Il Daily Telegraph lo attaccò con un articoletto satirico che cominciava così: “Ascetico Signor Lewis”, ma avevano sbagliato bersaglio; quando l’amico J. R. R. Tolkien lo venne a sapere, esplose in una risata, e scrisse al figlio in guerra nella Raf: “Ti dico io! Lui si è scolato tre pinte di birra durante un incontro brevissimo che abbiamo avuto stamattina e ha detto che avrebbe cominciato subito a osservare la quaresima”. Questo era C. S. Lewis – “Jack” per tutti gli amici e gli intimi, visto che riteneva i nomi Clive Staples un brutto tiro dei suoi genitori – l’uomo cui qualche anno dopo, nel 1947, il Times avrebbe dedicato la copertina come al più celebre apologeta laico che il secondo Novecento abbia conosciuto, lo scrittore nato nel 1898 le cui opere come “Le lettere di Berlicche” o “Le cronache di Narnia” vengono tuttora lette da centinaia di milioni di lettori di ogni età e categoria, l’accademico che vedeva le sue aule a Oxford e Cambridge – laddove, caso unico, inventarono una cattedra apposta per lui di Letteratura medievale e rinascimentale – gremite fino all’inverosimile anche da chi non avrebbe poi sostenuto i suoi esami, come gli studenti di matematica o medicina; il conferenziere protestante che accettava di buon grado di tenere una lezione per delle suore di clausura, salvo mormorare sorridendo: “Le porte dei conventi si aprono anche dall’interno, spero”. Egli stesso amava definirsi “un pagano convertito in un mondo di puritani apostati”. E non è un gioco di parole affermare che la sua opera è stata tutta dedicata a che un mondo di puritani – credenti e non – si riscoprisse pagano: uomini magari confusi, ma desiderosi, così da poter diventare autenticamente cristiani. Uno sguardo, questo, che ha molto più in comune col cardinale Newman e Benedetto XVI che con tanta chiesa anglicana contemporanea, cui pure Lewis è appartenuto, ma di cui costituisce un figlio tanto celebre quanto scomodo, con conseguenze al presente davvero imbarazzanti, ma che occorre raccontare per ordine.
Lewis sapeva che la maggior parte delle personedell’occidente moderno si immaginano Dio in fondo come “il tipo di persona che sta sempre a spiare se uno se la spassa, e poi cerca di impedirglielo”. Era altrettanto, se non più, sicuro che si fosse veramente cristiani in virtù e non nonostante i propri desideri più profondi. E’ questo, se si vuole, il leitmotiv di tutta la sua opera, e del suo straordinario successo. Giovanni Papini disse che Chesterton aveva riportato la gioia nel cristianesimo. E Lewis, che a Chesterton ha dovuto così tanto, intitolò la propria autobiografia “Sorpreso dalla Gioia” (“Soppresso dalla Gioia”, la chiamava con gli amici): egli non ha mai avuto paura di puntare tutto sui “più profondi desideri e impulsi” dell’uomo, giacchè sono proprio questi a condurci a Dio. Sono già il Suo Regno, i Suoi araldi, visto che è proprio Lui ad aver “popolato il mondo di piaceri”, con una speciale strategia. Quello che tocca a ogni uomo desto lo si può riassumere nel consiglio che farà dare ai bambini di “Narnia” dal proprio alter ego letterario, il professor Digory: “Tenete gli occhi aperti. Il segreto vien fuori da solo”.
Ma di quale segreto si tratta, e cosa vuol dire tenere gli occhi aperti? Egli riprende la stessa immagine e la amplia, nella sua autobiografia: “Quello che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate; ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete aver ingannato voi stessi, ma l’esperienza non sta ingannando voi. L’universo risponde il vero quando lo interrogate onestamente”. E’ questo a mandare in bestia il demonio Berlicche, quando il nipote demonio gli scrive sulla nuova dirompente conversione del suo “paziente”, la persona che gli è stata affidata e che deve tentare fino all’ultimo respiro. Il diavoletto maldestro non capisce le proprie “balordaggini”, e lo zio navigato da secoli di lavoro, spiega: “Hai permesso al paziente di leggere un libro che veramente gli piaceva, del quale veramente godeva. In secondo luogo gli hai permesso di fare una passeggiata fino al vecchio mulino, e di prendervi il tè. Una passeggiata attraverso un paesaggio che veramente gli piaceva, e fatta da solo. In altre parole, gli hai offerto due veri, positivi piaceri. Sei stato così ignorante da non vederne il pericolo?”. Ed ecco il dantescamente “loico” Berlicche spiegare perché: “La caratteristica dei dolori e dei piaceri è che non ci si può ingannare sulla realtà, e perciò, in quanto esistono, offrono all’uomo che li prova una pietra di paragone della realtà”. Ed è stato proprio grazie al pungolo di questa continua pietra paragone che il “paziente” Lewis smise di essere l’esteta cinico e relativista della sua giovinezza. Egli che aveva serenamente rispedito al mittente il cristianesimo familiare all’età di dodici anni, dedicandosi con successo e senza complessi a quelli che riteneva le massime aspirazioni possibili (la cultura, il successo e le donne), “al centro di ogni esperienza pura” continuava ad accusare “qualcosa che non potrà mai essere descritto”. Provò a farlo per tutta la vita, come per bocca di uno dei personaggi del suo ultimo, grande romanzo “A viso scoperto”: si trattava di qualcosa che uno scopre “proprio nei momenti di maggiore felicità. E proprio perché tutto era così bello, nasceva dentro di me un desiderio, sempre lo stesso: da qualche parte doveva esserci qualcosa di ancora più bello. Tutto sembrava dirmi: Vieni! Ma io non potevo andare (non ancora), né sapevo dove andare. Quasi mi faceva male. Mi sentivo come un uccello in gabbia, che vede gli altri uccelli della sua specie prendere il volo verso casa”. Non che la musica e la letteratura, le amate camminate in campagna, i grandi riconoscimenti accademici, gli affetti e gli amori non soddisfacessero. Eppure quanto più si facevano veri e intensi, tanto più custodivano una voce discreta, ma perfettamente chiara: “Non sono io. Io sono un promemoria. Guarda! Guarda! Che cosa ti ricordo?”. E tuttavia, come avrebbe scritto poi, “se questa cosa dovesse veramente manifestarsi – se mai dovesse sentirsi un’eco che non si spegnesse subito, ma si espandesse nel suono stesso – voi lo sapreste. Al di là di ogni possibilità di dubbio direste ‘ecco quella cosa per cui sono stato creato’”. Se qualcuno gli avesse chiesto con chi fosse d’accordo, non avrebbe esitato a rispondere: H. G. Wells, Bertrand Russell, Bernard Shaw, i grandi polemisti anti religiosi della sua generazione – la cui statura fa ancor più disperare chi sia costretto oggi a sorbirsi Odifreddi o Augias. Salvo poi ammettere che in fondo in fondo costoro gli parevano “di latta”, perché “in essi non sembrava esserci profondità. Nei loro libri, la ruvidezza e la densità della vita non trasparivano”.
Gli unici davvero in grado di rendere ragione della misteriosa vastità della vita, e del suo intimo rovello, sembravano proprio i detestati cristiani, si trattasse di ammirati scrittori come Dante, Milton, Chesterton, o amici vicini come il collega J. R. R. Tolkien. Saranno loro a sconfiggere per sempre il suo “snobismo cronologico”: ciò che avrebbe lucidamente definito come “l’accettazione acritica del clima intellettuale della nostra epoca e la presunzione che qualsiasi cosa passata di moda ha perso perciò tutto il suo credito. Dovete scoprire perché è passata di moda. Se è stata confutata (e se sì dove, da chi, e con quali risultati)”. Nel suo diario Lewis annoterà: “I cristiani hanno torto, ma tutti gli altri sono noiosi”. Solo una posizione religiosa, che ammettesse “che Dio era Dio”, risultava davvero in grado di abbracciare, senza ridurre o mutilare, quel misterioso struggimento che non poteva essere identificato né con la natura, né con l’arte, né con il sesso. Per questo una sera del 1929, nel silenzio della sua camera al Magdalene College di Oxford, Lewis si inginocchierà: “Ero, forse, il convertito più riluttante di tutta l’Inghilterra”. Ma quello che lo farà passare dal semplice teismo a un positivo cristianesimo sarà il compimento e una sorta di salto quantico di tutta la dinamica raccontata finora. Lewis è troppo intelligente e logico per accontentarsi di ritenere Gesù “un grande maestro morale”. Questa è pura “idiozia”, perché “un uomo che fosse solo un uomo e dicesse le cose dette da Gesù non sarebbe un grande maestro morale. Si tratterebbe o di un pazzo lunatico – e di un tipo particolarmente detestabile – oppure sarebbe il demonio in persona. O quest’uomo era, ed è, il Figlio di Dio; oppure è un pazzo o qualcosa di peggio”. Cristo lo conquisterà da tutt’altra angolazione, “come un pellerossa che tende l’arco”.
Lewis passeggia con l’amico Tolkien lungo il sentiero di Addison’s Walk, con gli alberi che stormiscono al vento d’autunno e lasciano cadere una cascata di foglie. E qui Tolkien chiederà a Lewis quale fosse stata la prima grande occasione in cui l’avesse raggiunto quel “qualcosa che desiderate fin dalla nascita e che cercate da sempre di trovare, di vedere e di sentire”. Lewis disse che si trattava di quando da bambino aveva letto per caso, senza conoscere il contesto, queste parole: “Piangete tutti perché Balder il Bello è morto, è morto”. Lo avevano commosso fino alle lacrime, e gli avevano fatto decidere di dedicare la sua vita alla letteratura, come scrittore e come studioso. Si trattava, avrebbe scoperto poi, di un lamento pagano per la morte ingiusta del più giovane tra gli dei scandinavi. E Tolkien lo provoca: quello che ti ha colpito così tanto in quei versi è accaduto davvero, nella polvere delle strade della Galilea del 33 d. C., in un posto chiamato Golgotha. Quello fu il suo personale “discorso all’Areopago”, e Tolkien il suo san Paolo: “Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio”. Per questo secondo Lewis chiunque incontri Dio non dice mai: “Chi sei Tu?”, ma: “Eri Tu dunque, per tutto il tempo?”, eri già Tu, e io non lo sapevo.
E’ lo stesso orizzonte di colui che è forse la “radice segreta” dei moderni convertiti inglesi, alla cui ombra era cresciuto anche il piccolo Tolkien affidato a un sacerdote del suo oratorio: il cardinale John Henry Newman; questi affermava che “convertirsi vuol dire in fondo aderire ancora di più a quanto si credesse fermamente già prima”. L’uomo secondo Lewis non deve faro altro che guardare bene a ciò che desidera, perché è questo a identificare la propria identità ultima e irriducibile, il suo volto, senza il quale non è possibile scoprire nessuna risposta adeguata. Sono le parole di Aristotele, che Lewis amava citare: “Chi vuol avere successo deve prima porre le giuste domande preliminari”; e sono anche le parole della protagonista di “A Viso Scoperto”, non a caso una regina pagana: “Capii perché gli dei non ci parlano apertamente, né ci lasciano rispondere. Come possono incontrarsi con noi faccia a faccia, finché non avremo un volto? Ora so, Signore, perché tu non dai risposte. Tu stesso sei la risposta. Davanti al tuo volto ogni domanda muore sulle labbra. Quale altra risposta sarebbe soddisfacente?”. Scrivendo a un amico, ecco la conclusione di tanti passi, e l’inizio di un viaggio tutto nuovo: “Gesù è un mito”, come tutte le grandi storie di dei che abbracciano la morte, il dolore e l’umiliazione della vita umana, “con la tremenda differenza che è davvero accaduto”. E a questa tremenda differenza dirà di sì, “sorpreso” ancora una volta che i propri desideri più profondi fossero più veri di quanto egli osasse sperare o immaginare. A questa scoperta Lewis dedicherà tutta la vita, e il suo pensiero e le sue parole arriveranno inaspettatamente lontano, se Papa Benedetto XVI ha potuto dire nel 2008 che “sì, questa storia è accaduta realmente. Gesù non è un mito, è un uomo di carne e sangue […] e i miti hanno aspettato Lui, in cui il desiderio è diventato realtà”. Le stesse parole. Ma chi ha seguito gli interventi e il pensiero dell’allora cardinale Ratzinger, lo ha trovato spesso citare – soprattutto nei suoi viaggi inglesi – “lo scrittore e filosofo Lewis”, e la sua costante ammirazione per “Berlicche” e “L’abolizione dell’uomo”. E non è stato il solo Pontefice, dato che il Giovanni Paolo II teologo dell’amore sponsale non ha mai nascosto la sua predilezione per “I quattro amori” di Lewis. “Lewis sapeva qual’era il suo apostolato”, affermò Giovanni Paolo II al termine di un’udienza, “e l’ha fatto!”. Che un Pontefice romano dia dell’apostolo a un laico anglicano non è davvero poco. Anche la chiesa d’Inghilterra non può che rammentarlo, ma sempre meno e sempre più a denti stretti, visto che il limpido, solare “cristianesimo così com’è” di questo laico che – pur mettendo Enrico VIII all’inferno per bocca di Berlicche e dicendo che chi dissente dai cattolici sulla Vergine Maria finisce facilmente col sentirsi “un tanghero, oltre che un eretico” – non ha mai voluto pronunciarsi su ciò che divideva le chiese, trova sempre meno spazio in quella chiesa anglicana che, come ironizzava Oscar Wilde, ha come proprio santo patrono il san Tommaso dei dubbi e non il san Pietro delle certezze.
Quel che non si può più celare è come proprio i figli spirituali più celebri del grande apologeta, i suoi eredi artistici e filosofici, siano in maggioranza diventati cattolici, riconoscendo di aver semplicemente portato alle estreme conseguenze quanto era già implicitamente presente nel pensiero e nello sguardo del loro “maestro ed autore”. Bastino alcuni nomi di una lista assai più lunga: Thomas Howard, il teologo appartenente alla più celebre famiglia evangelica americana, quello che è stato chiamato il “Lewis americano”, oppure Peter Kreeft, storico docente di Filosofia del Boston College, forse il più noto apologeta contemporaneo, oppure Walter Hooper, segretario di Lewis e curatore della sua opera omnia, la persona che è riuscita a mettere a disposizione del mondo le migliaia di lettere di chi, pur così gravato da mille responsabilità, ha sempre risposto a chiunque gli abbia scritto, fosse il più illustre dei colleghi o il più piccolo dei bambini. E proprio un aneddoto raccontato di persona da Walter Hooper a chi scrive è forse in grado di descrivere perché tutti costoro, e molti altri, sotto l’influenza di Lewis, abbiano “varcato il Tevere”, come si usa dire. “Se Lewis fosse qui, oggi su questa terra, sarebbe certamente cattolico”, mi disse. “Per me il punto di svolta fu una domenica di Pasqua, anni dopo la sua morte. Mi recai in cattedrale, e un vescovo anglicano – mantenne questa vaghezza per carità, credo, nda – iniziò l’omelia dicendo: ‘Cari fratelli, stamattina parlavo col mio gatto, e gli domandavo: ma tu, o gatto, sei davvero sicuro che Gesù sia risorto?’. Me ne andai via disgustato; a casa accesi il televisore e vidi a Roma un uomo vestito di bianco esclamare a gran voce ‘Cristo è davvero risorto!’. Dove mai sarei potuto andare?”. E’ difficile immaginare un posto diverso per chi sia cresciuto con chi ha pubblicato un saggio come “Il veleno del soggettivismo”, e ha scritto che incontrare Dio è la cosa più gloriosamente scomoda del mondo, perché “Egli sta costruendo una casa tutta diversa da quella che avevate in mente voi. Pensavate di diventare una casetta ammodo: ma Lui sta costruendo un palazzo. Intende venirci a vivere Lui stesso”; se c’è una casetta ammodo è proprio la chiesa d’Inghilterra, che è abbastanza protestante da non obbedire al Papa, ma non così tanto da disobbedire alla Regina.
Nel vangelo si parla di Giacomo e Giovanni come “figli del tuono”, e non c’è forse miglior appellativo per i figli di una voce possente come quella di Lewis, come testimonia lo scrittore e poeta Sheldon Vanauken, aiutato da Lewis a convertirsi – anche Vanauken sarebbe poi diventato cattolico. Questi raccontò del suo ultimo incontro con Lewis, e di come tutti e due si fossero salutati con la sensazione che non si sarebbero rivisti mai più. Sheldon scosse la mano e disse: “Addio”. Fu richiamato dal vocione possente di Lewis, che lo fece tornare indietro. Questi sorrise al giovane, e tuonò: “I cristiani non dicono mai addio. Arrivederci!”. Per i figli e i discepoli di un tuono così, sentire le parole che echeggiavano forti e sicure in piazza San Pietro non poteva che farli sentire a casa.
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di Edoardo Rialti