di Marco Impagliazzo
Gli armeni di tutto il mondo ricordano il 24 aprile 1915: l’inizio del Metz Yeghern, il «Grande Male», il primo sterminio di massa del XX secolo. Nonché, nonostante le differenze storiche e geografiche, un «modello» per le più moderne pulizie etniche, nei Balcani o altrove. La famosa domanda di Hitler dell’agosto 1939, «Chi parla ancora, oggi, del massacro degli armeni?», fu la premessa all’invasione brutale della Polonia, che scatenò la seconda guerra mondiale. E la domanda non fu casuale. I dirigenti nazisti e lo stesso Hitler consideravano la «soluzione armena» come un importante precedente per diversi motivi: la relativa facilità con cui venne attuata, la sostanziale impunità ottenuta dai suoi responsabili e la generale dimenticanza successiva. In quella tragedia, che si consumò tra 1915 e 1916 in Anatolia, scomparve più di un milione di persone, in gran parte armeni ma anche cristiani di altre confessioni, e il quadro politico, sociale e religioso venne completamente stravolto. Dopo i tragici avvenimenti avvenne infatti la definitiva separazione di popoli, religioni e tradizioni che – fino a quella data – avevano convissuto per secoli nel vasto impero ottomano dove, all’inizio del Novecento, esisteva ancora un quadro multireligioso sconosciuto a tanti Paesi europei e in alcuni combattuta in nome del nazionalismo. Tutto cambiò con l’avvento dei «GiovaniTurchi» che, volendo costruire un nuovo Stato-nazione etnicamente omogeneo, guardavano con sospetto le comunità non musulmane, minoritarie ma presenti da secoli nell’impero. In effetti uno dei grandi temi dei mondi religiosi mediterranei è stato e resta la coabitazione. Nel XX secolo si sviluppano due percorsi apparentemente contraddittori, ma legati l’uno all’altro: da una parte la fine della coabitazione islamo-cristiana e arabo-ebraica, in quasi tutti i Paesi del Sud Mediterraneo, dall’altra nuove forme di convivenza in Europa attraverso il fenomeno migratorio. La storia del Novecento realizza il divorzio tra popolazioni di culture e religioni che avevano coabitato per secoli, a partire dalla fine degli imperi.
Coabitazione e nazione – dopo il 24 aprile 1915 - divengono nel Mediterraneo termini non più complementari. Gli storici si sono trovati alle prese con la «questione armena» sviluppando un dibattito ampio e ricco di documentazione, ma accompagnato anche da una buona dose di polemiche e di distinguo. Si trattò comunque di un evento «spartiacque». Basta ricordare che all’inizio dei massacri gli Alleati, in una dichiarazione congiunta, usarono per la prima volta nella storia il termine «crimine contro l’umanità». La bibliografia a questo proposito, soprattutto da parte armena, è sconfinata. Ad essa si affianca quella francese, sovietica e anglosassone, che è molto vasta. Il romanzo di Franz Werfel, «I quaranta giorni del Mussa Dagh», ha reso popolare la drammatica epopea armena negli anni tra le due guerre. La questione armena resta un paradigma fondamentale per capire tante vicende del secolo appena trascorso: dalla fine della coabitazione, alla deriva dei nazionalismi, al martirio dei cristiani, al terribile sviluppo dei genocidi. È una tragedia che, in un certo senso, anticipa i crimini degli Stati totalitari del XX secolo. Ma è anche la memoria della fine del cristianesimo in Anatolia. Oggi, ancora più di ieri, si ha il dovere di ricordare il 24 aprile 1915 perché questa dolorosa vicenda ci aiuti ancora una volta a capire che la memoria è il primo argine alla barbarie.
Coabitazione e nazione – dopo il 24 aprile 1915 - divengono nel Mediterraneo termini non più complementari. Gli storici si sono trovati alle prese con la «questione armena» sviluppando un dibattito ampio e ricco di documentazione, ma accompagnato anche da una buona dose di polemiche e di distinguo. Si trattò comunque di un evento «spartiacque». Basta ricordare che all’inizio dei massacri gli Alleati, in una dichiarazione congiunta, usarono per la prima volta nella storia il termine «crimine contro l’umanità». La bibliografia a questo proposito, soprattutto da parte armena, è sconfinata. Ad essa si affianca quella francese, sovietica e anglosassone, che è molto vasta. Il romanzo di Franz Werfel, «I quaranta giorni del Mussa Dagh», ha reso popolare la drammatica epopea armena negli anni tra le due guerre. La questione armena resta un paradigma fondamentale per capire tante vicende del secolo appena trascorso: dalla fine della coabitazione, alla deriva dei nazionalismi, al martirio dei cristiani, al terribile sviluppo dei genocidi. È una tragedia che, in un certo senso, anticipa i crimini degli Stati totalitari del XX secolo. Ma è anche la memoria della fine del cristianesimo in Anatolia. Oggi, ancora più di ieri, si ha il dovere di ricordare il 24 aprile 1915 perché questa dolorosa vicenda ci aiuti ancora una volta a capire che la memoria è il primo argine alla barbarie.
«Avvenire» del 24 aprile 2010