di Roberto I. Zanini
Ricordate Vanni Fucci, il personaggio che si incontra nell’ottavo girone, a chiusura del XXIV e in apertura del XXV canto dell’Inferno di Dante? Prima di lui, nella Commedia, non c’è anima dannata che osi dire «io sono», aggiungendo poi il proprio nome di battesimo. Una vera e propria eccezione. Vita bestial mi piacque e non umana, / sì come a mul ch’i fui; son Vanni Fucci / bestia, e Pistoia mi fu degna tana, afferma Fucci non appena si imbatte nel Poeta. Poco dopo, all’inizio del canto seguente, si esibisce in un’oscena bestemmia.
Due manifestazioni che fanno esclamare a Dante: «Non vidi spirto in Dio tanto superbo». Perché un giudizio così netto nei confronti di un dannato non peggiore di altri? La risposta sarebbe nella duplice offesa a Dio, in quanto Dante considera che pronunciare all’inferno il proprio nome di battesimo in prima persona equivalga a bestemmiare.
È la suggestiva interpretazione fornita da Massimo Castoldi, filologo, esperto di Giovanni Pascoli (in questi giorni è in libreria una biografia del poeta morto nel 1912, per i tipi del Mulino) nonché studioso di onomastica letteraria, in un articolo pubblicato nel volume Studi di onomastica e critica letteraria offerti a Davide De Camilli, curato da tre dei massimi esperti italiani del settore: Maria Giovanna Arcamone, Donatella Bremer e Bruno Porcelli.
L’articolo si intitola: Un’ipotesi sul tradimento del nome nell’Inferno dantesco, e apre, forse, a una lettura tutta nuova della Divina Commedia, centrata sulla valenza spirituale del nome come progetto cristiano (Gal. 3, 27). Imposto nel battesimo, il nome è simbolo della nuova vita in Cristo: chi l’ha tradita e si è dannato all’Inferno, non può pronunciarlo.
«La mia riflessione – spiega Castoldi – è partita dalla terzina in cui Ugolino si presenta a Dante, nel canto XXXIII dell’Inferno: Tu dei saper ch’i fui conte Ugolino, / e questi è l’arcivescovo Ruggeri: / or ti dirò perché i son tal vicino. Mi sono chiesto perché il conte della Gherardesca usi il passato remoto per il suo nome, mentre indica al presente quello del dannato che gli sta accanto. Da lì l’idea di indagare sul rapporto col proprio nome che hanno le anime della Divina Commedia».
Il nome di Ugolino, annota Castoldi nell’articolo, viene probabilmente da Sant’Ugolino, uno dei sette francescani che subirono il martirio nel 1227 a Ceuta, in Mauritania. Il conte non lo pronuncia al presente perché, avendolo tradito, non può usarlo per identificare la sua condizione di dannato. Prima di lui, per fare qualche esempio, anche Jacopo Rusticucci, nel canto XVI, dice Io fui, così come Alberto Camicione dei Pazzi, nel canto precedente a quello di Ugolino. Con la stessa logica, molti dannati indicano se stessi in terza persona: O figliuol mio, non ti dispiaccia / se Brunetto Latino un poco teco / ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia (canto XV). Allo stesso modo si comportano, nel canto XXVIII, Maometto, Pier da Medicina e Mosca. Molti altri dannati, come Francesca da Rimini nel canto V, usano giri di parole per indicare chi sono: Siede la terra dove nata fui....
Nel canto X, ugualmente, il nome di Cavalcante è svelato a Dante dal suo racconto e dal modo della pena. Pier delle Vigne nel canto XIII parla di se stesso come di colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo. Poi, come abbiamo visto, nell’Inferno profondo, arriva Vanni Fucci che, prima di bestemmiare Dio, bestemmia il suo nome. Come lui, solo altri due dannati si qualificano con «io sono», ma non con tanta impudenza. Nel canto XXVIII lo fa Bertran De Born, «che però in un certo qual modo è giustificato, in quanto – ricorda Castoldi – è scisso tra mente e cuore nella sua stessa figura»: ’l capo tronco tenea per le chiome. / pesol con mano a guisa di lanterna", il cervello "partito... / dal suo principio ch’è in questo troncone.
Nel condannare De Born (che nel Convivio elogia in qualità di poeta "trovatore") a questo singolare contrappasso, Dante giudica di lui la parte della vita in cui, al servizio di Enrico II d’Inghilterra, rende il padre e ’l figlio in se ribelli, incitando il giovane Enrico III a usurpare il trono del genitore. Un tradimento del padre che paga con la scissione del capo dal corpo, così come è scisso chi tradisce Dio. E per Dante a nulla vale (sempre che lo abbia saputo) il fatto che in vita Dal Born abbia seguito la via dell’espiazione finendo i suoi giorni in una Certosa. Il terzo dannato che si identifica col suo nome in prima persona arriva nel canto XXXIII e anche in questo caso l’eccezione è assai singolare. Si tratta di frate Alberigo dei Manfredi, colpevole di aver invitato a un pranzo due suoi parenti facendoli uccidere al segnale di servire la frutta: I’ son frate Alberigo / i’ son quel da le frutta del mal orto / che qui riprendo dattero per figo.
«Un presente in prima persona – dice Castoldi – perché Alberigo non può ancora dire "io fui" essendo il suo corpo ancora vivo e in terra, seppure posseduto da un demonio». Anche lui, insomma, è uno scisso: da una parte l’anima, dall’altra il corpo. Un ragionamento che trova la sua conferma nelle cantiche del Purgatorio e del Paradiso, dove si incontrano tante anime che liberamente si identificano col proprio nome: Io son Manfredi, io son Sordello, io son Bonconte, ricordati di me che son la Pia, son Guido Guinizzelli e già mi purgo..., per restare nel Purgatorio.
Fra le tante nel Paradiso due risultano particolarmente significative per l’analisi di Castoldi. Cesare fui e son Iustiniano, (canto V) afferma l’imperatore, sottolineando come nella pace eterna conti solo il nome e non più il titolo avuto in terra. Ancor più importante è nel canto XV l’incontro con Cacciaguida, che Dante considera maestro, in quanto crociato e uomo di fede: Ne l’antico vostro Batisteo / insieme fui cristiano e Cacciaguida.
Due versetti fulminanti per indicare l’identità fra il proprio nome e l’essere cristiano, assunta nel momento del battesimo. Del resto la prima anima beata che nella Commedia si chiama per nome è l’amata Beatrice nel secondo canto dell’Inferno: Io son Beatrice che ti faccio andare. Nel primo canto dell’Inferno Virgilio non pronuncia il suo nome, ma lo fa solo nel Purgatorio parlando con Sordello: Io son Virgilio e per null’altro rio / lo ciel perdei che per non aver fé. E Dante? L’unica volta che il suo nome compare è proprio per bocca di Beatrice, nel momento in cui Virgilio sparisce e lei prende in carico l’amato, nel canto XXX del Purgatorio, a conclusione del suo percorso di espiazione, prima della confessione di tutti i suoi traviamenti e dell’immersione nel Lete, nuovo battesimo: ormai alle soglie del Paradiso.
Due manifestazioni che fanno esclamare a Dante: «Non vidi spirto in Dio tanto superbo». Perché un giudizio così netto nei confronti di un dannato non peggiore di altri? La risposta sarebbe nella duplice offesa a Dio, in quanto Dante considera che pronunciare all’inferno il proprio nome di battesimo in prima persona equivalga a bestemmiare.
È la suggestiva interpretazione fornita da Massimo Castoldi, filologo, esperto di Giovanni Pascoli (in questi giorni è in libreria una biografia del poeta morto nel 1912, per i tipi del Mulino) nonché studioso di onomastica letteraria, in un articolo pubblicato nel volume Studi di onomastica e critica letteraria offerti a Davide De Camilli, curato da tre dei massimi esperti italiani del settore: Maria Giovanna Arcamone, Donatella Bremer e Bruno Porcelli.
L’articolo si intitola: Un’ipotesi sul tradimento del nome nell’Inferno dantesco, e apre, forse, a una lettura tutta nuova della Divina Commedia, centrata sulla valenza spirituale del nome come progetto cristiano (Gal. 3, 27). Imposto nel battesimo, il nome è simbolo della nuova vita in Cristo: chi l’ha tradita e si è dannato all’Inferno, non può pronunciarlo.
«La mia riflessione – spiega Castoldi – è partita dalla terzina in cui Ugolino si presenta a Dante, nel canto XXXIII dell’Inferno: Tu dei saper ch’i fui conte Ugolino, / e questi è l’arcivescovo Ruggeri: / or ti dirò perché i son tal vicino. Mi sono chiesto perché il conte della Gherardesca usi il passato remoto per il suo nome, mentre indica al presente quello del dannato che gli sta accanto. Da lì l’idea di indagare sul rapporto col proprio nome che hanno le anime della Divina Commedia».
Il nome di Ugolino, annota Castoldi nell’articolo, viene probabilmente da Sant’Ugolino, uno dei sette francescani che subirono il martirio nel 1227 a Ceuta, in Mauritania. Il conte non lo pronuncia al presente perché, avendolo tradito, non può usarlo per identificare la sua condizione di dannato. Prima di lui, per fare qualche esempio, anche Jacopo Rusticucci, nel canto XVI, dice Io fui, così come Alberto Camicione dei Pazzi, nel canto precedente a quello di Ugolino. Con la stessa logica, molti dannati indicano se stessi in terza persona: O figliuol mio, non ti dispiaccia / se Brunetto Latino un poco teco / ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia (canto XV). Allo stesso modo si comportano, nel canto XXVIII, Maometto, Pier da Medicina e Mosca. Molti altri dannati, come Francesca da Rimini nel canto V, usano giri di parole per indicare chi sono: Siede la terra dove nata fui....
Nel canto X, ugualmente, il nome di Cavalcante è svelato a Dante dal suo racconto e dal modo della pena. Pier delle Vigne nel canto XIII parla di se stesso come di colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo. Poi, come abbiamo visto, nell’Inferno profondo, arriva Vanni Fucci che, prima di bestemmiare Dio, bestemmia il suo nome. Come lui, solo altri due dannati si qualificano con «io sono», ma non con tanta impudenza. Nel canto XXVIII lo fa Bertran De Born, «che però in un certo qual modo è giustificato, in quanto – ricorda Castoldi – è scisso tra mente e cuore nella sua stessa figura»: ’l capo tronco tenea per le chiome. / pesol con mano a guisa di lanterna", il cervello "partito... / dal suo principio ch’è in questo troncone.
Nel condannare De Born (che nel Convivio elogia in qualità di poeta "trovatore") a questo singolare contrappasso, Dante giudica di lui la parte della vita in cui, al servizio di Enrico II d’Inghilterra, rende il padre e ’l figlio in se ribelli, incitando il giovane Enrico III a usurpare il trono del genitore. Un tradimento del padre che paga con la scissione del capo dal corpo, così come è scisso chi tradisce Dio. E per Dante a nulla vale (sempre che lo abbia saputo) il fatto che in vita Dal Born abbia seguito la via dell’espiazione finendo i suoi giorni in una Certosa. Il terzo dannato che si identifica col suo nome in prima persona arriva nel canto XXXIII e anche in questo caso l’eccezione è assai singolare. Si tratta di frate Alberigo dei Manfredi, colpevole di aver invitato a un pranzo due suoi parenti facendoli uccidere al segnale di servire la frutta: I’ son frate Alberigo / i’ son quel da le frutta del mal orto / che qui riprendo dattero per figo.
«Un presente in prima persona – dice Castoldi – perché Alberigo non può ancora dire "io fui" essendo il suo corpo ancora vivo e in terra, seppure posseduto da un demonio». Anche lui, insomma, è uno scisso: da una parte l’anima, dall’altra il corpo. Un ragionamento che trova la sua conferma nelle cantiche del Purgatorio e del Paradiso, dove si incontrano tante anime che liberamente si identificano col proprio nome: Io son Manfredi, io son Sordello, io son Bonconte, ricordati di me che son la Pia, son Guido Guinizzelli e già mi purgo..., per restare nel Purgatorio.
Fra le tante nel Paradiso due risultano particolarmente significative per l’analisi di Castoldi. Cesare fui e son Iustiniano, (canto V) afferma l’imperatore, sottolineando come nella pace eterna conti solo il nome e non più il titolo avuto in terra. Ancor più importante è nel canto XV l’incontro con Cacciaguida, che Dante considera maestro, in quanto crociato e uomo di fede: Ne l’antico vostro Batisteo / insieme fui cristiano e Cacciaguida.
Due versetti fulminanti per indicare l’identità fra il proprio nome e l’essere cristiano, assunta nel momento del battesimo. Del resto la prima anima beata che nella Commedia si chiama per nome è l’amata Beatrice nel secondo canto dell’Inferno: Io son Beatrice che ti faccio andare. Nel primo canto dell’Inferno Virgilio non pronuncia il suo nome, ma lo fa solo nel Purgatorio parlando con Sordello: Io son Virgilio e per null’altro rio / lo ciel perdei che per non aver fé. E Dante? L’unica volta che il suo nome compare è proprio per bocca di Beatrice, nel momento in cui Virgilio sparisce e lei prende in carico l’amato, nel canto XXX del Purgatorio, a conclusione del suo percorso di espiazione, prima della confessione di tutti i suoi traviamenti e dell’immersione nel Lete, nuovo battesimo: ormai alle soglie del Paradiso.
«Avvenire» del 10 marzo 2011