IL FILM
DOCUMENTAZIONE
Katyn e il massacro di 22 mila ufficiali polacchi perpetrato da Stalin. Intervista al regista Wajda
Varsavia
È appena tornato da Berlino, dove il suo Tatarak ha vinto il premio speciale della giuria per un’opera che «apre all’arte cinematografica nuove prospettive». «Pensi – dice sorridendo all’inviato di Tempi nei suoi studi a Varsavia – che il riconoscimento lo hanno dato ex-aequo a me e a un regista argentino poco più che trentenne al suo primo film». Lui, Andrzej Wajda, di anni ne ha ottantatré, e di regie alle spalle ne conta oltre tre dozzine. Ma ha ancora l’entusiasmo di un giovanotto e il gusto di usare la macchina da presa per continuare a raccontare le gioie e i dolori della vita, oggi come trent’anni fa, quando opere come L’uomo di marmo, L’uomo di ferro e Danton filtravano attraverso la cappa di piombo del socialismo reale e facevano sentire anche in Occidente la voce di un uomo libero, che non ha mai rinunciato a guardare la realtà coi suoi occhi rifiutando le lenti deformanti dell’ideologia. L’arrivo nelle sale italiane, dopo lunghe peripezie, di Katyn, il film sull’eccidio degli ufficiali polacchi perpetrato dai sovietici durante la Seconda guerra mondiale e a lungo attribuito ai nazisti tedeschi, è l’occasione per incontrare Wajda e parlare con lui di cinema. E di molto altro.
Andrzej Wajda, cominciamo dalla pellicola che sta riproponendo il suo nome in Italia. Da dove nasce l’idea di fare un film sul massacro di Katyn?
Un film su Katyn fino al 1989 sarebbe stato impossibile, perché secondo la versione ufficiale imposta dai sovietici il massacro di ventiduemila ufficiali dell’esercito polacco compiuto nel 1940 nei boschi di Katyn era stato opera dei tedeschi. In realtà in Polonia tutti sapevano che i colpevoli erano i russi, e nessuno era disposto a fare un film intriso di menzogna; così Katyn nella nostra storia rimaneva una ferita aperta. Perché allora non lo abbiamo fatto subito dopo il 1989? Perché sulla vicenda c’era stato come un blocco: mentre tutti gli altri episodi drammatici della Seconda guerra mondiale avevano trovato qualcuno che ne facesse materia di qualche racconto, su Katyn non c’era nulla. Così, realizzare una sceneggiatura è stato un lavoro lungo e difficile. Io ho continuato a leggere tutta la documentazione disponibile, soprattutto i diari delle donne che, come mia madre, avevano perso il marito nella strage. Oggi tutto quel che si vede nel film è rigorosamente basato sui documenti che io ho letto nel corso di anni di ricerche.
Che cosa ha voluto dire allora per lei girare un film come questo?
Ho sempre avuto in mente che un film su Katyn avrei potuto e dovuto farlo io: farlo ha voluto dire saldare un debito con mio padre e mia madre, far conoscere a tutti l’eccidio compiuto sugli uomini e la menzogna perpetrata nei confronti delle loro donne.
Ci risulta, però, che l’opera abbia avuto qualche “problema di circolazione”. È vero?
Guardi, in Polonia ha avuto oltre tre milioni di spettatori, posso dire di essere soddisfatto. Del resto era un’opera che la gente aspettava da sessant’anni. Il problema è che i diritti per la distribuzione all’estero sono stati assegnati alla televisione di Stato polacca, che non ha fatto nulla perché il film avesse una circolazione dignitosa: lo ritengono un film scomodo e non hanno voluto spingerlo. Pensi che nel rapporto della Televisione Polacca sulla società New Media Distribution, l’azienda che deve distribuire il film contemporaneamente sia in Russia sia negli Stati Uniti, ho visto una nota a margine scritta a mano che informa che «l’iniziativa potrà fallire per ragioni politiche». Tanti infatti hanno interesse a che il film non venga proiettato, e in molti paesi ci sono distributori che lo hanno acquistato per non farlo vedere. Viene mostrato solo in circuiti ristretti, nei cinema d’essai o in rassegne per un pubblico selezionato. Così si fa in modo che non incida, che non abbia un vero rilievo nella mentalità comune. Il caso più clamoroso, comunque, è quello della Russia.
Per quali ragioni?
Perché in Russia, ancora oggi, Stalin è amato. Compare ancora in cima alle classifiche dei personaggi più popolari. Si sa che ha ucciso decine di milioni di persone, eppure molti russi ritengono ancora che lo abbia fatto per il bene del suo paese. Il massacro degli ufficiali polacchi a Katyn, invece, è un crimine senza giustificazioni, che ha infranto tutte le convenzioni di guerra, e quindi qualcuno non vuole che venga ricordato. Pensi che gli organizzatori della Settimana del cinema polacco, in Ucraina, a Kiev e Charków (mi stava a cuore soprattutto questa proiezione, perché proprio in quella città fu ucciso mio padre nella primavera del 1940 e là è sepolto), si sono visti recapitare una lettera della Televisione Polacca di questo tenore: «Telewizja Polska – l’unico e solo titolare dei diritti di distribuzione del film – non è a conoscenza di NESSUNA proiezione di Katyn in programma per la Settimana del cinema polacco in Ucraina. Per favore, abbiate la cortesia di ritirare il titolo dalle vostre programmazioni, e di comunicarci nome e contatti della persona o dell’organizzazione che vi ha fornito i diritti per la proiezione». Un tono piuttosto minaccioso, non le pare?
Chi si oppone alla circolazione di Katyn? Gli stessi che hanno pilotato il processo che ha portato alla scandalosa assoluzione degli assassini di Anna Politkowskaya?
Non ho ancora fatto in tempo a valutare fino in fondo la notizia a cui ha accennato. Però certo mi fa impressione che in un paese che pretende di essere democratico ritornino gli assassinii politici, come ai tempi della dittatura. È un fatto che non può non preoccupare vivamente.
In Italia qualcuno dice che Katyn sarà un flop perché non interessa, è una storia datata. Perché riproporla adesso che il comunismo è finito da vent’anni?
In Polonia il perché è chiarissimo: perché non potranno esserci rapporti normali fra la Polonia e l’ex Unione Sovietica fino a che non sarà detta la verità su questo crimine. I tedeschi hanno compiuto crimini peggiori, ma i loro governanti lo hanno riconosciuto, e ora i nostri rapporti con la Germania non sono più avvelenati dal rancore. Non ci può essere amicizia fra due popoli se non si riconoscono i torti commessi.
Le sue opere sono state armi importanti per la lotta dei polacchi contro il regime. Come giudica il mondo che da quella lotta è nato, la Polonia e l’Europa di oggi?
Non solo i miei film, ma tutto il cinema polacco ha sempre fatto di tutto per costruire un ponte con l’Occidente. La Polonia è parte dell’Europa, i polacchi si sono sempre sentiti occidentali. Dov’è il confine dell’Europa occidentale? Io dico che l’Europa finisce là dove arrivano le chiese gotiche. Dove c’è una chiesa gotica vuol dire che è arrivata non solo la religione cattolica, ma la civiltà mediterranea. Noi polacchi, pur con tutti gli ostacoli, le difficoltà che abbiamo incontrato nella storia, apparteniamo pienamente a questa cultura, a questa civiltà.
Ma la Polonia di oggi è quella che immaginavate vent’anni fa?
Guardi, io non sono preoccupato perché la Polonia non ha sviluppato quella bella forma che noi speravamo. La democrazia è un sistema difficile, si assimila solo lentamente. La cosa davvero importante è che la società adesso può parlare di se stessa, che le persone possono mettere a tema quel che sta loro a cuore: è questo, in fondo, che ci interessava. La gente prima ha dato fiducia a Solidarnosc, poi ha ridato una possibilità alla sinistra, poi ha preso altre strade. L’importante è che le persone hanno cominciato a scegliere. Poi fa parte del gioco della democrazia che alcune scelte siano felici, altre meno. Personalmente, ho apprezzato molto le decisioni del primo governo, quello di Mazowiecki, la scelta di puntare subito su una forte integrazione con l’Europa: ha rivitalizzato la nostra economia, ci ha dato una moneta forte. L’integrazione con l’Europa ormai è un fatto irreversibile, i tentativi nazionalistici sono puramente folkloristici.
Ma in Europa ci si imbatte anche in una nuova ideologia, più sottile ma non meno penetrante, un’ideologia nichilista che afferma che nulla ha valore, una “dittatura del desiderio” secondo cui l’unico valore è soddisfare i desideri immediati di ciascuno. Cosa pensa a questo proposito?
Non ho paura di questo. In Polonia la situazione è diversa, la Chiesa ha ancora un ruolo importante. A me non spaventa che la gente, dopo quarant’anni in cui ogni iniziativa era inibita, riprenda a muoversi secondo i propri desideri, che cerchi la propria soddisfazione in tutti gli ambiti della vita. La gente ha ripreso in mano la responsabilità per il proprio destino: non mi sembra che sia nichilismo. L’importante è che la Chiesa continui a essere quella che è. La Chiesa nella storia polacca ha avuto un ruolo fondamentale. I preti erano contro il nazismo, i preti erano contro il comunismo, si sapeva bene la Chiesa da che parte stava. In Polonia oggi ci sono settori della Chiesa che si intromettono troppo nella politica spicciola, che pretendono di stabilire chi debba essere quello o quell’altro ministro (il riferimento è a un gruppo di sacerdoti che da qualche tempo svolge in Polonia una chiassosa campagna politica in chiave fortemente nazionalista, da cui peraltro i vescovi hanno nettamente preso le distanze, ndr). Non è il suo compito. Il compito della Chiesa è quello di sempre, difendere la persona dal potere dell’ideologia. Vorrei che non si scostasse da questo, che è il suo ministero di sempre.
Un compito che è ben rappresentato dall’opera di Giovanni Paolo II. Lei lo ha conosciuto bene. Che cosa ce ne può raccontare?
Forse è meglio dire, come fece una volta Zanussi (Krzysztof Zanussi, altro grande regista polacco, ndr), a cui era stata rivolta la stessa domanda: «È lui che conosce me». Ma visto che insiste, le racconterò un episodio che per me è stato particolarmente commovente. Una volta in Vaticano era stata organizzata una proiezione alla sua presenza del mio film Pan Tadeusz, che porta sullo schermo il più classico dei testi della letteratura polacca: anche il giovane Wojtyla lo aveva interpretato quando recitava nel “Teatro rapsodico”. Ebbene, a un certo punto il Papa ha chiuso gli occhi, e si vedeva che stava assaporando quelle parole, che tante volte anche lui aveva recitato. Poi li ha riaperti, ha seguito il film fino al termine e alla fine mi ha detto: «L’autore ne sarebbe soddisfatto». È stata la più importante recensione che ho ricevuto.
È questo che la spinge a continuare, a realizzare a ottant’anni suonati opere che vengono premiate perché «aprono all’arte cinematografica nuove prospettive»?
Chissà (Wajda sorride, ndr). Certo che non mi aspettavo proprio questo riconoscimento. Oggi va di moda realizzare film mescolando invenzione e realtà, così ci ho provato anch’io. Avevo cominciato a girare un film su questa novella di uno scrittore polacco, Jaroslaw Iwaszkiewicz, che si intitola Tatarak (è il nome di una canna selvatica che cresce lungo i fiumi, dal profumo inebriante). La storia ha come protagonista una donna il cui compagno è gravemente malato, però a un certo punto il marito dell’attrice che impersonava la protagonista, Krzystyna Janda, si è ammalato per davvero, e lei ha dovuto prendersene cura. Pensavo che non se ne sarebbe fatto più niente, invece, dopo la morte del marito Krzystyna è venuta da me e mi ha detto che era disposta a proseguire il lavoro, inserendo però anche il racconto di che cosa aveva significato per lei seguire la malattia del marito. Così è venuto fuori questo film, in cui realtà e finzione si incontrano per mettere a tema il nostro atteggiamento nei confronti della malattia e della morte, un dramma che riguarda tutti.
Insomma, questo significa che è ancora possibile fare del cinema che non sia di evasione, ma che aiuti a guardare più profondamente le cose.
Assolutamente sì. La differenza è che anni fa i temi prevalenti erano la politica e la società, oggi è l’uomo, i suoi drammi, i suoi desideri. E la morte, che ci aspetta dietro l’angolo, che non possiamo evitare.