Cristianesimo ed Escatologia[1]
Louis Bouyer
Un libro di Nietzsche è stato tradotto in francese con il titolo Considerazioni Anacronistiche. E’ uno di quei lapsus in cui cadono i traduttori assonnati. Il significato vero dell’espressione usata da Nietzsche è Considerazioni Inopportune. Ebbene, sono convinto che, di primo acchito, i miei lettori classificheranno questo articolo sotto la rubrica intestata al titolo frainteso. La mia speranza è che quelli che persisteranno malgrado tutto nella lettura la finiscano irridendo quel titolo. Perché tutto l’interesse delle considerazioni che seguiranno, tutta la loro “attualità” è forse proprio di imbarazzare e disturbare nostre abitudini mentali in cui ci siamo troppo comodamente installati..
Cosa è più anacronistico della convinzione dei primi cristiani che il mondo sarebbe finito da un momento all’altro? Nell’introduzione alla traduzione di uno scritto apocalittico dei primi secoli, il Commentario a Daniele di sant’Ippolito, M. Bardy scriveva recentemente, come verità indiscutibile e di fatto assolutamente indiscussa: « .. le circostanze sono cambiate ed i cristiani del XX secolo sono bel lungi dall’attendere la fine del mondo.[2]» E’ così vero questo che poche cose sembrano oggi repellere i cristiani quanto quei critici che, poco preoccupati di compiacerli, sottolineino il posto occupato da un’idea oggi così insolita, nel pensiero di quelli che consideriamo nostri padri nella fede. L’impressione è analoga a quella che farebbe in un salotto un invitato così incivile da fare rilevare che il venerabile avo il cui ritratto domina la cerchia familiare non aveva il cervello a posto. Una protesta rumorosa si leverebbe immediatamente per coprire quelle parole empie. Ma è colpa nostra se la veemenza stessa della reazione ci sembra, proprio essa, segno di un ardore più pronto a soffocare l’osservazione incongrua che capace di confutarla? Mettono molto a disagio certe affermazioni solenni che non accettano mai di prendere sul serio una asserzione temeraria fatta nel tentativo di essere onesti. Ci si velerebbe con tanta fretta la faccia se si fosse veramente sicuri che non c’è niente da vedere o non si ha piuttosto solo una illusione tanto priva di consistenza quanto di pietà?
Si può ben dire che chi vuole dimostrare troppo non dimostra niente. Le numerose dissertazioni prodotte da buoni autori sia cattolici che protestanti, per dimostrare che la fedeltà al vangelo non può in nessuna maniera impegnarli a credere all’incongruità che citavamo, non dissipano affatto il disagio che troppo in fretta e troppo ad alta voce dichiarano inesistente. Addirittura l’aumentano perché si ha l’impressione di sentire dove il basto duole ai rispettabili autori.
Vi sono già tanti temi a proposito dei quali la politica del silenzio dei cristiani si è rivelata una falsa prudenza! Non sarà anche questo un caso simile? E non sarà che un silenzio che si è obbligati a reclamare o che si pretende di ristabilire ad ogni costo non valga più la pena che si facciano tanti sforzi per mantenerlo perché ormai è solo una chimera? Esaminiamo piuttosto, coraggiosamente, la questione dell’escatologia nel cristianesimo antico, così come la critica moderna ci obbliga a porcela. Non potrebbe accadere che, guardata bene in faccia, si riveli più fruttuosa di quanto possiamo immaginare? Può anche essere che la rinuncia ad abitudini dello spirito che ci sono dolci e care, che confusamente percepiamo potremmo rischiare di dovere fare, non siano un prezzo tanto alto per queste acquisizioni o riscoperte.
I
Non pretendiamo di fare, in tutto quello che diremo, opera originale. Cercheremo soltanto di mettere a raffronto da una parte quello che, riguardo al punto che ci interessa, può essere considerato acquisito dal lavoro convergente degli esegeti contemporanei, e, dall’altra parte, le forme abituali e scontate nelle quali si esprime la nostra visione cristiana della storia..
Inoltre non potremo abbordare fruttuosamente la visione dell’antichità senza aver prima preso coscienza chiara della nostra visione. Altrimenti, portandoci dietro i paraocchi di cui neanche ci rendiamo conto, o non vedremmo niente o non capiremmo niente di quello che vediamo.
Se cominciamo dunque con l’esaminare l’insieme della letteratura religiosa, sia cattolica che protestante, della fine del secolo scorso, ci colpiscono alcuni presupposti comuni nella rappresentazione che tutti i cristiani dell’epoca si facevano di Cristo. Credessero o no che fosse il Figlio di Dio e il Salvatore del mondo nel senso stretto dei termini, tutti erano d’accordo nel vedere in lui il grande rivelatore della religione del Padre. In essa poi, tutti trovavano sia una mistica di progressiva unione a Dio iniziata quaggiù per svilupparsi pienamente nella vita eterna, sia una morale di fraternità umana destinata a sollevare i rapporti terrestri attraverso la logica di questa paternità celeste e, in ultimo, un ideale di riforma sociale che mirava a vivificare le istituzioni del mondo con lo Spirito divino.
E’ chiaro che non si tratta di minimizzare, e tanto meno negare il valore di affermazioni su cui tutti i cristiani di quel tempo, malgrado le loro divergenze, hanno potuto essere in comunione. Ma ci possiamo chiedere in che misura ciò che li univa in questo bell’ideale fosse lo Spirito di Cristo, e in che misura fosse semplicemente lo spirito del loro tempo. E in effetti, ciò che colpisce gente che, come noi, vive in un’epoca ben più dura e confusa, è l’ottimismo sereno della loro visione delle cose. E non riusciamo ad evitare l’impressione che esso fosse frutto dell’atmosfera della fine del XIX secolo più che di considerazioni soprannaturali. Il XIX secolo non è forse stato il secolo del progresso come il XVIII era stato quello dei lumi? Non si era forse sollevato, il XIX secolo, nella immensa speranza di una umanità ormai giunta all’età matura che realizzava progressivamente, ed ormai infallibilmente, la propria perfezione intellettuale, morale e sociale grazie alle grandi verità razionali e positive finalmente liberate in virtù di uno sforzo millenario? I cristiani di allora non potevano essere colpiti, a buon diritto, che queste verità di cui l’uomo moderno era così fiero fossero, in fondo, delle verità cristiane semplicemente laicizzate?[3] Potere organizzatore e dominatore del libero spirito sulla materia, morale di fratellanza fondata sull’eminente dignità della persona, aspirazione ad una città nuova «in cui abiterà la giustizia», cosa sono queste se non verità cristiane che hanno dimenticato la loro origine? Che pensiero confortante per il cristiano tentato dal barcollare di fronte alla grande ondata di incredulità che deborda da ogni parte! In queste minacce non c’è da vedere che un malinteso. Il cristiano poteva senza scrupolo essere di tutto cuore in comunione con l’aspirazione che trascinava l’umanità del suo tempo, aspirazione in apparenza, ma solo in apparenza, rovinosa per la sua fede. E, al tempo stesso trovava a sua portata, in questa comunione, la più magnifica, la più irresistibile argomentazione apologetica. Per convertire questa marea di ateismo in un riflusso di fede giovane, bastava gridarle: «Quello che cercate, è proprio quello che vi offriamo. Certo, non potete neanche immaginarlo, ma è solo perché l’infedeltà dei cristiani vi nasconde la vera natura del cristianesimo. Ma guardate un po’ più da vicino e vedrete che è, che non è altro, una insperata realizzazione dei vostri desideri più ardenti…». I cristiani sentono il cuore gioioso perché detengono il segreto infallibile per costruire la città della fratellanza, per stabilire il trionfo definitivo della persona, per condurre l’uomo all’età adulta nella Verità (con
Rileggendo i testi che si stampavano su questo tema, negli ambienti più giovani e simpatici sia del cattolicesimo che del protestantesimo alla sponda di questo secolo, si è toccati da tanta fede generosa…
Parliamo del XIX secolo… Ma è forse vero che molti di questi motivi sono ancora presenti nelle considerazioni di cui si nutrono i cristiani di oggi? E’ vero, ed è per molti versi curioso, costatare la permanenza di temi ripetuti in cristiani preoccupati innanzi tutto di essere al passo con i loro tempi, anche se il tempo, nel corso dell’ultimo mezzo secolo, è andato avanti ad una velocità veramente notevole. I temi sono sempre gli stessi, la tonalità invece è molto cambiata. E’ sotto gli occhi di tutti che, a dispetto della loro lusinghiera speranza, il mondo non ha avuto nessuna fretta di riconoscere nelle idee cristiane la perfetta espressione dei suoi desideri confusi. E’ questo ha indubbiamente purificato un po’ la sicurezza troppo ingenua dei nostri cristiani moderni. Davanti al continuo fallimento del loro tentativo di convincere il mondo che solo loro offrivano l’oggetto della sua aspettativa, non è più possibile convincersi che i padri avessero commesso il peccato di velare a quelli di fuori la stessa verità che loro, invece, si illudevano di fare risplendere. E, se ancora si battono il petto, non è più possibile battere il petto di quelli che li hanno preceduti; è piuttosto il loro il petto che devono battere. Se, infatti, è l’indegnità dei cristiani che vela essa sola la dignità del cristianesimo ad un mondo che non chiede altro che essere illuminato, i cristiani di oggi hanno perduto la speranza di portare la controprova della loro fedeltà lì dove altri si sono mostrati infedeli. Il fariseismo retrospettivo che metteva tanta serenità nelle visioni del futuro dei loro immediati predecessori, a loro non è più permesso.
E’ allora che si introduce uno strano cambiamento di modo in queste variazioni le cui asserzioni variano così poco. Non si ha più affatto la superba sicurezza di sé di prima. Al contrario, in questi ultimi anni, si è introdotta e diffusa in campo cristiano una nota del tutto nuova che sembra stia diventando quella dominante. Come caratterizzarla? Osiamo confessarlo, di nuovo ci ricorda, voci che non hanno nulla di specificamente cristiano. Quando leggiamo le riviste cattoliche e i giornali cattolici del dopoguerra, ci torna alla mente quel grande cuore gemente e contrito che è echeggiato improvvisamente in tutta
Strana conversione quella di questi cristiani che fino a poco fa erano così sicuri di convertire il mondo e che ora sembrano sul punto di convertirsi ad esso! Tanto più strano in verità giacché sono gli stessi principi che ieri esplodevano in ‘sbruffonate’ spirituali ed oggi emanano quello che Bernanos non ha paura di definire un effluvio di apostasia.
Speranze chimeriche, disperazioni esagerate, questa ambivalenza non è un buon segnale per le convinzioni del cristiano moderno. L’ammirabile aggiustamento reciproco tra l’ideale cristiano e l’ideale del mondo, di cui ci si vantava, sembra ormai incapace di soddisfarsi della Chiesa così come non ha potuto soddisfare il mondo. Invece di tentare ogni volta, senza successo, di persuadere il mondo che si sta sbagliando sul cristianesimo ed il cristianesimo che si sbaglia sul mondo, non sarebbe il momento di domandarci se per caso non sbagliamo noi sull’uno e sull’altro? Non varrà la pena di ascoltare un attimo quello che gli esegeti ci dicono da mezzo secolo e che le nostre varie fantasie contraddittorie ci fanno ostinatamente respingere? Anche se ad esaminarle ci dovessimo convincere che quanto dicono è inaccettabile, varrebbe comunque la pena giacché non siamo, in definitiva, tanto appagati dalla fedeltà al nostro modo di percepire. Forse, non fosse che per un’ora, potremmo mettere le nostre idee moderne tra parentesi e ascoltare la lezione che, dicono gli esegeti, ci danno i progenitori della tribù? Dopo, se il contrappunto un po’ discordante, che con il suo tema trasposto finisce con il confonderci lo spirito, ci sembra malgrado tutto preferibile a questa melodia troppo primitiva, che cosa ci impedisce di riprendere il nostro concerto e la nostra speranza, fin qui insoddisfatta, di risolvere una dissonanza inopportunamente ostinata?
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«La conversione del mondo», ecco cosa spera l’apostolo della fine del XIX secolo, ecco quello di cui dispera l’apostolo dell’inizio del XX. Ma gli apostoli e basta, sembrano essere stati indenni sia dall’uno che dall’altro. San Paolo bruciava per il desiderio di impiantare il Vangelo in tutto il mondo conosciuto ed era tanto più impaziente di farlo perché credeva che il Regno di Dio sarebbe giunto appena questo compito sarebbe stato portato a termine; e, se punta all’evangelizzazione del mondo nel senso più «cattolico», non sembra neanche sfiorato dall’idea che il mondo nel suo insieme possa aderire al Vangelo. Prova ne sia che questa evangelizzazione è per lui, praticamente, cosa fatta, quando in una città o in una regione il Vangelo sia stato pubblicamente annunziato e qualche fedele lo ha accolto. All’Apostolo allora non resta altro da fare e va più lontano per fare anche là esattamente la stessa cosa. Certamente, i cristiani che lascia sul posto continueranno la testimonianza che egli ha iniziato. Si rallegrerà che la loro fede, secondo le sue parole, «si moltiplichi». In nessun caso sembra essere toccato dalla speranza o dal sogno di adesioni massive. E quello che sul momento non sembra attendersi non lo attende neanche per il tempo successivo che riesce a prevedere. E’ lungi dal credere che l’ostilità del mondo al Vangelo che sperimenta possa andare sciogliendosi come ghiaccio al sole per effetto del suo annunzio. Al contrario. Questa ostilità gli appare al momento presente «contenuta» da una barriera che presto salterà. E’ il famoso katechôn o katechon a volte maschile a volte neutro che, nella seconda lettera ai Tessalonicesi[4], argina per adesso «il mistero dell’iniquità». E’ molto probabile che si tratti dell’annunciatore del Vangelo, l’Apostolo o
La stessa cosa negli scritti giovannei. Il vecchio Giovanni ripeterà fino all’ultimo respiro «Figliolini miei, è l’ultima ora, e avete udito che l’Anticristo viene, anzi vi sono già degli anticristo: da questo riconosciamo che è l’ultima ora.[5]» Il giovane visionario di Patmos diceva la stessa cosa. Via via che l’Agnello spezzava i sigilli del libro, non vedeva le moltitudini pagane cadere in estasi davanti alla parola del Vangelo, i costumi addolcirsi sempre più, le leggi umanizzare la loro stretta, la gioventù fiorire intatta e la vecchiaia morire nella pienezza. Al contrario, mentre il numero degli eletti si completava uno ad uno senza che il mondo se ne rendesse conto, vedeva il susseguirsi dei cinque cavalieri dell’Apocalisse scatenarsi su di esso, e le cinque coppe della collera divina versarsi sulla terra[6]. Ed il suo Vangelo non dice nulla di diverso. «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo. Ma poiché voi non siete del mondo, perché io vi ho eletto e tratto da esso (….) per questo il mondo vi odia.[7]… Avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate coraggio perché io ho vinto il mondo.[8]»
Ed è sempre san Giovanni che ha custodito per noi la parola meravigliosa: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unico affinché chiunque creda in lui non perisca ma abbia la vita eterna.[9]». E’ ancora lui a mettere sulla bocca di Cristo queste parole decisive: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma per salvare il mondo…[10]» Ma, in questi ultimi testi, il mondo non è valutato in se stesso ma in vista dei predestinati che racchiude e che il Figlio viene a cercare. Per questo, senza contraddizione alcuna continua dicendo: «Colui che crede in lui non è sottoposto a giudizio; ma chi non crede è già giudicato perché non ha creduto nel nome del Figlio unico di Dio. Ed il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce…[11]» Tanto è così che quando si tratta del mondo in quanto tale, separato dagli «eletti» che ne sono stati tratti, Gesù pronuncia questa parola inesorabile nella sua semplicità: «Io non prego per il mondo [12]», e san Giovanni commenterà: «Non amate il mondo né quello che è del mondo. Il mondo intero è in potere del Maligno.[13]».
Ed i Vangeli sinottici, che riportano anch’essi la parola stessa di Cristo nella sua semplicità, ci fanno udire, almeno loro, un suono diverso? Tutt’altro. In essi Gesù dice: «Non pensiate che io sia venuto per portare la pace al mondo ma la spada. Sono venuto a separare l’uomo da suo padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera e rendere nemici dell’uomo quelli della sua casa[14]». Ma, ci ribatteranno subito, non ci danno i Sinottici la parabola del seme che cresce e diventa un albero su cui gli uccelli del cielo vengono a fare il nido? E quella del lievito che messo in tre misure di farina fa lievitare tutta la pasta? Non sono queste delle promesse chiare dello sviluppo vittorioso del cristianesimo nel mondo, del suo inserimento nel progresso stesso del mondo – per raddrizzarlo, se necessario, ma soprattutto per far penetrare in esso la sua propria virtù? Forse. Ma non è così certo che tutte queste belle cose siano presenti nei testi così invocati. Li esamineremo tra poco più da vicino. Adesso ci limitiamo a sottolineare che i sinottici ci presentano anche la parabola della zizzania: la zizzania seminata assieme al grano, il cui sviluppo è inestricabilmente legato a quello del grano, fino alla mietitura finale che finalmente li separerà… è non per la conversione in extremis della zizzania in grano ma attraverso la distruzione nel fuoco.
Questa parabola ci pare particolarmente interessante per riassumere e precisare l’insegnamento in cui i testi che abbiamo citato fanno confluire tutto il Nuovo Testamento. Essa ci mostra, infatti, uno sviluppo del Vangelo nel mondo, meglio ancora, uno sviluppo del Vangelo inserito nello sviluppo del mondo. Ma non ci mostra affatto una fusione progressiva del Vangelo e del mondo. Ben lungi dal tendere ad abbracciarsi, vediamo che l’uno non cresce che per soffocare l’altro, e quest’ultimo, da parte sua, crescere per persistere fino alla mietitura, ma senza alcuna speranza di vincere sull’altro prima di allora.
Per dirlo in una parola sola, ai nostri spiriti moderni affascinati dal monismo, il Nuovo Testamento oppone, nella sua visione della storia futura, un dualismo insormontabile. Noi sembriamo essere, oggi, prigionieri di una teologia detta dell’incarnazione, secondo la quale la divinità entrerebbe nel mondo come un ferro caldo nel burro. Il Nuovo Testamento non conosce una incarnazione così. Certo, obbliga i cristiani a «glorificare Dio nel loro corpo»[15]. Ma non sembra supporre che in questa vita possano farlo che «portando sempre la morte di Gesù nel loro corpo[16]». L’incarnazione, così come la concepisce il Vangelo, non è l’apoteosi del mondo. Al contrario, è il principio della sua irrimediabile rottura. Il Figlio di Dio non si tuffa piacevolmente nella nostra carne, vi discende come nella morte. Che si sia fatto uomo e che si sia fatto obbediente fino alla morte di Croce è, per san Paolo, una sola cosa.
Certo, l’incarnazione è anche la salvezza del mondo, ma non è un cordiale che lo riscaldi per una sbronza dolce e gioiosa. E’ una medicina terribile. Quando il mondo la assaggia, capiamo bene che dica, come i figli dei profeti ad Elia: «Uomo di Dio! Nella pentola c’è la morte!». Per il mondo, come per Dio stesso, l’incarnazione è la croce.[17]
Il progredire del Vangelo nel mondo, così come lo intende il Nuovo Testamento, non è assolutamente una seduzione, una assunzione progressiva, e al tempo stesso una pacificazione di tutta la realtà umana. Così come una epidemia demoniaca sembra incollata ai passi del Salvatore, si direbbe che il Vangelo debba svegliare nel mondo una ostilità rimasta fino a quel momento latente e portarla, poco a poco, al parossismo. Non si sta con questo negando che il Vangelo debba fruttificare nelle anime, né che questi frutti si debbano vedere all’esterno attraverso opere di ogni genere per mezzo delle quali gli uomini glorificheranno il Padre Celeste. Ma questo frutto verrà alla luce in una obbedienza necessariamente dolorosa e, irrimediabilmente, esso stesso dovrà subire la prova del fuoco. Nessuna speranza per gli eletti di accogliere la parola senza trovarsi subito esposti all’inimicizia del mondo. In primo luogo essi sono il «piccolo gregge», il piccolo gregge che deve avere coraggio, perché è piaciuto al Padre di dare loro il regno. Ma quale regno? Il regno dei cieli, evidentemente, non il regno del mondo. Quest’altro è il diavolo a prometterlo… «Stretta è la porta, aspro il cammino che conduce alla vita, e pochi sono quelli che vi passano. Larga è la porta, comodo il cammino che conduce alla perdizione e numerosi sono quelli che lo intraprendono[18]….» che speranza c’è che queste due processioni così diverse, arrivino mai a confondere le loro fila? Certo, si può passare dall’una all’altra (ed il passaggio, purtroppo, è possibile solo in una direzione), ma le due file rimangono separate, e non si formula mai l’ipotesi ed ancor meno la promessa, che il rapporto tra i loro membri possa andare verso un rovesciamento di posizione.
Non basta parlare di due cortei che seguono ciascuno la sua via. Sono due armate in battaglia, due armate tra le quali non c’è modo di rimanere neutrali. Da un canto «Chi non è contro di noi è per noi[19]», perché ogni buona volontà sfiorata dalla grazia divina non aspetta che la proclamazione del Vangelo per accoglierlo. Ma dall’altro «chi non è con me è contro di me[20]», perché chiunque resiste alla grazia che gli è rivelata, qualunque siano i doni che aveva, non è più che un ramo staccato dal tronco e destinato all’aridità e al fuoco. E’ proprio lì che sta tutto il progredire di cui il Vangelo innegabilmente parla: il progressivo chiarirsi di una scelta che si impone con una urgenza sempre più grande. Gli eletti sono nascosti nel mondo, solo il Padre li conosce. Essi non conoscono se stessi. Per questo il Vangelo deve essere annunciato ed annunciato ad ogni uomo. Allora la parola di Cristo produce lei stessa il giudizio, la selezione. Alla Sapienza è resa giustizia dai suoi figli [21]. E, viceversa, la sua presenza costringe i figli della perdizione a manifestarsi. Da un canto vengono rovesciate tutte le opposizioni superficiali, come quella che metteva i Giudei contro i Gentili: in Cristo tutti diventano uno per la fede e l’agape. Ma questa riunione dei figli di Dio dispersi in un solo corpo, provoca ulteriormente l’emergere dell’opposizione fondamentale. Dissimulata fino al quel momento sotto divergenze fittizie e compromessi, essa appare adesso in tutta la sua tragica nudità.
Si capisce adesso che l’Apocalisse di Giovanni ci offra una visione della storia in cui il conflitto anziché calmarsi sale poco a poco al culmine. «Guai a coloro che abitano la terra ed il mare, perché il diavolo è sceso verso di loro pieno di furore sapendo che gli resta poco tempo[22]». Ma, prima del cataclisma finale, gli angeli sterminatori sono trattenuti finché tutti i servi di Dio non avranno ricevuto il sigillo divino sulla fronte[23]. Così sono possibili interludi di consolazione che permettano ai «santi» di respirare nella loro tribolazione. Ma anche il più radioso di essi, il misterioso Millennium di cui riparleremo, non sarà che il preludio dello scatenamento supremo di Gog e Magog[24].
L’Apocalisse dei sinottici non presenta una visione diversa. Il propagarsi dell’evangelizzazione in Giudea andrà di pari passo con il nascere della persecuzione. I carismi dello Spirito, e cioè l’inaugurazione anticipata del Regno di Dio sulla terra, lungi dal fiorire in un umanesimo sereno sono dati solo per affrontare la persecuzione. Questa prima fase dell’apostolato sarà coronata non dal Vangelo che definitivamente vince le opposizioni ed assume, finalmente, le strutture umane preesistenti, ma dalla catastrofe del
II
Non «la conversione del mondo» ma «l’odio del mondo» ecco cosa si attendevano gli apostoli andando ad annunciare il Vangelo. Inimicizia del mondo, manifestata sempre più chiaramente e sempre più scopertamente radicale e definitiva; ma al tempo stesso «vittoria sul mondo».
Le due cose sono inseparabili. Chiunque si chini sulla letteratura religiosa dell’antichità cristiana e la compari a quella di oggi non può non notare che, mentre la prima è naturalmente trionfale, l’altra è dolente e lamentosa. Sarà perché non si può riportare vittoria se si rifiuta eternamente di combattere. Ed è un fatto che i cristiani di oggi non possono sopportare di avere dei nemici. Vorrebbero essere contro tutto quello che è contro e a favore di tutto quello che è a favore. Non c’è più modo, oggi, di essere non credenti. Potete ingegnarvi ad accumulare bestemmie. Tempo perso. Che siate Nietzsche, Proudhon o anche il marchese De Sade, o semplicemente Jean-Paul Sartre, ci sarà certamente un ecclesiastico illuminato che scriverà un libro in cui sarete dolcemente sollecitati, generosamente interpretati, ed abilmente accaparrati. Come il profeta Ezechiele attaccava i cherubini babilonesi al carro della Shekinah, vi troverete, senza sapere come, a pestare nella noria per far montare l’acqua di un mulino gesuita o domenicano… finora nessuno è riuscito a sfuggire!...
Il problema è che queste conquiste su carta non pagano. I nostri cari nemici, che cerchiamo di associare con i nostri artifici dialettici, sfuggono ai nostri abbracci semplicemente ignorandoli. Ma inseguendoli ovunque vadano e non stringendo mai che vento, sfuggiamo a noi stessi. A leggere gli scritti dei cattolici che si reputano vincitori si è vinti dall’impressione che per loro il cristianesimo ha quasi perduto ogni contenuto proprio. Sono «cattolici» nel senso che sono degli instancabili camaleonti. Si direbbe che la loro fede, preoccupata solo di capire e accogliere tutto, non è ormai che una materia duttile e trasparente che eternamente civetta con forme strane che, peccato!, diventano desuete man mano che le adotta.
Quali che siano gli «ismi» che appassionano e divertono i nostri contemporanei, possiamo essere certi di vederne spuntare dopo un po’ un modello ridotto ed accuratamente sterilizzato, ad uso dei cristiani, munito di una etichetta che ne certifica il battesimo in bella forma. Ma il risultato è che quando i non credenti ci ascoltano un po’, non trovano nelle nostre parole che un surrogato ad usum delphini delle loro stesse creazioni, e si voltano dall’altra parte, disinteressati, senza neanche notare il discreto aroma di acqua benedetta che la nostra fallace speranza si sarebbe accontentata di far loro ammettere. Abbiamo quasi perduto il significato di affermazione. Non si può affermare niente senza negare il suo contrario, e la nostra paura malata di scandalizzare o dispiacere, ci trattiene sempre dal dire un no categorico. I nostri antenati predicavano il Vangelo per salvare le anime dei loro fratelli. Ma salvarli attraverso il Vangelo non implicava l’idea che senza di esso si sarebbero perduti? Immediatamente, il cristiano moderno è pronto a tutto pur di lavarsi di una simile imputazione. Non solo non è per salvare gli uomini che andrà a parlare con loro, ma è anche persuaso che, nella loro invincibile ignoranza, è molto più sicuro che loro siano salvati che lui: il suo triste privilegio non è forse essere illuminato sugli obblighi onerosi che a loro non toccano? Ma allora, che interesse pensa che il suo Vangelo possa avere per quelli cui ciò nonostante lo offre? Da un canto non osa metterci che quello in cui loro già credono, abbellito solo da una fraseologia ecclesiastica di cui lui è il solo a percepirne l’interesse; dall’altro, il suo scrupolo ossessivo lo porta a insistere continuamente che non ne aspetta affatto la salvezza dei fratelli. La salvezza è scontata e non pretende di aggiungervi nulla attraverso la sua testimonianza. Se le cose stanno così perché stupirsi che le sue timide avances incontrano così poco successo? Chi entrerebbe in una locanda in cui si cominciasse a dirgli che in essa non starà più al coperto che se restasse fuori e non vi troverà nulla da mangiare se non quello che lui stesso ha portato con sé?
Possiamo dirlo? Si rispetta l’avversario che sta in guardia e non va a pezzi alla prima finta e si disprezza quello che perde continuamente terreno. Il nostro cristiano «amico di tutti» pronto sempre a togliersi il cappello e che vorrebbe inchinarsi a tutti i lati contemporaneamente, si sente circondato, senza capire perché, da una indifferenza glaciale. Quello che tutte le sue dichiarazioni di umile devozione e rispettosa ammirazione possono ottenere è una condiscendenza sdegnosa. Che lo capisca o no, non può non rendersene conto. E di lì il suo complesso di inferiorità e questa furia di masochismo morale cui lo porta la sua reale depressione spirituale.
I cristiani apostolici invece, si sentivano invincibili perché erano sicuri di avere scoperto la salvezza del mondo, o più esattamente di essere stati loro stessi trovati dal Salvatore del mondo. Salvezza alla quale, da parte loro, lavorano con timore e tremore, non credendo di potersela assicurare se non comunicandola; che non consideravano un possesso che si possa serbare come i «valori» di civiltà di cui altri si fregiano. Era proprio questo a premunirli da ogni oscuro timore di perdere la salvezza quando mancava l’approvazione dei loro simili ai loro titoli di possesso. Sapevano bene che questi titoli non si manifestano che alla fede, e la loro fede non aveva bisogno di un approbatur del mondo: la loro fede era la loro vittoria sul mondo. La loro fede era questa vittoria perché attestava loro che vi era con loro, in loro, Uno più grande del mondo. Ed era proprio questo a renderli indenni, nella loro testimonianza, da ogni falsa modestia e da ogni rispetto umano. Come tutti gli umili non erano afflitti dallo scrupolo agghiacciante di potere essere creduti orgogliosi. Sapevano troppo bene che erano stati loro stessi strappati alla potenza delle tenebre e trasportati nel regno della luce per avere alcuna falsa modestia nel dare gloria coraggiosamente davanti ai fratelli. Come dunque, avrebbero potuto avere paura di dire loro che, rifiutando la fede, non sapevano quello che perdevano e che si sarebbero loro stessi perduti? Questa sicurezza, questa franchezza così vincente e senza vanteria, questa parressìa degli apostoli, è evidente, era legata strettamente alla loro convinzione di un intervento divino nella loro storia e nella storia del mondo.
Non ignoravano affatto, prendiamone nota, che niente più di essa, poteva far uscire dai gangheri i Greci ai quali portavano il Vangelo. «Ti ascolteremo su questo punto un’altra volta», dicono gli Ateniesi a Paolo, quando comincia a parlar loro di Gesù risuscitato, con quella gentilezza sarcastica della gente bene educata cui si stanno attaccando frontalmente i principi. Ma non per questo la loro fede cambiava di direzione. Neanche dubitavano che quello che credevano fosse il Vangelo, era quello o niente. Tanto peggio se scandalizzava, se faceva ribellare. Tutti i primi apostoli ne avevano fatto ampia esperienza. San Paolo non aveva forse sentito la voce celeste dirgli: «Saulo, duro è per te recalcitrare contro il pungolo.»? Ma che potevano farci? Erano troppo sicuri che lo sconvolgimento delle loro idee precostituite era stata la conditio sine qua non della loro salvezza, per essere tentati dalla falsa carità di risparmiarlo ai fratelli.
Che cosa dunque aveva sostituito quelle loro idee? Eccolo: il Figlio di Dio era venuto nel mondo per salvare il mondo ed il mondo lo aveva crocifisso, ma Dio lo aveva risuscitato. Ed essi, battezzati in Cristo, si erano rivestiti di Cristo. E quello che era accaduto in lui si sarebbe riprodotto in loro. Come lui, poiché era con loro, in loro, andavano davanti al mondo per portare agli uomini la parola della Salvezza, della riconciliazione, il Vangelo dell’agape. Come lui, lo sapevano, non potevano attendersi dal mondo che
In una parola, essi aspettavano la vittoria della Parusia, e, per mezzo della sola fede, la vedevano già presente nella inimicizia del mondo, perché avevano con loro il Crocifisso risorto.
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Ecco dunque una seconda differenza tra il nostro cristianesimo pratico (qualunque siano gli articoli del Credo ai quali sappiamo fin troppo bene evitare di pensare, o che fin troppo bene sappiamo glossare) e il cristianesimo primitivo. Dopo l’irriducibile dualità del futuro prevedibile del mondo in cui risuona il Vangelo, la trascendenza assoluta del solo intervento capace di superarla.
I cristiani moderni più perspicaci sono a volte costretti ad ammettere la concretezza del conflitto, nei fatti e nella Scrittura. Esso, in alcuni casi, è fin troppo evidente. Ma vorrebbero rassicurarsi con l’idea che sia soltanto una fase che deve essere superata. L’idea di un malinteso passeggero tra il mondo e il Vangelo è per loro così preziosa che sono presi dal panico al pensiero di perderla. D’accordo, dicono, il malinteso è più grave di quanto pensassimo. Ma se peniamo abbastanza, se pazientiamo ancora un po’ nel nostro sforzo, arriveremo certamente ad uscire dal tunnel.
Torniamo a dire, è certamente una convinzione del Nuovo Testamento che il combattimento ed il conflitto non dureranno sempre, ed effettivamente ci sembrerà, dopo, sia stato come un fulmine. Ma è una convinzione non meno fondamentale che la soluzione non ci appartiene affatto, quale che sia la nostra buona volontà, la pace di Cristo non è, e non sarà mai, di questo mondo.
Indubbiamente a questo si risponderà: riconosciamo certamente che il mondo non può risolvere questo conflitto se Dio non interviene, ma Dio è intervenuto, non dobbiamo attendere più il Salvatore. E’ già venuto. Quello che ci resta da fare, il compito che ci ha assegnato, è di cavare, dal tesoro inestinguibile che ci ha dischiuso, tutte le potenzialità; è questo il talento che ci ha lasciato per sfruttarlo. In Gesù Cristo abbiamo tutto quello che ci mancava, «serviamoci di Gesù Cristo» (per riprendere il titolo di un libro che ha avuto recentemente un certo successo) e verremo a capo dell’opposizione del mondo. Ed eccoci che torniamo alle parabole del seme e del lievito. Non vogliono forse dire che il Salvatore ha affidato alla Chiesa tutta la sua opera? Adesso tocca a lei, cioè a noi, farne fruttificare tutti i semi. Abbiamo appena cominciato a farlo. Che cosa sono due millenni di fronte alle ere geologiche? Tanto più di fronte all’eternità verso la quale andiamo! Chi può anche solo immaginare di che potenzialità inaudita si riveleranno capaci il seme del Vangelo, il lievito cristiano! Abbiamo creduto troppo affrettatamente che la civiltà sacrale del Medioevo avesse sfruttato completamente la loro segreta ricchezza. L’umanità in cui erano stati sepolti, come nella pasta o nella terra, non era ancora pronta a riceverli. Questo primo fiorire della civiltà cristiana era il seme gettato al bordo del sentiero che spunta subito e da solo ma che non ha radici.
L’umanità del Medioevo era rimasta nell’infanzia. La nostra umanità moderna sembra raggiungere finalmente l’età adulta. Quando, superata la crisi di crescita e di pubertà in cui la vediamo, avrà raggiunto l’età adulta, allora, se siamo stati per parte nostra fedeli, vedremo il seme del Vangelo produrre il cento per uno. Apparirà una nuova cristianità, laica, autonoma, pienamente cosciente di sé nella pienezza della propria libertà, i cui frutti supereranno le promesse dei fiori medievali. Il «Millennium» promesso dall’Apocalisse, che cosa è se non questo? Lavoriamo, dunque, confidando in Cristo, ma anche nel mondo; il lavoro è appena cominciato. Non scoraggiamoci alle prime difficoltà e faremo regnare il Cristo sul mondo.
Di nuovo, tutto questo è buono e bello. C’è solo da temere che questo sussulto di speranza che indietreggia un pochino rispetto a quella che ieri trascinava e che oggi è stata smentita, non faccia altro che preparare una ricaduta nella disperazione che potrebbe facilmente, stavolta, essere definitiva. Perché, in questo caso, il tempo non cambia niente. Quello che Cristo, quello che gli apostoli ci hanno descritto come l’avvenire del cristianesimo, e che ora non ripetiamo in dettaglio, non è una fase, è il tutto. Ripetiamo, l’insieme dei testi evangelici e neotestamentari ignora un coronamento felice della storia, prima o dopo la venuta del Salvatore, che possa compiersi nella storia stessa. La prima venuta altro non fa che scatenare un conflitto latente e spingerlo a fondo. L’idea che, traendone tutto il profitto possibile, essa sarebbe sufficiente a risolverlo non affiora da nessuna parte. Pretendere che sia così torna ad essere un volere conciliare quello che il Nuovo Testamento, con unanime concordia, dichiara inconciliabile.
E le parabole del seme e del lievito? Sfortunatamente queste parabole comportano le conseguenze cui teniamo solo quando le strappiamo dal loro contesto per leggerle nel nostro. Esse non potrebbero avere un significato contrario a quello che la parabola della zizzania afferma in modo così esplicito. Esse promettono la diffusione generale del Vangelo. Esse assicurano che l’umanità dovrà essere alla fine coinvolta. Ma non promettono in nessun modo la sua universale conversione, la sua integrale cristianizzazione. Che essa cambi in bene o in male, niente resterà come prima. Queste parabole non racchiudono niente che ci possa permettere di pensare che l’umanità intera, alla lunga, debba accettare il dono del Vangelo. E le parabole vicine ad esse, di nuovo, affermano categoricamente il contrario.
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Di fronte a tutto questo, è una verità incontestabile che i cristiani del tempo apostolico abbiano atteso il ritorno di Cristo in un senso tanto reale, tanto poco metaforico, quanto la sua prima venuta. «Uomini di Galilea, dicono gli angeli agli apostoli nel libro degli Atti, questo Gesù che avete visto salire al cielo ridiscenderà nella stessa maniera in cui lo avete visto salire[26].» E che sia di questo ritorno, e solo di questo ritorno che essi abbiano atteso l’esito, il trionfo, in una parola, il giudizio, è una seconda verità non meno clamorosa della prima, inseparabile da essa: «La nostra cittadinanza, dice san Paolo ai Filippesi[27], è nei cieli, da dove attendiamo come salvatore il nostro Signore Gesù Cristo, che trasformerà il corpo della nostra bassezza per renderlo conforme al corpo della sua gloria, secondo il potere che ha di dominare ed assoggettare ogni cosa.»
L’idea che Dio non intervenga che con dei colpetti d’avvio iniziali di cui starebbe a noi e al mondo di tirare le conseguenze, questa idea bastarda non è altro che un compromesso che zoppica con entrambi i piedi tra il monismo moderno e il teismo cristiano. Dobbiamo, sì, trarre le conseguenze di quello che Dio ha fatto per noi, ma noi rimaniamo i suoi servitori e lui il Maestro. La storia rimane in mano a Cristo e non passa nelle nostre.
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Perché dunque ci costa tanto accettare questi concetti tradizionali? Da dove viene questa tendenza incorreggibile che ci riporta sempre a pensare che arriveremo, prolungando quanto basta la nostra storia, a ciò che Dio stesso non può fare se non ponendovi fine con un suo atto sovrano, sottraendoci ad essa? Dal fatto che non prendiamo sul serio la libertà che il Creatore ha dato alla creatura. Le due cose sono strettamente connesse: la convinzione ostinata di portare a compimento un compito divino - il rifiuto testardo del fatto che l’uomo può definitivamente rifiutare la salvezza. E’ perché non crediamo all’immensità del dono che Dio ha fatto all’uomo che ci lusinghiamo, invano, di potere ottenere dall’uomo quello che Dio solo ha il potere di fare, anzi molto di più. Dico molto di più perché Dio non ci ha mai promesso di ottenere, lui, una conversione totale dell’universo. Ci ha promesso soltanto che, nell’inestricabile groviglio di volontà sottomesse e ribelli in cui il Vangelo farà indurire un mondo fino allora ondeggiante tra il bene e il male, interverrà, nella sua ora, per fare la cernita che solo a lui è possibile.
Ci sembra, a primo acchito, che i cristiani dell’antichità, avessero, rispetto a noi, uno spirito ristretto e ottuso. Credevano nel piccolo numero degli eletti. Noi abbiamo ancora l’inferno solo per metterci in regola con dei testi troppo espliciti ma, in privato, assicuriamo alla gente che nessuno rischia di andarci. In breve, i nostri antenati credevano solo in un Dio Padre, il cui amore implicava ancora delle esigenze. Noi, invece, crediamo in un Dio Nonno il cui amore non sa rifiutare niente perché non sa esigere niente.
Ma questo confronto, che crediamo per noi lusinghiero, è solo un inganno dell’occhio. Il nostro ottimismo è tutto di facciata. La verità è che noi crediamo così poco in un Dio Creatore che non crediamo più alla creatura quanto ci credono i nostri avversari. Se c’e un punto per cui potremmo, senza cedere ad alcuna vertigine di umiltà, riconoscere che essi hanno ragione nel loro disprezzo, è proprio questo. Peccato che sia il solo punto di cui non ci rendiamo conto! Ed è perché non crediamo alla tremenda grandezza della creazione che non riusciamo più a credere alla grandezza della caduta. Non è per vero ottimismo che ci rifiutiamo di vedere nel Male altro che una ‘bua’ epidermica sul volto del mondo. E’ per pura meschinità. Gli uomini hanno un bel riempirci le orecchie del loro odio per Dio. Noi rispondiamo con un sorriso da sordi e continuiamo a ripetere, in barba all’esperienza che avrebbe dovuto insegnarci qualcosa: «Ma no! Suvvia, siete dei bambini buoni! Sono sicuro che non pensate quello che dite!» Una reazione simile tradisce una paura da vecchi aggrappati alle loro illusioni. E’ la reazione tipica dell’impotente che, ostinatamente, non sentendosi capace di vincere la lotta, sogna la realtà secondo i suoi gusti.
Anche l’idefettibile fiducia che sembriamo avere nella storia umana è solo un miraggio. A dire il vero, la storia, così come la concepiamo (i marxisti ce lo rinfacciano a piena ragione), non ha contenuto reale. Non determina niente. I giochi sono già fatti sin dall’inizio non resta che vederli compiersi. Gli uomini possono fare quello che vogliono, tutti si ritroveranno in paradiso, i testoni assieme agli altri! Forse ci vorrà del tempo, ma tutti, prima o dopo, finiranno con l’essere d’accordo con noi, dato che, come dite voi, sono tutti dei malintesi!... una simile visione delle cose fa poco onore al Creatore e alla creatura. Non riduce forse le libertà create a false apparenze?
Il Nuovo Testamento, invece, conferisce una grandezza quasi sacra al tempo e all’esistenza, perché nel tempo limitato che gli è dato, ciascun uomo e tutta l’umanità fanno la loro eternità. La fanno sul serio, non c’è spazio per nessun colpo di pollice divino. Dio non ha congegnato le cose in modo che, mentre sembriamo essere liberi, finiamo un giorno o l’altro, per una dolce fatalità, con l’arrenderci all’idea del suo secondo fine. No, non ci impone che il decidere ma il contenuto della decisione spetta solo a noi. Ci si inganna a non prenderne atto.
Ed è così vero che non c’è modo, anche dopo l’incarnazione, di ottenere una decisione globale, in un senso o nell’altro, da quel matassa di volontà create che è il mondo. Quello che l’incarnazione può ottenere, quello che è la salvezza del mondo, è la possibilità per le volontà mal orientate di svincolarsi e ripartire da capo. Ma questa possibilità offerta a tutti non è imposta a nessuno. Fino a quando ci si chiude nella storia non c’è modo, neanche per Dio, di costruire la città celeste che promette ai suoi, né di erigere il tempio di pietre vive in cui si compiace di abitare. Né l’uno né l’altro possono liberarsi della storia se non fuggendo dalla storia. Perché la storia è fatta dalle nostre decisioni libere e al tempo stesso confuse. E se la volontà creatrice rifiuta di imporre loro alcunché, in nome di quale diritto sovrano qualunque volontà creata, individuale o collettiva che sia, immagina di potere aggregare gli altri?
La storia, dunque, è una maturazione molto concreta ed autonoma. Ma questa maturazione tende al dualismo e non verso l’unità. L’incarnazione non ha il fine impossibile di polarizzare tutta la storia nel Bene, ma di rendere possibile che non si polarizzi tutta nel Male. Non ha affatto soppresso la libertà della creatura ma l’ha restaurata.
L’incarnazione, troppo spesso ce ne dimentichiamo, nei sinottici, in san Paolo ed in san Giovanni, presuppone sempre la stessa premessa: il mondo ha perduto la libertà e si tratta di ridargliela. Il mondo, creato libero da Dio è caduto nella schiavitù (in questo momento non ci importa come, ci interessa solo il fatto che sia così). Il male, o più esattamente il Maligno, è Principe di questo mondo e cioè un tiranno che lo vota, in blocco, al peccato e alla morte. E’ per spezzare questa fatalità che il Verbo si è fatto carne, il Figlio ha preso la condizione di schiavo, non per sostituire una cattiva tirannia con una «buona», ma per sopprimere la tirannia.
Quando si capisce questo, non ci si stupisce più, non ci si rattrista più che l’effetto dell’incarnazione sia creare, nello svilupparsi della storia, un dualismo sempre più marcato perché era proprio questo lo scopo che si prefiggeva. L’intervento divino operato duemila anni fa in Galilea e, da allora nella Chiesa, altro non fa che estendere al mondo intero il suo effetto, non ha mai voluto forzare il mondo all’unità. Ha voluto fare esattamente il contrario: rendere il mondo capace di sfuggire al collare di ferro demoniaco che lo costringeva ad una coalescenza forzata e mortale.
Sia ben inteso, questa opera di divisione che il Verbo, come spada a due tagli ha iniziato a compiere, è soltanto preparatoria. Come la morte sulla croce è il preludio necessario per la resurrezione, questa divisione è il preludio di una riunione e di una riconciliazione insperabili. Ma questa riunione è essenzialmente una opera di libertà, perché questa riconciliazione è una opera di amore, e l’amore schiavo è un nonsenso.
Da questo scaturisce che la storia umana, dopo l’incarnazione, diventa, da un canto la storia del libero raccogliersi insieme di coloro che si aprono alla possibilità creatrice dell’amore, dall’altro la storia del riunirsi non meno libero (una libertà maledetta questa) di coloro che la rifiutano. Peraltro, solo la fede riesce a cogliere la realtà invisibile del primo raccogliersi, sotto la realtà fin troppo visibile del secondo. Ed in effetti l’intervento divino è tanto lontano dal fare violenza al mondo che si è lasciato deliberatamente violentare da esso. Ripetiamo, l’incarnazione e la croce sono la stessa cosa. Se non fosse così, in che modo l’incarnazione sarebbe stata salutare? Come avrebbe Dio salvato la nostra libertà se si fosse scontrato con essa da Padrone anziché cedere ad essa da vittima?
Ma allora, è chiaro, il più grande errore che possiamo ormai commettere è di confondere il piano della fede e quello della percezione. Ed ancora, quale pericolo più mortale per il cristianesimo di trascurare o minimizzare il fossato che si approfondisce ogni giorno di più a causa delle libertà restituite a se stesse! Il colmo della confusione sarebbe confondere «
E rimarremo a questo punto? Impossibile. Come Dio non può violentare e distruggere le libertà che ha voluto, non può abbandonare per sempre all’inimicizia del mondo quelle che sono ritornate al suo amore. Egli non prolunga la loro commistione, non lascia
Capiamoci bene. Non vogliamo dire che Dio dovrà solo raccogliere, come un frutto maturo che da solo ti cade in mano, quello che noi avremo, noi, preparato. L’eternità non è assolutamente un frutto di cui il presente sarebbe il fiore. Crederlo sarebbe, ancora una volta, misconoscere il dualismo della maturazione che oggi si opera. L’immagine di cui si serve
E come potrebbe essere diversamente se le cose stanno come le abbiamo descritte? Se nulla può impedire che la tensione tra le libertà ribelli del mondo e le libertà riconquistate dall’agape divina e crocifissa, giunga al parossismo, che altra soluzione può esserci se non la loro separazione? Se Dio non vuole né distruggere né forzare le prime (che sarebbe in definitiva la stessa cosa) né abbandonare le seconde ad una coabitazione contro natura, non c’è altra via d’uscita.
E’ inoltre necessario accettare tutto ciò che questo fatto implica. Dio, neanche allora, forzerà alcuno, semplicemente sottrarrà i figli del suo amore all’inimicizia dei figli della perdizione. Gli uni e gli altri non avranno altro che l’oggetto della loro libera scelta: la luce, quelli che vogliono la luce, le tenebre, quelli che vogliono le tenebre. Consumata la separazione, ci sarà la rottura dell’universo, il lacerarsi del corpo vecchio dell’umanità, il corpo che abbiamo tutti ereditato dai nostri progenitori e che non sappiamo neanche noi fino a che punto ci unisce, essendo questa unione diventata del tutto esteriore. Ciò che solo Dio aveva potuto creare in una tale unità, lui solo può scioglierla senza distruggerla per sempre. Il Verbo creatore, lui solo, come solo lui poteva farsi redentore, lui solo farà il Giudizio. E se da questo Giudizio deve scaturire una nuova creazione, non potrà accadere senza affondare nel caos la vecchia: è nel fuoco che il mondo sarà giudicato.
Il come questo avverrà, è superfluo dirlo, noi non possiamo assolutamente immaginarlo. Le immagini che abbiamo appena ricordate sono, è fin troppo evidente, inadeguate. È certo che l’Evento,
E’ proprio per questo sta in lì tutta
III
Per quanto salubre sia l’atmosfera di queste verità troppo dimenticate dai cristiani moderni, essi ne hanno tanto perduto l’abitudine da soffocare un poco respirando un simile ossigeno. Bisogna dunque perdonarli se, per cominciare, vi si perdono: non ritrovano molto di quello cui si erano abituati.
E’ chiarissimo che questo li obbliga a sradicare tutte le loro speranze e tutti i loro amori. Non passano venti secoli, figuriamoci, senza prendere delle abitudini e quindi senza accomodarsi. Se ci costa tanto accettare l’idea che i nostri nemici siano davvero nemici, non sarà proprio perché questo disturba una istallazione che era tanto comoda? Abbiamo cominciato questo studio criticando i cristiani moderni che battono la loro colpa sul petto dei loro padri. Non bisogna sostituire una esagerazione con quella opposta. E’ fin troppo certo che un buon numero di riflessi aberranti del cristiano del XX secolo scaturiscono dalla incresciosa educazione ricevuta dal cristiano costantiniano o medievale, che, per quanto non sembri, non è ancora del tutto morto. Non si terrebbe tanto a «convertire il mondo» se, malgrado l’apostolo, non si fosse cominciato ad «amare il mondo e ciò che vi è in esso».
Ma è proprio lì che le affermazioni del Nuovo Testamento sono più luminose e categoriche. «non abbiamo quaggiù una città stabile». Attendiamo quella che scende dal cielo» «quella le cui fondamenta sono eterne», cioè «quella che scende dal cielo [29]». Ed infatti
Bisogna dunque lasciare tutto? Staccare il cuore da tutto quello che di più naturale ci sia caro? Non si può negare che occorre proprio questo. La fede è proprio questo, o non è assolutamente niente. Abramo sente una voce che gli dice: «Vai! Lascia il tuo paese, la tua famiglia, la casa di tuo padre e va nel paese che io ti mostrerò [31]…» E parte senza discutere. E’ in questo il Padre dei credenti. E’ molto seccante ma non potrebbe essere più chiaro di così.
Noi, invece, siamo giunti a convincerci che la grazia ci è donata solo per perfezionare la nostra natura. Il Vangelo? Un buon consiglio di Dio per costruire la città terrestre. Il Cristo? La pietra angolare… ma di questa città! Se a tutto questo è promesso il fuoco del giudizio, perché mettere in piedi tutto questo? Ma, giustamente: è possibile che tutto il nostro lavoro sia vano, che niente sussisterà nella vita eterna? E’ possibile che abbiano ragione i marxisti quando ci rimproverano che ci disinteressiamo all’opera umana, che gettiamo su di essa il discredito per camuffare da speranza la nostra inazione?
A queste domande pressanti, bisogna innanzi tutto vedere che non si può rispondere né sì né no. In un senso molto profondo e reale, il nostro lavoro quaggiù non è vano. Pensiamo a quello che abbiamo detto della grandezza tragica della storia. Tutto quello che facciamo nella grazia di Cristo contribuisce all’edificazione del corpo di Cristo. L’apostolo che soffre e pena, attraverso i suoi sforzi e i suoi smacchi, costruisce realmente il Tempio di Dio. Ma questo è quello che si crede, non è quello che si vede.
C’è anche il perché, in un senso ancora più profondo,
«Perché quello che semini non è vivificato se prima non muore. E quello che tu semini non è il corpo che sorgerà, è un grano nudo, sia esso frumento o qualunque altra semente. Ed è Dio che dona un corpo, come egli vuole, a ciascun seme il proprio corpo [32]».
Ecco, in definitiva, quello che dobbiamo re-imparare. Abbiamo gustato troppo i mistici senza ascesi. Abbiamo opposto, nei nostri cuori, l’incarnazione alla croce. L’incarnazione non consacra forse la carne? Sicuro, ma è attraverso il sacrificio che la consacra. Tantomeno è vano quello che Cristo ha fatto quaggiù… Ma tutto ha valore solo attraverso
La nostra opera, anche la nostra opera terrena, è dunque pienamente suscettibile di un valore eterno. Ma questo valore non può essere annesso alla sua materia carnale. «La carne non serve a nulla. E’ lo Spirito che vivifica…». Solo lo Spirito, lo Spirito di Cristo, lo Spirito di Dio attraverserà senza alterazioni il fuoco del giudizio. La carne certamente risusciterà, ma non si resuscita senza subire una profonda ristrutturazione. «Quello che dico, fratelli, è che la carne e il sangue non possono ereditare il Regno di Dio, né la corruzione l’incorruttibilità [34]» Del «mondo che viene» Dio è il solo creatore così come lo è stato di «questo mondo», Dio resta in definitiva il solo creatore. E la nuova creazione è la morte della vecchia. «Colui che era assiso sul trono disse: Ecco faccio nuove tutte le cose! [35]»
***
Se le nostre affermazioni racchiudono qualche verità, l’accomodarsi al mondo, l’istallazione nel mondo sono, né più né meno, un rinnegamento pratico della fede cristiana. E come riprende invece valore la virtù soprannaturale della speranza! Questa povera piccola speranza! Da molto tempo l’avevamo dimenticata. Tra le altre due virtù teologali l’avevamo quasi persa di vista. Ma non la si perde se non perdendo, assieme ad essa, le altre due. Le altre due non spariscono a loro volta. Accade di peggio, imputridiscono. La fede nell’uomo si traveste da fede in Dio e l’amore del mondo imita l’amore dei beni invisibili. E siccome le buone anime si potrebbero inquietare se si togliesse loro il Cristo e la sua croce, si mette al suo posto Prometeo e il suo avvoltoio.
Non che il cristiano costantiniano ed il suo degno erede nel XX secolo non avessero anche loro la speranza, ma essa è l'esatto contrario della speranza del cristiano e basta. Come il dottor Faust calcolano tutto il tempo che loro resta in questo mondo. Il cristiano apostolico, questo bambino, credeva che Cristo sarebbe tornato da un momento all’altro! Il cristiano che ha fatto pace con il mondo, se ne sta ben tranquillo. Già sant’Ippolito, che abbiamo richiamato all’inizio, aveva a disposizione delle sue pecorelle delle indicazioni sicure. Il mondo, diceva, in base ai miei calcoli, finirà non prima dell’anno 500. I fratelli «possono dunque stare in pace e dedicarsi senza problemi a tutte le loro occupazioni quotidiane: non corrono nessun rischio di essere testimoni della parusia [36]». Noi siamo diventati più avidi e ci serve un margine di sicurezza più confortevole. I nostri teologi moderni lo hanno fornito. Il Figlio dell’Uomo diceva di non sapere né il giorno né l’ora. Loro ci garantiscono che il mondo ha davanti a sé un numero sufficiente di anni luce. In più, scartato accuratamente dalle loro esegesi ogni imbarazzante carattere subitaneo dell’arrivo al punto di impatto, lo choc viene ridotto al minimo. In una bella serata il modo fiorirà nella primavera eterna, preparata longa manu dall’evoluzione della noosfera. Passeremo a Dio senza quasi accorgerci. Con accanto tutti i nostri cari tesori, accarezzando con gli occhi le ricchezze troppo numerose per poterle abbracciare tutte nei nostri cuori, ci addormenteremo con il cloroformio inodore profuso dallo Spirito della terra. E ci risveglieremo al mattino, integralmente ‘pianetizzati’…
Ma chi, quindi, diceva che la venuta del Figlio dell'Uomo sarebbe stata con il lampo che improvvisamente riluce da un orizzonte all’altro? Che ci spieghino i segni nel cielo e sulla terra che danno ogni tranquillità a questo proposito.
Il suo giorno non verrà dunque come un ladro? Non sarà esattamente come quando i servitori riprenderanno il loro posto a tavola dicendo «il padrone non ha nessuna fretta di venire»? Niente paura: non solo troverà la fede sulla terra, in barba ai suoi chimerici timori, ma non tornerà prima che una fede universale abbia reso la sua venuta irresistibile. E’ evidente che questo non può essere domani…
Sì, ma bisogna scegliere. Si deve ben finire qui: o Dio o Mammona. Entrambi, no. O una religione capitalizzatrice, che non vuole abbandonare niente, non perdere niente della nostra cara madre, la creta natale, per andare al Padre dei cieli. O lo Spirito che soffia dove vuole, di cui non si sa né da dove viene né dove va.
O figlio della terra, così preso dal suo progresso da non accettare altra estasi che quella di Faust: «Fermati! Sei così bello!...» O figlio del Regno che si è tanto spogliato di tutto che sta già al confine del tempo, come se non esistesse più il domani, e che grida «Vieni, Signore Gesù, vieni presto… che questo mondo passi e io vada al Padre!». Egli crede ancora che il Giorno di Yahveh, il Giorno del Figlio dell'Uomo sia sempre imminente. Crede che, se anche agli occhi del mondo tarda, ci sconcerterà tutti con il suo arrivo improvviso. No, non tutti: il «piccolo gregge» maltrattato, disprezzato, dimenticato dal mondo, sarà pronto. Vive già di quel giorno, non vive che di esso. Ha lasciato tutto quello di cui il Brave New World[37] non oserà mai abbandonare, salvo perire con esso. E nella sua povertà, nella sua nudità di cui si fa gioco «l’universo concentrazionista», lo credereste?, eccolo che canta. Un canto strano e dolce, un canto che parla di morte, ma non di debolezza… perché questo canto, questo Alleluia della Chiesa pellegrina che anticipa la morte per incontrare prima possibile l’Antico di giorni, vi assicuro, non ha niente da invidiare quanto a gioia virile e fede trionfante, all’«Orginet-Porginet[38]» di un pianeta che crepi di euforia per estasiarsi verso il punto Omega!
[1] N.D.R.: Trad. It. di L. Bouyer, “Christianisme et Eschatologie”,
[2] Pag 18 del volume XIV della collezione Sources Chrétiennes (Parigi, Ed. du Cerf, 1947)
[3] C’è stato un tempo in cui non si poteva sfogliare una pubblicazione cattolica senza trovarvi una o tante dissertazioni sul tema delle ‘verità divenute folli’ cf Chesterton
[4] N.D.R.: 2Th 2,6-7
[5] 1 Gv 2,18
[6] Ap 16
[7] Gv 15, 18-19
[8] Gv 16, 28
[9] Gv 3, 16
[10] Gv 3, 17
[11] Gv 3, 18-19
[12] Gv 17, 9
[13] 1Gv 2, 15; 5, 19
[14] Mt 10, 34-36
[15] 1Cor 6,20
[16] 2Cor 4, 10
[17] Ben per questo, quando i nostri moderni, leggendo nei Padri che il mondo è salvato attraverso l’incarnazione, subito si rallegrano di avere trovato una redenzione senza lacrime, si sbagliano di grosso. Quando, ad esempio, Atanasio ci dice che Dio divinizza l’uomo assumendone l’umanità non intende assolutamente scartare o cancellare la croce. Ci vuole invece dire che, avendo il Dio della vita assunto la nostra mortalità, la morte non ci può più atterrire perché ci promette essa stessa la gioia della resurrezione. Ma nessuna resurrezione che non comporti prima una morte. E, nella misura in cui l’incarnazione semina la vita nel mondo, essa lo spinge alla morte, perché la vita che porta con sé, è la vita al di là della morte.
[18] Mt 7, 13s
[19] Mc 9, 40
[20] Mt 12, 30
[21] Mt 11, 19 cf. Lc 7, 35
[22] Ap 12,12
[23] Ap 7, 3
[24] Cf tutto l’inizio di Ap 20
[25] Mt 24
[26] At. 1, 11
[27] Fil 3, 20s
[28] Ap 6, 10
[29] Eb 11, 10; 13, 14; Ap 21, 2
[30] Gal 4, 26; Eb 11, 13
[31] Gen 12, 1
[32] 1 Cor 15, 36ss
[33] Col 3, 3
[34] 1 Cor 15, 50
[35] Ap 21, 5
[36] Sic M. Bardy, pg 17 op. cit.
[37] N.D.R.: Nuovo Mondo, Aldous Huxley 1932.
[38] N.D.R.: Ibid.