I protagonisti di «Se la casa è vuota» di Isabella Bossi Fedrigotti come specchio dei tempi
di Susanna Tamaro
Addio a famiglia, scuola, Chiesa e tradizione: i ragazzi sono soli
Fin dalle prime pagine, sembra di aver già conosciuto questi sei ragazzi di cui Isabella Bossi Fedrigotti, nel suo nuovo libro Se la casa è vuota (Longanesi), ci racconta le storie. Ci vengono incontro con le loro indolenze, con le loro disperazioni nascoste, con le loro rabbie autodistruttive, con le loro astuzie e le loro ostilità silenti. Lorenzo, Annalisa, Paolina, Francesco, Carlo, Pietro sono i ragazzi della porta accanto, i nostri nipoti, i nostri figli, i figli degli amici. Alle loro spalle non ci sono situazioni estreme di degrado sociale o culturale, semmai di privilegio: belle case, domestiche filippine, genitori colti, madri intelligenti e spigliate, padri in carriera, un contorno di attività ricreative volte a trarre da loro il meglio. Ad un certo punto, però, qualcosa si inceppa. Così Paolina, figlia di un artista e di una sceneggiatrice, separatisi poco dopo, invece di diventare l’oggetto perfetto dei sogni dei suoi genitori, si trasforma in una punkabestia triste e piena di rancore, mentre Carlo, figlio di un manager in carriera, ossessionato fin dalla più tenera età dalla paura di venire abbandonato a casa con la filippina, finirà, nell’adolescenza, tra gli accaniti fumatori di spinelli e spacciatore occasionale. E che dire di Annalisa, concepita durante una vacanza estiva da un’avventura occasionale? Bambina a sei anni buona e grassa, con una madre bella, elegante, efficiente e, naturalmente, magra, finirà con un serio problema alimentare nell’adolescenza. Sono storie di ragazzi tristi, di ragazzi disperati, soli, invisibili. Ragazzi che ricevono quello di cui non avrebbero bisogno - psicologi, precettori, regali - ma non l’unica cosa che li renderebbe felici: l’ascolto vero, profondo, l’attenzione dei loro genitori, capaci finalmente di vedere in loro la persona e non la proiezione dei propri desideri. Queste storie provocano un dolore triste, silenzioso, perché fin dalle prime pagine, si viene colti dal presagio dell’ineluttabilità della catastrofe. Una catastrofe a cui, purtroppo, sembriamo già tutti rassegnati perché ormai i resoconti di molte adolescenze oggi sono più simili a bollettini di guerra che a storie di crescita. Non voglio generalizzare, conosco e frequento parecchi ragazzi equilibrati e positivi e ho una grande fiducia nella loro energia e nella loro capacità di trovare una via giusta per stare al mondo. Tuttavia non si può negare che esiste una quantità sempre più grande di adolescenti abbandonati a loro stessi, che soccombono alla loro fragilità, una fragilità che non è stata vista, che non è stata intuita, che non è stata aiutata a trasformarsi in qualcosa di diverso. Mai come in questi tempi è stato difficile fare i genitori, la società tradizionale si è disgregata, hanno perso qualsiasi senso le entità che collaboravano all’educazione: la scuola, la Chiesa, il partito, le generazioni precedenti. Al loro posto è sorto il mostro a mille teste dei media, un’idra il cui scopo non è certo creare persone mature e cittadini consapevoli, quanto piuttosto passivi consumatori, fruitori epidermici delle mode dell’istante. Con la società, anche la coppia si è disgregata, non è più un’entità capace di sfidare il tempo, navigando tra gli alti e i bassi - spesso più i bassi che gli alti - ma una realtà fluttuante, soggetta a continui cambiamenti, perennemente alla ricerca di un’utopica felicità futura. A ciò si sono aggiunti alcuni influssi culturali che hanno profondamente modificato la capacità innata - direi quasi etologica - dell’essere umano di educare. Dapprima il mito rousseauiano dell’uomo naturalmente buono, e dunque del bambino naturalmente buono, che lasciato libero di svilupparsi, lo farà nel migliore dei modi possibili, poi la psicanalizzazione di massa della società, per cui ogni intervento educativo viene visto come possibile ingerenza capace di creare futuri traumi o tare. A ciò si aggiungono i sensi di colpa, il terrore di non essere genitori perfetti capaci di garantire ai figli il massimo del benessere, per cui li si riempiono di attività, di oggetti, di intrattenimenti, accompagnati da un sentimentalismo acritico che poco o nulla li aiuta a crescere. La famiglia allora, invece di essere il luogo dell’educazione, diventa una sorta di tana primitiva, un posto in cui ci si rifugia certi di trovare un’indiscriminata accettazione, del cibo, dei servizi essenziali, la possibilità di ripararsi ed essere protetti dall’incomprensibilità del mondo, indifferenti a quello che succede all’esterno. I padri sono scomparsi dall’orizzonte, al loro posto si sono materializzati i «mammi», padri che hanno smesso l’abito dell’autorità per vestire quello del servizio, e questa modifica di ruolo, apparentemente così innocua e positiva, ha in realtà alterato la polarità della coppia. Maschile e femminile sono confusi, sovrapponibili, interscambiabili, senza confini. La fine della figura del padre è anche la fine dell’idea di generazione, dell’uomo come essere immerso nel divenire del tempo. Siamo il frutto di ciò che era e il seme di ciò che sarà. Senza questa idea, senza l’idea che il tempo e le generazioni sono lo spazio in cui l’uomo si interroga ed edifica il suo senso, senza l’idea della transitorietà individuale, la vita - e dunque l’educazione - diventano prive di qualsiasi fondamento. Non si ha più bisogno di una volontà, non c’è più una meta verso quale tendere. Invece di edificare il tempo, consumiamo l’istante, seguendo non una via etica ma il susseguirsi mutevole dei nostri umori e dei nostri desideri. Non siamo più noi che determiniamo la nostra vita con la nostra volontà, con la nostra capacità, con le nostre sfide, ma siamo noi a essere intrattenuti e consumati dal tempo, dalle occasioni della vita, da rapporti che non sono mai veri rapporti, dall’analfabetismo dei sentimenti e dal trionfare della loro parodia, il sentimentalismo. Di cosa hanno bisogno i ragazzi veramente per crescere? Di accoglienza e di fermezza. Hanno bisogno di un femminile materno, capace di accogliere, di proteggere e di dare stabilità, e di un maschile paterno, in grado di guidare e correggere, di indicare una strada da percorrere. Gli infiniti modelli culturali che si sono affastellati in questi ultimi secoli ci hanno fatto dimenticare il nostro essere costituiti in gran parte da natura, e che la natura ha le sue leggi immutabili. Queste leggi ci dicono che il vivente, per crescere, ha bisogno della stabilità di un terreno e di una direzione verso cui andare. La solitudine disperata di questi tempi dipende anche dall’essersi posti fuori da questo eterno movimento, convinti che le teorie e le idee, e ormai anche la tecnologia, siano in grado di determinare il destino e la felicità dell’uomo. Ma, nella complessità evoluzionistica del nostro essere, le idee sono appena la glassa sulla torta, tutto ciò che sta sotto è fortemente natura. E in natura si fanno i nidi, si costruiscono le tane, si accoglie la vita con la massima protezione e si insegnano le leggi per sopravvivere là fuori, perché fuori dalla tana sarà l’aver compreso cosa può succedere, l’abilità a reagire, a rendere lunghi i giorni. La frammentarietà dei rapporti familiari moderni, la loro continua fluidità, l’essere spesso mentalmente sempre altrove dei genitori, generano queste nuove disperate solitudini abuliche, questo vagare alla ricerca di stimoli sempre più forti per avere, almeno per un istante, la sensazione di essere vivi. Così si torna al primo racconto del libro, Io, in cui l’autrice, raccontando del matrimonio tempestosissimo dei suoi genitori, si chiede: «Saremmo cresciuti più sereni se si fossero separati, senza discussioni, senza lacrime e male parole? Probabilmente sì, magari da adulta sarei stata meno ombrosa e più sicura, però saremmo stati ragazzi più infelici. Pur nelle fragorose tempeste in cui ci hanno così spesso coinvolti, si può dire che siamo stati fortunati perché i nostri genitori hanno avuto la generosità di lasciare decidere noi del nostro e del loro futuro».
S’intitola Se la casa è vuota (Longanesi, pagine 139, Euro 15) la nuova opera di Isabella Bossi Fedrigotti, in libreria da giovedì 2 settembre. Il volume verrà presentato a Milano lunedì 6 settembre. L’incontro, che si svolgerà alle ore 18,30 presso lo Spazio Krizia di via Manin 21, vedrà l’autrice confrontarsi con il direttore del «Corriere della Sera», Ferruccio de Bortoli e con l’attrice Lella Costa. Tema del dibattito sono i mutamenti subiti nel corso degli ultimi anni dalla vita dei nuclei familiari, soprattutto nel rapporto tra genitori e figli: un tema di cui l’autrice si è occupata con assiduità sulle colonne del «Corriere». Nata a Rovereto, Isabella Bossi Fedrigotti ha esordito in letteratura nel 1980 e ha vinto il premio Campiello nel 1991 con il romanzo Di buona famiglia (Longanesi). Nel 2008 ha pubblicato Il primo figlio (Rizzoli).
«Corriere della Sera» del 30 agosto 2010