Gigi Proietti ha trasformato San Filippo Neri in un don Mazzi
di Rino Cammilleri
Due intere puntate appena andate in onda su Rai Uno (Preferisco il paradiso con Gigi Proietti), per mostrarci una specie di don Mazzi (con tutto il rispetto) del XVI secolo. La stessa cosa fecero con la fiction su don Bosco, ridotto, anche lui, a un pretino politicamente corretto. Invece, come don Bosco, s. Filippo Neri era un gigante, e sarebbe bastato raccontarne la vita per fare spettacolo.
Basti solo dire che quando il re di Francia, Enrico IV di Navarra, si fece cattolico da ugonotto che era, il papa Clemente VIII non credeva alla sincerità di questa conversione; ebbene, quel re mandò il duca di Nevers a Roma proprio da Filippo Neri perché intercedesse. Il confessore del papa era il cardinale Cesare Baronio, cresciuto nell’Oratorio. E il santo gli vietò di assolvere il papa finché non avesse ceduto. Filippo Neri era infatti consigliere di Clemente, come lo era stato di Pio IV e di Gregorio XIV. Nonché direttore spirituale di s. Carlo Borromeo e di suo nipote Federico, di fior di nobili e cardinali e perfino del grande musicista Palestrina. Già, perché l’Oratorio non era solo un espediente per recuperare ragazzini di strada ma un’invenzione geniale che, tra le altre cose, originò la composizione musicale chiamata, appunto, «oratorio», mix vocale-recitativo-strumentale che fece scuola. Di tutto questo non c’è traccia nella fiction con Gigi Proietti, né dell’amicizia stretta del Neri con altri giganti come s. Camillo de’ Lellis, s. Francesco di Sales, s. Ignazio di Loyola. Filippo Neri, toscanaccio fiorentino, nacque nel 1515 e morì nel 1595. Era figlio di uno che aveva ridotto la famiglia sul lastrico a furia di fare l’alchimista e cercare la pietra filosofale. Allegrissimo e stravagante, quando vide che la gente gli dava del «santo» cominciò a fare il matto: talvolta usciva con un cuscino legato in testa, altre con solo mezza barba rasata. Temeva l’adulazione ma era una specie di Padre Pio della Roma controriformistica. Non era che un pellegrino quando vi giunse, nel 1534. E solo nel 1551 si lasciò convincere a farsi prete. Da principio faceva il precettore in casa di un compaesano. Nella Pentecoste del 1544, mentre pregava nelle catacombe di San Sebastiano, un globo di fuoco gli penetrò nel petto spezzandogli due costole dalla parte del cuore. Da quel momento, non di rado doveva metterci sopra delle pezze bagnate perché il calore che ne emanava superava i 50 gradi. E lui se ne vergognava, così come lo imbarazzavano tutti i miracoli che faceva. Il suo Oratorio, frequentato da gente di ogni ceto (ma anche dalla crème romana) generò un ordine religioso, gli Oratoriani (dei quali il recentemente beatificato cardinale Newman faceva parte). Filippo Neri divenne un potenza in Roma e presso la corte pontificia, come abbiamo visto a proposito di Enrico IV (quello del «Parigi val bene una messa»).
Nella fiction televisiva (così come nel film a suo tempo interpretato da Johnny Dorelli) si vede solo un «prete di strada» qualsiasi, e non si capisce a) perché è santo, b) perché è tutt’oggi così famoso. Filippo Neri inventò anche il giro delle Sette Chiese (nel quale si strascinava dietro mezza città) e rappresentò uno dei pilastri della Controriforma in una Roma che ancora si leccava le ferite del Sacco lanzichenecco del 1527. Invece, abbiamo visto in tivù il solito «prete dei poveri» contrastato dal Bieco Potere della Curia romana, ottusa e oscurantista, come da vulgata politicamente corretta. È vero che, televisivamente, i santi «tirano» lo stesso; ma se i produttori si affidassero a soggettisti più all’altezza i loro soldi sarebbero meglio spesi. Sembra, infatti, che ogni volta si faccia di tutto per mediocrizzarli, i santi, e banalizzarli con ritrattini tediosi. Invece per uno spettacolo coi fiocchi basterebbe riportare i fatti nudi e crudi.
SAN FILIPPO NERI «State buoni se potete»
di Paolo Mattei
Certi angoli di Roma si leccavano ancora le ferite quando Filippo Neri vi giunse, intorno al 1533. Il Sacco dei Lanzichenecchi del 1527 aveva lasciato i segni: porzioni significative della città e molti dei suoi 50mila abitanti giacevano ancora storditi su strade semicoperte da una campagna che s’era presa la sua selvaggia rivincita sulla nuova urbanizzazione incominciata circa un secolo prima. Facevano da contrasto con questa desolazione i fasti della mondanità rinascimentale, e carri allegorici salutarono l’elezione al soglio pontificio del romano Paolo III Farnese, nell’ottobre 1534. Filippo, che aveva circa vent’anni, e negli occhi le dolci armonie di Firenze, sua città natale, fuggiva da un futuro di “mercatante” che il padre aveva disegnato per lui. Giungeva pellegrino a Roma, per essere libero di stare vicino alle memorie apostoliche e dei martiri, pure quelle semiabbandonate all’impeto di una natura inaddomesticata. Una volta arrivato, si stabilì a Sant’Eustachio, nei pressi del Pantheon, in casa di un concittadino, ai figlioli del quale «faceva dei latini», dava cioè ripetizioni di grammatica, per guadagnarsi il pane e l’alloggio. Per il resto della giornata «stavasene egli quanto poteva il più solitario, e senza compagnia d’altrui», fuori casa, «per le sue divozioni», scrive uno dei suoi primi biografi, l’oratoriano Antonio Gallonio. Filippo visitava le Sette Chiese e, specialmente di notte, le catacombe di San Callisto e di San Sebastiano, a quel tempo deserte e malsicure pure di giorno.
Naturalmente, la solitudine del giovane Filippo non era così radicale come certi aforismi biografici tendono a disegnarla: divenne infatti subito amico dei domenicani del convento e della chiesa di Santa Maria sopra Minerva, nel cui coro recitava il mattutino e la compieta; fu compagno dei gesuiti nel terribile inverno del 1538-39, e con loro girò per la città a raccogliere infermi e poveri vessati dalla fame. Alla fine degli anni Quaranta del secolo praticava il quartiere dei Banchi, poco lontano da Ponte Sant’Angelo, dove era diventato amico dei cassieri e dei ragazzi commessi nei fondachi, ai quali, con la sua bella allegria, spesso ripeteva: «Beh, fratelli, quando volemo cominciare a far bene?». E sempre in quel periodo andava a pregare nella chiesetta di San Salvatore in Campo, alla Regola, dove fondò, insieme ad altri, la Compagnia della Santissima Trinità, per l’assistenza ai pellegrini che si sarebbero riversati nell’Urbe nell’imminente anno giubilare del 1550. In quella Compagnia incontrò padre Persiano Rosa, cappellano della chiesa di San Girolamo della Carità, vicino a piazza Farnese, che divenne il suo confessore. E a San Girolamo incominciò a ritrovarsi abbastanza regolarmente con quei compagni - giovani apprendisti e impiegati nei banchi, ma anche gente semplice, figli di artigiani e bottegai, notai e miniatori - che gli si erano stretti attorno, contagiati dalla sua allegria cristiana. Era quella la «prima sementa dell’Oratorio», come la definì il Gallonio.
Filippo divenne prete il 23 maggio 1551. Gallonio racconta che da quel giorno iniziò a trovarsi «ad ogn’hora... al confessionario, scendendo ogni mattina all’alba nella chiesa, dove lungamente dimorando udiva con allegrezza quanti a lui venivano». A San Girolamo continuava con i suoi amici il dialogo semplicissimo, fatto, scrive Rita Delcroix (Filippo Neri, il santo dell’allegria, Roma 1989), di «domande e risposte sulla fede, sulla bellezza e la virtù e concluso con una spiegazione e un’esortazione, che Filippo compiva fraternamente, pianamente. Si usciva poi insieme per le strade di Roma...».
Filippo trascorreva tempo con i suoi ragazzi. Stava con loro. Qualcuno però si lamentava della “troppa allegrezza” dei suoi giovani. E lui tranquillamente diceva: «Lasciateli, miei cari, brontolare quanto vogliono. Voi seguitate il fatto vostro. State allegramente: non voglio scrupoli, né malinconie; mi basta che non facciate peccati». E quando doveva calmarli un po’ diceva loro: «State buoni... se potete».
Arrivava anche a mendicare per le strade e alle porte dei più sontuosi palazzi per testimoniare l’umiltà ai suoi amici. Un giorno, un signore, infastidito dalle sue richieste, gli diede uno schiaffo. Filippo non si scompose: «Questo è per me» disse sorridendogli «e ve ne ringrazio. Ora datemi qualcosa per i miei ragazzi».
Il 1564 fu l’anno in cui al riluttante “Pippo buono” venne “imposta” dal suo amico cardinale Carlo Borromeo la rettoria di San Giovanni dei Fiorentini, in via Giulia, quasi sulle sponde del Tevere. Là il santo destinò alcuni suoi seguaci diventati preti in quegli anni. Lui però se ne restò a San Girolamo.
Poi, il 15 luglio 1575, Gregorio XIII, con la bolla Copiosus in misericordia, concedeva al «diletto figlio Filippo Neri, prete fiorentino e preposito di alcuni preti e chierici», la chiesetta parrocchiale di Santa Maria in Vallicella, nel rione Parione, dedicata alla Natività di Maria, ed erigeva canonicamente «una Congregazione di preti e chierici secolari da chiamarsi dell’Oratorio».
In quello stesso 1575 si iniziò la ricostruzione della chiesetta. Filippo, che non voleva assolutamente spostarsi, lasciò San Girolamo per questa nuova dimora solo nel 1583. Louis Bouyer (La musica di Dio. San Filippo Neri, Milano 1980) racconta che «ci volle l’intervento personale del Papa per spingerlo a lasciare il suo vecchio San Girolamo e a trasferirsi con la Congregazione che lo proclamava suo unico superiore. Se si riuscì a forzargli la mano, egli si rifarà organizzando una splendida mascherata. I discepoli più fedeli dovettero attraversare la città sotto i lazzi di tutti, ciascuno trasportando con gran cura un pezzo della miserabile mobilia di Filippo».
Così era fatto “Pippo buono”, l’Apostolo di Roma, che visse a Santa Maria in Vallicella fino alla morte, avvenuta il 26 maggio 1595. Il suo corpo riposa ancora là.
Naturalmente, la solitudine del giovane Filippo non era così radicale come certi aforismi biografici tendono a disegnarla: divenne infatti subito amico dei domenicani del convento e della chiesa di Santa Maria sopra Minerva, nel cui coro recitava il mattutino e la compieta; fu compagno dei gesuiti nel terribile inverno del 1538-39, e con loro girò per la città a raccogliere infermi e poveri vessati dalla fame. Alla fine degli anni Quaranta del secolo praticava il quartiere dei Banchi, poco lontano da Ponte Sant’Angelo, dove era diventato amico dei cassieri e dei ragazzi commessi nei fondachi, ai quali, con la sua bella allegria, spesso ripeteva: «Beh, fratelli, quando volemo cominciare a far bene?». E sempre in quel periodo andava a pregare nella chiesetta di San Salvatore in Campo, alla Regola, dove fondò, insieme ad altri, la Compagnia della Santissima Trinità, per l’assistenza ai pellegrini che si sarebbero riversati nell’Urbe nell’imminente anno giubilare del 1550. In quella Compagnia incontrò padre Persiano Rosa, cappellano della chiesa di San Girolamo della Carità, vicino a piazza Farnese, che divenne il suo confessore. E a San Girolamo incominciò a ritrovarsi abbastanza regolarmente con quei compagni - giovani apprendisti e impiegati nei banchi, ma anche gente semplice, figli di artigiani e bottegai, notai e miniatori - che gli si erano stretti attorno, contagiati dalla sua allegria cristiana. Era quella la «prima sementa dell’Oratorio», come la definì il Gallonio.
Filippo divenne prete il 23 maggio 1551. Gallonio racconta che da quel giorno iniziò a trovarsi «ad ogn’hora... al confessionario, scendendo ogni mattina all’alba nella chiesa, dove lungamente dimorando udiva con allegrezza quanti a lui venivano». A San Girolamo continuava con i suoi amici il dialogo semplicissimo, fatto, scrive Rita Delcroix (Filippo Neri, il santo dell’allegria, Roma 1989), di «domande e risposte sulla fede, sulla bellezza e la virtù e concluso con una spiegazione e un’esortazione, che Filippo compiva fraternamente, pianamente. Si usciva poi insieme per le strade di Roma...».
Filippo trascorreva tempo con i suoi ragazzi. Stava con loro. Qualcuno però si lamentava della “troppa allegrezza” dei suoi giovani. E lui tranquillamente diceva: «Lasciateli, miei cari, brontolare quanto vogliono. Voi seguitate il fatto vostro. State allegramente: non voglio scrupoli, né malinconie; mi basta che non facciate peccati». E quando doveva calmarli un po’ diceva loro: «State buoni... se potete».
Arrivava anche a mendicare per le strade e alle porte dei più sontuosi palazzi per testimoniare l’umiltà ai suoi amici. Un giorno, un signore, infastidito dalle sue richieste, gli diede uno schiaffo. Filippo non si scompose: «Questo è per me» disse sorridendogli «e ve ne ringrazio. Ora datemi qualcosa per i miei ragazzi».
Il 1564 fu l’anno in cui al riluttante “Pippo buono” venne “imposta” dal suo amico cardinale Carlo Borromeo la rettoria di San Giovanni dei Fiorentini, in via Giulia, quasi sulle sponde del Tevere. Là il santo destinò alcuni suoi seguaci diventati preti in quegli anni. Lui però se ne restò a San Girolamo.
Poi, il 15 luglio 1575, Gregorio XIII, con la bolla Copiosus in misericordia, concedeva al «diletto figlio Filippo Neri, prete fiorentino e preposito di alcuni preti e chierici», la chiesetta parrocchiale di Santa Maria in Vallicella, nel rione Parione, dedicata alla Natività di Maria, ed erigeva canonicamente «una Congregazione di preti e chierici secolari da chiamarsi dell’Oratorio».
In quello stesso 1575 si iniziò la ricostruzione della chiesetta. Filippo, che non voleva assolutamente spostarsi, lasciò San Girolamo per questa nuova dimora solo nel 1583. Louis Bouyer (La musica di Dio. San Filippo Neri, Milano 1980) racconta che «ci volle l’intervento personale del Papa per spingerlo a lasciare il suo vecchio San Girolamo e a trasferirsi con la Congregazione che lo proclamava suo unico superiore. Se si riuscì a forzargli la mano, egli si rifarà organizzando una splendida mascherata. I discepoli più fedeli dovettero attraversare la città sotto i lazzi di tutti, ciascuno trasportando con gran cura un pezzo della miserabile mobilia di Filippo».
Così era fatto “Pippo buono”, l’Apostolo di Roma, che visse a Santa Maria in Vallicella fino alla morte, avvenuta il 26 maggio 1595. Il suo corpo riposa ancora là.
Testi di S.Filippo
Sull'amore a Cristo e a DioA questo fine diceva spesso che non si cercasse altro che Christo, dicendo spesso: Chi vuol altro che Christo non sa quel che vole, e chi vuole altro che Christo non sa quel che domanda. Diceva ancora: Vanitas vanitatum et omnia vanitas, se non Christo (ricordo n.45 del Maffa)
Di più diceva che era tanto utile e necessario questo staccamento dalle cose terrene per servire a Dio, che se havesse avuto diece persone veramente staccate e che non volessero altro che Christo, gli bastava l'animo di convertir tutto il mondo (ricordo n.49 del Maffa)
Se l'anima ha da Dio l'esser perfetto,
sendo, com'è, creata in un istante,
e con mezzo di cagion cotante
come vincer la dee mortal oggetto?
Là 've speme, desio, gaudio e dispetto
la fanno tanto da se stessa errante,
sì che non veggia, e l'ha pur sempre innante,
chi bear la potria sol con l'aspetto.
Come ponno le parti esser rubelle
ala parte miglior, né consentire?
e quella servir dee, comandar quella?
Qual prigion la ritien, ch'indi partire
non possa, e alfin col pie' calcar le stelle;
e viver sempre in Dio, e a sé morire?
Sull'equilibrio umano
Et per instruir meglio i suoi figlioli spirituali nello stato della discrezione, dicea che non bisognava fare ogni cosa in un giorno, et che non si diventa santo in quattro dì, ma a poco a poco, di grado in grado. (ricordo n.14 del Maffa)
Essortava ancora a fugire ogni sorta di singularità e voler mostrare di essere e fare di più degli altri, e per questo diceva spesso che non gli piacevano queste estasi o ratti in pubblico, come cosa pericolosissima, e che chi vole volare senza ale bisogna pigliarlo per i piedi e tirarlo in basso. (ricordo n.25 del Maffa) Come lei sa la poesia è faticosa alla testa e per conseguenza non può partorire sanità, generando humore malenconico et altri mali quali detto Padre dice havere cognosciuto in molti che hanno atteso a simile esercitio… (parole riportate da p.Fedeli, portavoce di S.Filippo Neri presso Giovenale Ancina, convalescente da una grave malattia)Io Filippo Neri sopraintendente affermo non solo quanto di sopra, ma è molto più bisognerà crescere nelle spese, accrescendo il popolo e la divotione (lettera nell'Archivio di S.Giovanni dei Fiorentini con cui Filippo chiede più soldi alla “nazione fiorentina”).E' proverbiale l' episodio nel quale una madre porta a S.Filippo Neri la figlia che afferma di vedere i santi e la Madonna; S.Filippo la guarda negli occhi ed esclama: “Che si sposi!”
Non giudico atto a questo offitio il p.Giovanni Francesco Bordini, quale, se bene ha di molte belle parti e virtù, che ne deve rendere gratie a Nostro Signore Iddio, l'ho trovato sempre duro et di proprio parere, monstratolo in particolare nel volere vencere di comprare le case delle monache contro mio volere et senza necessità; il che, oltra al havere comprato case vecchie et muraglie fracide…
(inoltre a S.Giovanni dei Fiorentini) si stava colle porte aperte, de sorte che la chiesa era impraticabile et a forestireri et a noi di casa, pel freddo grande et vento che entrava per tutto. Si che, non havendo imparato, tra l'altre virtù ch'ha, d'obedire et de credere troppo al suo parere et giudicio, non è atto a comandare né governare…
Né meno reputo atto a questo governo il p.Antonio Talpa, che anco egli è troppo affetionato alle sue opinioni, senza cedere all'altrui quantunche migliore siano: come mostrò per voler fare un disegno de cavar acqua, quando si incomenzò a fabricare, nel che nacque et spesa et inconvenienti in casa… (dalle Disposizioni del 1585, quando era stata da poco annessa l'Abbazia di S.Giovanni in Venere e si stava per aprire la filiale di Napoli)
Sul rapporto con i Papi
Il signor Cardinale si fermò poi sino a doi hore di notte, e disse tanto bene di vostra Santità, più di quello che mi pareva, essendo ella Papa, dovrebbe essere l'istessa humiltà. Christo, a sett'hore di notte, si venne a incorporare con me, e vostra Santità guarda che la venisse, pur una volta nella nostra chiesa. Christo è huomo et è Dio, e mi viene, ogni volta che io voglio, a visitare; e vostra Santità è huomo puro, nato d'un huomo santo e da bene; esso nato da Dio Padre. Vostra Santità nato dalla signora Agnesina, santissima donna; ma esso nato dalla Vergine delle Vergini. Harei che dire, se volessi secondare la collera che ho. (dalla lettera che Filippo malato scrisse negli ultimi anni al Papa Clemente VIII, rimproverandolo di non essere ancora venuto a trovarlo; il Papa, suo carissimo amico, mandò a rispondere, fra l'altro: “Del non essere venuta a vederla, dice che Vostra Reverentia non lo merita, poiché non ha voluto accettare il cardinalato, tante volte offertoli… Et quando Nostro Signore la viene a vedere, lo preghi per lui et per i bisogni urgenti della Christianità”)
Sull'amore ai fratelli
Per questo diceva spesso che il lasciare i suoi gusti per aiuto del prossimo, cioè spirituali, era atto di gran perfezione et era lasciar Christo per Christo (ricordo n.53 del Maffa)
Soleva dire alle persone che andavano a servir gli infermi degli hospedali o a far altra simil opera di charità che non bastava far il servitio semplicemente a quello infermo, ma che bisognava, per farlo con maggior charità, imaginarsi che quello infermo fosse Christo e tener per certo che quello che faceva a quell'infermo lo faceva all'istesso Christo e così si faceva con amore e maggior profitto dell'anima (ricordo n.40 del Maffa)
…diceva che per essere perfetto non basta a obedire et honorare i superiori, ma bisognava honorare gli uguali et inferiori (ricordo n.24 del Maffa)
Sulla graziaSignore, non aspettar da me se non male e peccati; Signore, non ti fidar di me, perché cadrò al certo, se non m'aiuti (ricordo n.42 del Maffa)Sull'umiltà
Diceva ancora che per arrivare alla perfettione della vita spirituale e per acquistare perfettamente il dono dell'humiltà sono necessarie quattro cose, cioè: spernere mundum, spernere nullum, spernere se ipsum, spernere se sperni (ricordo n.3 del Maffa)
Sulla gioia
Voleva ancora che le persone stesser alegre dicendo che non gli piaceva che stessero pensose e malinconiche, perché faceva danno allo spirito, e per questo sempre esso beato Padre, ancora nelle se gravissime infermità, era di viso gioviale et allegrissimo, et che era più facile a guidare per la via dello spirito le persone alegre che le malinconiche (ricordo n.33 del Maffa)
Non gli piacevano gli scrupoli, come cose che inquietano assai la conscientia, et per questo molte volte da chi gli voleva dire in confessione, non voleva sentirle (ricordo n.35 del Maffa)
Raccomandava a tutti la quiete della conscientia e per questo a un certo suo proposito disse una volta che quando la persona volesse fare qualche voto cercasse di farlo condizionato: se potrò, se mi si ricorderà, o in altro simil modo (ricordo n.34 del Maffa)
Diceva ancora che doppo le tentationi non bisognava starvi a discorrere se la persona haveva consentito o no, perché molte volte per simili pensieri solevano tornare le medesime tentazioni (ricordo n.91 del Maffa)
Amo, e non posso non amarvi, quandoresto cotanto vinto dal desio
che 'l mio nel vostro, e 'l vostro amor nel mio;
anzi ch'io 'n voi, voi 'n me ci andiam cangiando.
E tempo ben saria veder il quando
ch'alfin io esca d'esto carcer rio,
di così folle e così cieco oblio,
dov'io mi trovo, e di me stesso in bando.
Ride la terra e 'l cielo e l'ora e i rami,
stan quieti i venti, e son tranquille l'onde,
e 'l sol mai si lucente non apparse.
Cantan gli augelli: Chi dunc'è che non ami
e non gioisca? Io sol, che non risponde
la gioia alle mie forze inferme e scarse.
Sulla preghiera
Diceva ancora che non si domandasse mai al Signore una gratia assolutamente, come la sanità o altra simil cosa, ma sempre con conditione se gli piace o se è per il meglio (ricordo n.36 del Maffa)
Sulle virtù e i vizi
Essortava tutti spessissime volte con infocati raggionamenti alla virtù della castità, dicendoli: Si guardino li giovani dalla carne e li vecchi dall'avaritia (ricordo n.64 del Maffa)
Sulla preghiera e il padre spirituale
…diceva che non ci era cosa che il demonio havesse più a male quanto l'oratione (ricordo n.74 del Maffa)
Diceva anche che non bisognava mai fidarsi di se stesso, ma consigliarsi sempre con il padre spirituale e raccomandarsi all'oration di tutti (ricordo n.85 del Maffa)
Diceva poi a tutti quelli che desideravano la salute dell'anima loro che avanti si eleggessero un confessore ci pensassero bene, ma poi che l'havessero preso non lo lasciassero mai e gl'havessero grandissima fede, conferendogli ogni minima cosa, perché il Signore non lo lascerà mai errare in cosa che fusse per la salute dell'anima loro (ricordo n.109 del Maffa)
Sulle sofferenze altrui
Avvertiva ancora che quando una persona andava a visitare un infermo non facessi del profeta con dire che l'infermo morirebbe overo non morirebbe, perché diceva che vi erano state persone che havevano detto che un infermo sarebbe morto, e poi quando guariva gli rincresceva che fusse guarito perché la profezia non era riuscita (ricordo n.107 del Maffa)
Diceva anche che quando si andava a raccomandar l'anima di alcun moriente che un bonissimo aiuto era a pregar per quell'anima e che bisognava dile poche parole et di raro (ricordo n.139 del Maffa)
Sull'ariditàDiceva ancora che le persone spirituali dovevano esser designate tanto a sentire i gusti di Dio come a stare in aridità di spirito et della devotione tutto quello tempo che piace a Dio, non si lamentando mai di cosa alcuna (ricordo n.139 del Maffa)Sui sacerdoti
Consigliava alli sacerdoti, massime che vivono in comune, che cercassero in quanto fusse possibile di non haver niente in particolare in sacrestia e gli diceva che non havessero mai hora particolare, né altare, né altra cosa, ma che dicessero la messa quando erano chiamati e dove erano mandati (ricordo n.106 del Maffa)
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