di Daniele Zappalà
Da una parte, prendono la parola quelli che interpretano i miti e le narrazioni religiose: gli esegeti. Dall’altra, quelli che studiano i rituali e le strutture sociali attorno agli stessi testi: etnologi e storici delle religioni. In mezzo a loro, siede René Girard, cercando di spiegare perché e come miti e narrazioni sacre parlano del mondo. Proprio il nostro, non certo un mondo ipotetico o fantastico. Questa configurazione triadica venne scelta nel 1983 in California per dar vita a una sorta di tenzone accademica non proprio usuale. Sul litorale di Pajaro Dunes, non lontano da Santa Cruz, una dozzina di emeriti studiosi americani ed europei si ritrovarono per tre giorni attorno a Girard per dibattere sulle origini del sacro e in particolare sulla celebre teoria “mimetica” girardiana del capro espiatorio.
L’opera scaturita da quel dibattito unico, inizialmente pubblicata dall’Università di Stanford con il titolo Violent Origins, era rimasta finora accessibile in Europa solo agli specialisti. Adesso, la casa editrice Flammarion la ripropone nel quadro della rapida “riscoperta” in Francia del pensiero di Girard, riservando così al lettore non poche sorprese. Più di un quarto di secolo dopo, cosa rende quella diatriba ancora tanto fresca e, per così dire, autentica? Innanzitutto, forse, il fatto che il battaglione dei detrattori, a cominciare dal filologo tedesco Walter Burkert e dallo storico americano delle religioni Jonathan Z. Smith, non nutriva il minimo timore reverenziale nei confronti di Girard.
Quest’ultimo è costretto di continuo a parare le stoccate, alcune delle quali puntano al bersaglio grosso, contestando fra le righe persino la stessa legittimità di Girard nell’«invadere» il campo dell’antropologia. Lo studioso, docente di letteratura a Stanford, è percepito ancora all’epoca da non pochi come una sorta di “pirata” transdisciplinare. Smith, da buon relativista, contesta in pieno la possibilità di giungere ad assunti generali nello studio delle origini delle religioni: «Il mio problema è di sapere cosa giustificherebbe il privilegiare una versione rispetto alle altre».
Per lo storico, in effetti, la tesi girardiana del capro espiatorio come soluzione comunitaria archetipica volta a superare la violenza originaria, potrebbe essere un semplice «motivo folklorico» fra tanti altri. Girard ribatte spiegando che la sua preoccupazione non è di stabilire gerarchie fra i motivi del mito, assegnando all’omicidio collettivo una sorta di supremazia assoluta: «Mi interesso invece a un processo morfogenetico». In altri termini, lo studioso non intende restare nel recinto dell’esegesi o in quello della descrizione dei rituali sociali.
L’interrogativo centrale per Girard è comprendere perché per esempio la narrazione biblica del secondo capro inviato nel deserto ad Azazel, nel Levitico, corrisponde tanto bene alla stessa logica relazionale riscontrabile anche nei maggiori romanzi moderni, così come nelle stesse relazioni storiche fra gli Stati. I miti fondatori di tante civiltà e i rituali praticati ancor oggi dai popoli nativi isolati sono costellati da atti violenti come sacrifici di animali e umani.
Si tratta solo di “trascrizioni” festive, propiziatorie, allegoriche del tema universale primordiale della caccia? È questa la pista scelta da Burkert, che chiarisce: «Ho cercato di far derivare il rito sacrificale a partire dalla caccia dell’era paleolitica, inserendomi nella prospettiva del da dove proviene tutto ciò?”».
Ma per Girard, questo genere di spiegazioni non coglie l’essenza dei processi di ominizzazione e di «autodomesticazione» sociale che cavalcano e scavalcano di continuo i miti e le narrazioni religiose. Il tema del superamento collettivo della violenza primitiva è troppo radicato e trasversale per rivestire semplicemente un carattere folklorico o accessorio.
Fonte: “Avvenire”, 25 febbraio 2011)