ono stati resi noti oggi alcuni stralci del nuovo libro di Benedetto XVI su Gesù. Ecco un brano tratto dal capitolo dedicato al processo e alle responsabilità nella condanna a morte del Nazareno: il Papa spiega bene come l’espressione “i giudei” non deve farci pensare “al popolo d’Israele come tale” né tantomeno essa va interprata in senso “razzista”.
Benedetto XVI
(…) Ma domandiamoci anzitutto: chi erano precisamente gli accusatori? Chi ha insistito per la condanna di Gesù a morte? Nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze su cui dobbiamo riflettere. Secondo Giovanni, essi sono semplicemente i «Giudei». Ma questa espressione, in Giovanni, non indica affatto — come il lettore moderno forse tende ad interpretare — il popolo d’Israele come tale, ancor meno essa ha un carattere «razzista».
In definitiva, Giovanni stesso, per quanto riguarda la nazionalità, era Israelita, ugualmente come Gesù e tutti i suoi. L’intera comunità primitiva era composta da Israeliti. In Giovanni tale espressione ha un significato preciso e rigorosamente limitato: egli designa con essa l’aristocrazia del tempio.
Così nel quarto Vangelo il cerchio degli accusatori che perseguono la morte di Gesù è descritto con precisione e chiaramente delimitato: si tratta, appunto, dell’aristocrazia del tempio, ma anch’essa non senza eccezione, come lascia capire l’accenno a Nicodèmo (cfr. 7, 50ss).
In Marco, nel contesto dell’amnistia pasquale (Barabba o Gesù), il cerchio degli accusatori appare allargato: compare l’ochlos ed opta per il rilascio di Barabba. Ochlos significa innanzitutto semplicemente una quantità di gente, la «massa». Non di rado la parola ha un sapore negativo nel senso di «plebaglia». In ogni caso con ciò non è indicato «il popolo» degli Ebrei come tale.
Nell’amnistia pasquale (che, in realtà, non conosciamo da altre fonti, ma della quale tuttavia non v’è ragione di dubitare) il popolo — come al solito in simili amnistie — ha il diritto di fare una proposta manifestata per «acclamazione»: l’acclamazione del popolo ha in questo caso un carattere giuridico (cfr. Pesch,Markusevangelium, ii, p. 466).
Per quanto riguarda questa «massa», «si tratta di fatto dei sostenitori di Barabba, mobilitati per l’amnistia; come rivoltoso contro il potere romano, questi poteva naturalmente contare su un certo numero di simpatizzanti. Erano quindi presenti i seguaci di Barabba, la «massa», mentre gli aderenti a Gesù per paura rimanevano nascosti, e in questo modo la voce del popolo su cui il diritto romano contava era presentata in modo unilaterale.
Così in Marco accanto ai «Giudei», cioè agli autorevoli circoli sacerdotali, compare, sì, l’ochlos, il gruppo dei sostenitori di Barabba, non però il popolo ebreo come tale. Un’amplificazione dell’ochlos di Marco, fatale nelle sue conseguenze, si trova in Matteo (27, 25), che parla invece di «tutto il popolo», attribuendo adesso la richiesta della crocifissione di Gesù.
Con questo, Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù? La realtà storica appare in modo sicuramente corretto in Giovanni e in Marco.
Il vero gruppo degli accusatori sono i circoli contemporanei del tempio e, nel contesto dell’amnistia pasquale, si associa ad essi la «massa» dei sostenitori di Barabba. Si può forse in ciò dare ragione a Joachim Gnilka, secondo cui Matteo — andando oltre i fatti storici — ha voluto formulare un’eziologia teologica, con cui spiegarsi il terribile destino di Israele nella guerra giudeo-romana, nella quale vennero tolti al popolo la Terra, la città e il tempio (cfr. Matthäusevangelium, II, p. 459).
In tale contesto Matteo pensa forse alle parole di Gesù nelle quali Egli predice la fine del tempio: «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è lasciata a voi deserta» (Matteo, 23, 37s; cfr. in Gnilka l’intero paragrafo Gerichtsworte, pp. 295-308).
A proposito di queste parole bisogna — come indicato già nella riflessione sul discorso escatologico di Gesù — ricordare l’intima analogia tra il messaggio del profeta Geremia e quello di Gesù. Geremia annuncia — contro l’accecamento dei circoli dominanti d’allora — la distruzione del tempio e l’esilio di Israele. Ma parla anche di una «nuova alleanza»: il castigo non è l’ultima parola; esso serve alla guarigione.
Analogamente Gesù annuncia la «casa deserta» e dona già fin d’ora la nuova alleanza «nel suo sangue»: in ultima analisi si tratta di guarigione, non di distruzione e ripudio.Se secondo Matteo «tutto il popolo» avrebbe detto: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (27, 25), il cristiano ricorderà che il sangue di Gesù parla un’altra lingua rispetto a quello di Abele (cfr. Ebrei, 12, 24): non chiede vendetta e punizione, ma è riconciliazione. Non viene versato contro qualcuno, ma è sangue versato per molti, per tutti. «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (…) È lui [Gesù] che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione (…) nel suo sangue», dice Paolo (Romani, 3, 23.25). Come in base alla fede bisogna leggere in modo totalmente nuovo l’affermazione di Caifa circa la necessità della morte di Gesù, così deve farsi anche con la parola di Matteo sul sangue: letta nella prospettiva della fede, essa significa che tutti noi abbiamo bisogno della forza purificatrice dell’amore, e tale forza è il suo sangue.
Non è maledizione, ma redenzione, salvezza. Soltanto in base alla teologia dell’ultima cena e della croce presente nell’intero Nuovo Testamento la parola di Matteo circa il sangue acquisisce il suo senso corretto. (…)