Il magistrato ucciso dalla mafia nel 1990 fu un esempio straordinario di fede, umiltà e coraggio
di Clarence Green
Vent'anni dopo il suo barbaro assassinio, è iniziata la causa di canonizzazione del 'giudice ragazzino'. Rosario Livatino cadde sotto i colpi della mafia il 21 settembre 1990 nella sua Agrigento. Magistrato coraggioso, Livatino fu innanzitutto un cristiano esemplare, definito da papa Giovanni Paolo II “martire della giustizia e indirettamente della fede”. L'avvio del processo diocesano di canonizzazione è stato comunicato alla CEI da monsignor Franco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, ed è stato reso noto dall'arciprete di Raffadali, don Giuseppe Livatino, al termine dei funerali di Vincenzo Livatino, padre del giudice, scomparso nei giorni scorsi all'età di 93 anni.
Nato a Canicattì (AG) il 3 ottobre 1952, Rosario Livatino è figlio unico di Vincenzo e Rosalia. Dal padre avvocato eredita la passione per le discipline giuridiche e, già da liceale, ha le idee chiare: da grande farà il magistrato. Rosario è un adolescente schivo, umile e studiosissimo. Non è il classico 'secchione': in modo assolutamente disinteressato ama aiutare i compagni di classe in difficoltà. Il cammino di fede intrapreso nell'Azione Cattolica, lo aiuterà ad aver chiara la propria missione: portare la giustizia in una terra come la sua, afflitta dalla criminalità organizzata e dall'iniquità. Nel 1975 si laurea in giurisprudenza a Palermo e, nel 1978, a ventisei anni, vince il concorso da magistrato. Un incarico e una responsabilità che Rosario prenderà più che mai sul serio. “Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”, scrive sulla sua agenda.
Un anno più tardi Livatino entra nella Procura della Repubblica di Agrigento, dove da subito inizia a distinguersi per la sua professionalità, per la sua umanità e per la sua devozione. Ogni giornata di lavoro di Rosario inizia con la visita del Santissimo. Sulla sua scrivania tiene un crocifisso ed un Vangelo. Il suo lavoro di operatore di giustizia non può avere un senso se non ispirato da Cristo e dalla Sua Misericordia. Anche durante le udienze in Procura si assicura che il crocifisso sia sempre presente in aula. Con gli anni acquisisce una straordinaria conoscenza del fenomeno mafioso, in tutte le sue sfaccettature. Scopre legami tra mafia e massoneria, smaschera la prima 'tangentopoli siciliana'. Gli vengono quindi affidate le inchieste più rischiose, che Livatino accetterà sempre, con coraggio e spirito di servizio. Il giovane magistrato ha scelto di non sposarsi, per potersi dedicare a tempo pieno alla propria missione ed evitare di coinvolgere la propria famiglia in eventuali situazioni tragiche. Fino a quella tragica mattina del 21 settembre 1990, quando, durante il consueto percorso in auto da Canicattì ad Agrigento, Livatino viene bloccato lungo la statale 640 e freddato a colpi di revolver da quattro sicari mafiosi. Pur ormai consapevole di essere nel mirino di Cosa Nostra, il magistrato non aveva mai chiesto la scorta: il suo più grosso cruccio non era quello di finire ucciso ma che altre persone potessero perdere la vita insieme a lui.
Sulla breve ed eroica vita di Rosario Livatino sono stati spesi fiumi di inchiostro, pubblicati libri, documentari e film. L'avvio della causa di beatificazione è stato possibile per iniziativa di monsignor Carmelo Ferraro, vescovo di Agrigento negli anni '90, ma soprattutto di Ida Abate, insegnante di latino e greco di Livatino durante il liceo. Fu la professoressa Abate a notare per prima gli straordinari talenti – intellettivi ma soprattutto umani – del giovane, incoraggiandolo in tutte le sue scelte. Dopo la morte dell'ex allievo la docente ha iniziato la raccolta di tutte le testimonianze che un giorno lo porteranno all'onore degli altari. Questa è la storia di Rosario Livatino, eroe sconosciuto in vita, modello di giustizia umana e santità in morte.
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