DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

San Carlo, l’aureola della pietà. Cadono il 1° novembre i quattrocento anni dalla canonizzazione dell’arcivescovo ambrosiano

di Michele Dolz
Tratto da Avvenire del 27 ottobre 2010

La canonizzazione di san Carlo Borromeo il 1 novembre 1610 – di cui ricorre dunque il quarto centenario – fu un’apoteosi raramente vista. Sotto la regia di Giovan Battista Crespi detto il Cerano, a Milano, e di Antonio Tempesta, a Roma, vennero innalzati monumenti e architetture effimere, installati arredi urbani, fabbricati grandi stendardi, dipinti tanti e tanti quadri. Dentro alla Basilica di San Pietro, ancora in costruzione, si fabbricò un’enorme macchina o teatro con tanto di facciata, una vera chiesa nella chiesa con ben trentanove dipinti monocromi sulla vita e i miracoli del santo. La Fabbrica del Duomo di Milano ordinò la seconda serie di quadroni, sui miracoli di san Carlo, affidandola ai migliori pittori sulla piazza. Gli orefici milanesi donarono una statua del santo a grandezza naturale fatta di materiali preziosi, oggi purtroppo perduta. Intorno ad alcune croci che san Carlo aveva fatto erigere nelle piazze (una croce di metallo sopra una colonna, come segno sacro nel territorio urbano) vennero allestite decorazioni con panni, statue, dipinti; in una di queste furono appesi i ritratti dei trentotto vescovi santi di Milano, da san Barnaba apostolo fino allo stesso Borromeo: oggi sono al Museo Diocesano di Milano. Fu così memorabile la celebrazione che Tempesta incise e pubblicò un grande foglio con i Fatti della canonizzazione di san Carlo, con venticinque riquadri che ritraggono i vari momenti. Ma soprattutto quell’abbondanza d’immagini fissò in maniera canonica l’iconografia del santo.

Si può dire che il singolare fenomeno iconico era frutto postumo della pastorale di san Carlo, poiché egli fece dell’immagine sacra uno strumento non secondario della sua intensa attività. Un dipinto del Cerano per l’occasione riportava «una figura al naturale di Nostro Signore, che faceva oratione all’horto, con l’Angelo da una parte, col calice, e la Croce in mano, che lo confortava, e dall’altra parte vi era S. Carlo inginocchiato in oratione, a imitazione dell’oratione ch’egli fece al Sacro Monte di Varallo, quando si preparava alla morte». Così scriveva il Grattarola nel 1614. Ed è proprio attraverso queste immagini che riconosciamo l’utilizzo formativo che dell’arte fece san Carlo. C’è un altro dipinto del Cerano, dell’anno della canonizzazione, che ritrae l’arcivescovo inginocchiato dinnanzi al Cristo morto, in una toccante espressione di dolore, pentimento, devozione.

Esplicitamente intende riferirsi alle lunghe preghiere del santo nel Sacro Monte di Varallo. Lì amava ritirarsi per i suoi esercizi spirituali, d’impronta ignaziana con sue accomodazioni. Ricordava il Bascapé: «Ciascuno si riduceva in alcune devote cappelle a meditare et orare; et il cardinale … si ritirava pur ancor esso al luocho suo senza volere che altri lo seguisse: et era di meravigliosa consolazione et compunzione vederlo, la notte specialmente, andare tutto solo, con una sua lanternetta sotto il mantello, dove più la devotione l’invitava», principalmente nella cappella del sepolcro. Lì lo colse la malattia che lo avrebbe portato in breve tempo alla morte.

Le lunghe e partecipate meditazioni dinnanzi a quei simulacri come se fossero il Cristo vero, sono testimonianza del senso che egli dava alle immagini sacre e dell’utilizzo che voleva se ne facesse. Il Concilio di Trento, al quale aveva partecipato, si era espresso sulla questione in maniera chiara ma generica e sbrigativa. In sostanza di diceva (sessione XXV, 1563): a) «Attraverso le immagini … noi adoriamo Cristo e veneriamo i santi», e rinviava alla dottrina del Concilio II di Nicea. b) «I vescovi insegneranno con molto impegno che attraverso la storia dei misteri della nostra redenzione, espressa con i dipinti e in altri modi, il popolo viene istruito e confermato nella fede» ed esercita la pietà. c) «Se in queste pratiche sante e salutari fossero invalsi degli abusi, il santo sinodo desidera ardentemente eliminarli». I vescovi dovevano vigilare perché le immagini non fossero oggetto di superstizione né veicolassero false dottrine. Ai vescovi veniva delegata la funzione applicativa di queste norme.

Com’è noto, il Borromeo prese decisamente a cuore questo incarico, scrivendo le Instructionum fabbricae et supellectilis ecclesiasticae, libri II (1577) che sono un detta-gliato vademecum di come devono essere le chiese, le immagini e le suppellettili sacre. Le immagini avevano per lui un carattere didattico (della dottrina e della pietà) al quale si aggiungeva una funzione di difesa dall’eresia. La preoccupazione non era di ordine estetico ma etico, e ormai è stato sufficientemente dimostrato che Trento e i suoi applicatori non hanno limitato la creatività ma l’hanno potenziata non fosse altro che per l’attenzione dedicata alle arti. Basta ricordare i nomi degli artisti europei del Seicento.

San Carlo voleva sobrietà, intelligibilità, chiarezza, devozione. Avrebbe desiderato vedere in pittura ciò che Pellegrino Tibaldi fece in architettura sotto le sue direttive. Ma a Milano non c’erano in quegli anni grandi artisti. Scomparsa la generazione dei leonardeschi, un elegante manierismo – da Lomazzo al Peterzano, a Fede Galizia e Camillo Procacini, con episodi molto belli del Figino – cercò di adattarsi alle indicazioni. Sarà dopo la morte del santo che quello spirito s’incarnerà in grande pittura, molto spesso raffigurando Carlo medesimo negli atteggiamenti di devozione che voleva inculcare nella sua gente: il notevole San Carlo comunica gli appestati di Tanzio da Varallo a Domodossola, le prove di bravura prodotte dai diversi artisti per la canonizzazione, per finire nelle raffinate composizioni di Giulio Cesare Procacini, come quel San Carlo Borromeo porta in processione il Sacro Chiodo di Orta San Giulio.