabrese
è dettagliata e tutto sommato pertinente, le sue critiche
alla routine pastorale non sono mai gratuite; si
percepisce che a patire il transito tra cristianesimo
familiare e cristianesimo estraneo è anzitutto lui,
prete quarantenne, non così vecchio da potersi rifugiare
nel rimpianto della christianitas perduta e non
così giovane da poter ignorare le feroci lotte postconciliari.
Leggendolo non si respira certo l’euforia
di un Mancuso – che pure è meno giovane – per il tramonto
del cristianesimo paolino e agostiniano, centrato
sulla grazia di Cristo, che finalmente spalancherebbe
le porte a un’era pelagiana fondata sulla
vita autentica, libera e giusta, senza odiosi steccati
tra chi crede e chi non crede (qualche giorno fa su
Repubblica). No, Matteo non mette in discussione i
fondamentali della fede, anzi è preoccupato perché
finite le grandi narrazioni classiche (il peccato, la vita
eterna) i cristiani sono rimasti senza parole, spaesati,
estranei allo spirito del tempo. Solo che non
condivide affatto l’uso identitario della religione “da
parte degli stessi giovani, nel solco dell’appartenenza
senza credenza, ovvero di un singolare ‘chiesa sì,
Cristo no’” e diffida del “molto strano ateismo devoto”.
Il cristianesimo oggi può esistere solo come minoranza
creativa piena di humour e grazia, contraddistinta
da uno stile lieve e garbato – un profilo più
monastico che parrocchiale. Matteo è nutrito di buone
letture (Salmann, Sequeri, Taylor) ma flirta pure
con autori un po’ corrivi e quando invoca per l’istituzione
ecclesiastica una robusta cura dimagrante a
tutto vantaggio della dimensione profetica rischia,
nonostante le precauzioni, di essere un po’ semplicistico.
La sua elegia della “differenza cristiana”, peraltro
molto gradita ai salotti della società civile, non
convince del tutto. Perché non si può dimenticare
che siamo diventati postmoderni succhiando il latte
di mamma chiesa e che, se proprio vogliamo parlare
di estraneità, è estraneità di consanguinei. “Un feroce
e insidioso garbuglio del vivere”, per usare le
sue parole.
Marco Burini
© Copyright Il Foglio 25 marzo 2010