DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

"CONTRAS-SEGNI". I segni di questi giorni in sintesi.


αποφθεγμα Apoftegma

Frammenti quasi quotidiani


"Per quanto io riesca a capire, si reputa straordinario il fatto che un uomo sia normale, ordinario. Io sono ordinario nel senso più comune del termine, il che significa accettare un ordine, un Creatore e la creazione, e provare un senso di gratitudine per essa, ritenere la vita e l'amore quali doni costantemente buoni, il matrimonio e la galanteria quali leggi che giustamente li controllano e approvare le altre normali tradizioni comuni al nostro popolo e alla nostra religione".

Gilbert Keith Chesterton, La mia fede




Il Papa: "Giacobbe vince quando si arrende a Dio, ma la sua nuova identità afferma e testimonia la vittoria di Dio"

Oggi vorrei riflettere con voi su un testo del Libro della Genesi che narra un episodio abbastanza particolare della storia del Patriarca Giacobbe. È un brano di non facile interpretazione, ma importante per la nostra vita di fede e di preghiera; si tratta del racconto della lotta con Dio al guado dello Yabboq. Come ricorderete, Giacobbe aveva sottratto al suo gemello Esaù la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie e aveva poi carpito con l’inganno la benedizione del padre Isacco, ormai molto anziano, approfittando della sua cecità. Sfuggito all’ira di Esaù, si era rifugiato presso un parente, Labano; si era sposato, si era arricchito e ora stava tornando nella terra natale, pronto ad affrontare il fratello dopo aver messo in opera alcuni prudenti accorgimenti. Ma quando è tutto pronto per questo incontro, dopo aver fatto attraversare a coloro che erano con lui il guado del torrente che delimitava il territorio di Esaù, Giacobbe, rimasto solo, viene aggredito improvvisamente da uno sconosciuto con il quale lotta per tutta una notte. Proprio questo combattimento corpo a corpo - che troviamo nel capitolo 32 del Libro della Genesi - diventa per lui una singolare esperienza di Dio. La notte è il tempo favorevole per agire nel nascondimento, il tempo, dunque, migliore per Giacobbe, per entrare nel territorio del fratello senza essere visto e forse con l’illusione di prendere Esaù alla sprovvista. Ma è invece lui che viene sorpreso da un attacco imprevisto, per il quale non era preparato. Aveva usato la sua astuzia per tentare di sottrarsi a una situazione pericolosa, pensava di riuscire ad avere tutto sotto controllo, e invece si trova ora ad affrontare una lotta misteriosa che lo coglie nella solitudine e senza dargli la possibilità di organizzare una difesa adeguata. Inerme, nella notte, il Patriarca Giacobbe combatte con qualcuno. Il testo non specifica l’identità dell’aggressore; usa un termine ebraico che indica "un uomo" in modo generico, "uno, qualcuno"; si tratta, quindi, di una definizione vaga, indeterminata, che volutamente mantiene l’assalitore nel mistero. È buio, Giacobbe non riesce a vedere distintamente il suo contendente e anche per il lettore, per noi, esso rimane ignoto; qualcuno sta opponendosi al Patriarca, è questo l’unico dato certo fornito dal narratore. Solo alla fine, quando la lotta sarà ormai terminata e quel "qualcuno" sarà sparito, solo allora Giacobbe lo nominerà e potrà dire di aver lottato con Dio. L’episodio si svolge dunque nell’oscurità ed è difficile percepire non solo l’identità dell’assalitore di Giacobbe, ma anche quale sia l’andamento della lotta. Leggendo il brano, risulta difficoltoso stabilire chi dei due contendenti riesca ad avere la meglio; i verbi utilizzati sono spesso senza soggetto esplicito, e le azioni si svolgono in modo quasi contraddittorio, così che quando si pensa che sia uno dei due a prevalere, l’azione successiva subito smentisce e presenta l’altro come vincitore. All’inizio, infatti, Giacobbe sembra essere il più forte, e l’avversario – dice il testo – «non riusciva a vincerlo» (v. 26); eppure colpisce Giacobbe all’articolazione del femore, provocandone la slogatura. Si dovrebbe allora pensare che Giacobbe debba soccombere, ma invece è l’altro a chiedergli di lasciarlo andare; e il Patriarca rifiuta, ponendo una condizione: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto» (v. 27). Colui che con l’inganno aveva defraudato il fratello della benedizione del primogenito, ora la pretende dallo sconosciuto, di cui forse comincia a intravedere i connotati divini, ma senza poterlo ancora veramente riconoscere. Il rivale, che sembra trattenuto e dunque sconfitto da Giacobbe, invece di piegarsi alla richiesta del Patriarca, gli chiede il nome: "Come ti chiami?". E il Patriarca risponde: "Giacobbe" (v. 28). Qui la lotta subisce una svolta importante. Conoscere il nome di qualcuno, infatti, implica una sorta di potere sulla persona, perché il nome, nella mentalità biblica, contiene la realtà più profonda dell’individuo, ne svela il segreto e il destino. Conoscere il nome vuol dire allora conoscere la verità dell’altro e questo consente di poterlo dominare. Quando dunque, alla richiesta dello sconosciuto, Giacobbe rivela il proprio nome, si sta mettendo nelle mani del suo oppositore, è una forma di resa, di consegna totale di sé all’altro. Ma in questo gesto di arrendersi anche Giacobbe paradossalmente risulta vincitore, perché riceve un nome nuovo, insieme al riconoscimento di vittoria da parte dell’avversario, che gli dice: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto» (v. 29). "Giacobbe" era un nome che richiamava l’origine problematica del Patriarca; in ebraico, infatti, ricorda il termine "calcagno", e rimanda il lettore al momento della nascita di Giacobbe, quando, uscendo dal grembo materno, teneva con la mano il calcagno del fratello gemello (cfr Gen 25,26), quasi prefigurando lo scavalcamento ai danni del fratello che avrebbe consumato in età adulta; ma il nome Giacobbe richiama anche il verbo "ingannare, soppiantare". Ebbene, ora, nella lotta, il Patriarca rivela al suo oppositore, in un gesto di consegna e di resa, la propria realtà di ingannatore, di soppiantatore; ma l’altro, che è Dio, trasforma questa realtà negativa in positiva: Giacobbe l’ingannatore diventa Israele, gli viene dato un nome nuovo che segna una nuova identità. Ma anche qui, il racconto mantiene la sua voluta duplicità, perché il significato più probabile del nome Israele è "Dio è forte, Dio vince". Dunque Giacobbe ha prevalso, ha vinto - è l’avversario stesso ad affermarlo - ma la sua nuova identità, ricevuta dallo stesso avversario, afferma e testimonia la vittoria di Dio. E quando Giacobbe chiederà a sua volta il nome al suo contendente, questi rifiuterà di dirlo, ma si rivelerà in un gesto inequivocabile, donando la benedizione. Quella benedizione che il Patriarca aveva chiesto all’inizio della lotta gli viene ora concessa. E non è la benedizione ghermita con inganno, ma quella gratuitamente donata da Dio, che Giacobbe può ricevere perché ormai solo, senza protezione, senza astuzie e raggiri, si consegna inerme, accetta di arrendersi e confessa la verità su se stesso. Così, al termine della lotta, ricevuta la benedizione, il Patriarca può finalmente riconoscere l’altro, il Dio della benedizione: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva» (v. 31), e può ora attraversare il guado, portatore di un nome nuovo ma "vinto" da Dio e segnato per sempre, zoppicante per la ferita ricevuta. Le spiegazioni che l’esegesi biblica può dare riguardo a questo brano sono molteplici; in particolare, gli studiosi riconoscono in esso intenti e componenti letterari di vario genere, come pure riferimenti a qualche racconto popolare. Ma quando questi elementi vengono assunti dagli autori sacri e inglobati nel racconto biblico, essi cambiano di significato e il testo si apre a dimensioni più ampie. L’episodio della lotta allo Yabboq si offre così al credente come testo paradigmatico in cui il popolo di Israele parla della propria origine e delinea i tratti di una particolare relazione tra Dio e l’uomo. Per questo, come affermato anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «la tradizione spirituale della Chiesa ha visto in questo racconto il simbolo della preghiera come combattimento della fede e vittoria della perseveranza» (n. 2573). Il testo biblico ci parla della lunga notte della ricerca di Dio, della lotta per conoscerne il nome e vederne il volto; è la notte della preghiera che con tenacia e perseveranza chiede a Dio la benedizione e un nome nuovo, una nuova realtà frutto di conversione e di perdono. La notte di Giacobbe al guado dello Yabboq diventa così per il credente un punto di riferimento per capire la relazione con Dio che nella preghiera trova la sua massima espressione. La preghiera richiede fiducia, vicinanza, quasi in un corpo a corpo simbolico non con un Dio nemico, avversario, ma con un Signore benedicente che rimane sempre misterioso, che appare irraggiungibile. Per questo l’autore sacro utilizza il simbolo della lotta, che implica forza d’animo, perseveranza, tenacia nel raggiungere ciò che si desidera. E se l’oggetto del desiderio è il rapporto con Dio, la sua benedizione e il suo amore, allora la lotta non potrà che culminare nel dono di se stessi a Dio, nel riconoscere la propria debolezza, che vince proprio quando giunge a consegnarsi nelle mani misericordiose di Dio.

Cari fratelli e sorelle, tutta la nostra vita è come questa lunga notte di lotta e di preghiera, da consumare nel desiderio e nella richiesta di una benedizione di Dio che non può essere strappata o vinta contando sulle nostre forze, ma deve essere ricevuta con umiltà da Lui, come dono gratuito che permette, infine, di riconoscere il volto del Signore. E quando questo avviene, tutta la nostra realtà cambia, riceviamo un nome nuovo e la benedizione di Dio. E ancora di più: Giacobbe, che riceve un nome nuovo, diventa Israele, dà un nome nuovo anche al luogo in cui ha lottato con Dio, lo ha pregato; lo rinomina Penuel, che significa "Volto di Dio". Con questo nome riconosce quel luogo colmo della presenza del Signore, rende sacra quella terra imprimendovi quasi la memoria di quel misterioso incontro con Dio. Colui che si lascia benedire da Dio, si abbandona a Lui, si lascia trasformare da Lui, rende benedetto il mondo. Che il Signore ci aiuti a combattere la buona battaglia della fede (cfr 1Tm 6,12; 2Tm 4,7) e a chiedere, nella nostra preghiera, la sua benedizione, perché ci rinnovi nell’attesa di vedere il suo Volto.



Il Papa: "Il termine "nuova evangelizzazione" richiama l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio intensificando l'azione missionaria"

Il termine "nuova evangelizzazione" richiama l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio, soprattutto per coloro che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in Paesi di tradizione cristiana. Il Vangelo è il sempre nuovo annuncio della salvezza operata da Cristo per rendere l’umanità partecipe del mistero di Dio e della sua vita di amore e aprirla ad un futuro di speranza affidabile e forte. Sottolineare che in questo momento della storia la Chiesa è chiamata a compiere una nuova evangelizzazione, vuol dire intensificare l’azione missionaria per corrispondere pienamente al mandato del Signore. Il Concilio Vaticano II ricordava che "i gruppi in mezzo ai quali la Chiesa si trova, spesso, per varie ragioni, cambiano radicalmente, così che possono scaturire situazioni del tutto nuove" (Decr. Ad Gentes, 6). Con sguardo lungimirante, i Padri conciliari videro all’orizzonte il cambiamento culturale che oggi è facilmente verificabile. Proprio questa mutata situazione, che ha creato una condizione inaspettata per i credenti, richiede una particolare attenzione per l’annuncio del Vangelo, per rendere ragione della propria fede in situazioni differenti dal passato. La crisi che si sperimenta porta con sé i tratti dell’esclusione di Dio dalla vita delle persone, di una generalizzata indifferenza nei confronti della stessa fede cristiana, fino al tentativo di marginalizzarla dalla vita pubblica. Nei decenni passati era ancora possibile ritrovare un generale senso cristiano che unificava il comune sentire di intere generazioni, cresciute all’ombra della fede che aveva plasmato la cultura. Oggi, purtroppo, si assiste al dramma della frammentarietà che non consente più di avere un riferimento unificante; inoltre, si verifica spesso il fenomeno di persone che desiderano appartenere alla Chiesa, ma sono fortemente plasmate da una visione della vita in contrasto con la fede.
Annunciare Gesù Cristo unico Salvatore del mondo, oggi appare più complesso che nel passato; ma il nostro compito permane identico come agli albori della nostra storia. La missione non è mutata, così come non devono mutare l’entusiasmo e il coraggio che mossero gli Apostoli e i primi discepoli. Lo Spirito Santo che li spinse ad aprire le porte del cenacolo, costituendoli evangelizzatori (cfr At 2,1-4), è lo stesso Spirito che muove oggi la Chiesa per un rinnovato annuncio di speranza agli uomini del nostro tempo. Sant’Agostino afferma che non si deve pensare che la grazia dell’evangelizzazione si sia estesa fino agli Apostoli e con loro quella sorgente di grazia si sia esaurita, ma "questa sorgente si palesa quando fluisce, non quando cessa di versare. E fu in tal modo che la grazia tramite gli Apostoli raggiunse anche altri, che vennero inviati ad annunciare il Vangelo… anzi, ha continuato a chiamare fino a questi ultimi giorni l’intero corpo del suo Figlio Unigenito, cioè la sua Chiesa diffusa su tutta la terra" (Sermo 239,1). La grazia della missione ha sempre bisogno di nuovi evangelizzatori capaci di accoglierla, perché l’annuncio salvifico della Parola di Dio non venga mai meno, nelle mutevoli condizioni della storia.
Esiste una continuità dinamica tra l’annuncio dei primi discepoli e il nostro. Nel corso dei secoli la Chiesa non ha mai smesso di proclamare il mistero salvifico della morte e risurrezione di Gesù Cristo, ma quello stesso annuncio ha bisogno oggi di un rinnovato vigore per convincere l’uomo contemporaneo, spesso distratto e insensibile. La nuova evangelizzazione, per questo, dovrà farsi carico ditrovare le vie per rendere maggiormente efficace l’annuncio della salvezza, senza del quale l’esistenza personale permane nella sua contraddittorietà e priva dell’essenziale. Anche in chi resta legato alle radici cristiane, ma vive il difficile rapporto con la modernità, è importante far comprendere che l’essere cristiano non è una specie di abito da vestire in privato o in particolari occasioni, ma è qualcosa di vivo e totalizzante, capace di assumere tutto ciò che di buono vi è nella modernità. Mi auguro che nel lavoro di questi giorni possiate delineare un progetto in grado di aiutare tutta la Chiesa e le differenti Chiese particolari, nell’impegno della nuova evangelizzazione; un progetto dove l’urgenza per un rinnovato annuncio si faccia carico della formazione, in particolare per le nuove generazioni, e sia coniugato con la proposta di segni concreti in grado di rendere evidente la risposta che la Chiesa intende offrire in questo peculiare momento. Se, da una parte, l’intera comunità è chiamata a rinvigorire lo spirito missionario per dare l’annuncio nuovo che gli uomini del nostro tempo attendono, non si potrà dimenticare che lo stile di vita dei credenti ha bisogno di una genuina credibilità, tanto più convincente quanto più drammatica è la condizione di coloro a cui si rivolgono. E’ per questo che vogliamo fare nostre le parole del Servo di Dio Papa Paolo VI, quando, a proposito dell’evangelizzazione, affermava: "È mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità" (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 41).



Il Papa: "Dio stesso è la fonte della carità, e la carità è intesa non solo come una generica filantropia, ma come dono di sé, anche fino al sacrificio della propria vita"

Essere nel cuore della Chiesa; essere in grado, in certo qual modo, di parlare e agire in suo nome, in favore del bene comune, comporta particolari responsabilità in termini di vita cristiana, sia personale che comunitaria. Solo sulle basi di un quotidiano impegno ad accogliere e vivere pienamente l’amore di Dio, si può promuovere la dignità di ogni singolo essere umano. Nella mia prima Enciclica, Deus Caritas est, ho voluto riaffermare quanto sia centrale la testimonianza della carità per la Chiesa del nostro tempo. Attraverso tale testimonianza, resa visibile nella vita quotidiana dei suoi membri, la Chiesa raggiunge milioni di uomini e donne e rende loro possibile riconoscere e percepire l’amore di Dio, che è sempre vicino ad ogni persona che si trovi nel bisogno. Per noi cristiani, Dio stesso è la fonte della carità, e la carità è intesa non solo come una generica filantropia, ma come dono di sé, anche fino al sacrificio della propria vita in favore degli altri, ad imitazione dell’esempio di Gesù Cristo. La Chiesa prolunga nel tempo e nello spazio la missione salvifica di Cristo: essa vuole raggiungere ogni essere umano, mossa dal desiderio che ciascun individuo giunga a conoscere che nulla può separarci dall’amore di Cristo (cfr Rm 8,35).



Le responsabilità dei cristiani. Di Mons. Luigi Negri

C'è una presenza che accompagna inesorabilmente la vita della società e la devasta: la violenza. Una violenza irresistibile e irrefrenabile: sempre più spesso comincia nell'ambito delle famiglie ma poi dilaga a tutti i livelli della vita sociale. Noi vi assistiamo in un modo che sembra rassegnato, quando non come se fosse un elemento obiettivo della vita concreta e quotidiana. Mentre siamo a tavola, nel silenzio che caratterizza la vita di troppe famiglie, segno di sostanziale estraneità, la televisione ci mette sotto gli occhi la violenza inaudita delle masse sulle masse: urla, percosse, ferimenti, omicidi con tutto un accompagnamento di sangue, di lacrime e di disperazione. Chiediamoci se in questa perversione del nostro mondo noi cristiani abbiamo una qualche responsabilità. Consiglio a tutti di rileggere lo straordinario volume di Jacques Maritain, Il contadino della Garonna: contributo fondamentale per la comprensione della storia e delle difficoltà della Chiesa dagli anni '50 del secolo scorso fino a oggi. Secondo Maritain, l'errore fondamentale dei cristiani è di essersi inginocchiati davanti al mondo. «In larghi settori del clero e del laicato, ma l'esempio viene dal clero, non appena la parola mondo è pronunciata, una luce d'estasi passa negli occhi degli uditori». Inginocchiarsi di fronte al mondo ha significato e significa per troppa cultura cristiana condividere sostanzialmente l'idea della naturale bontà dell'uomo e del mondo. Se l'uomo è strutturalmente buono, allora non c'è assolutamente bisogno della redenzione. Una miscela di pelagianesimo, manicheismo e catarinismo fa sì che i cristiani accettino l'antropologia mondana senza nessuna istanza critica. Si è persa la verità del peccato originale, confinato nell'ambito della mitologia, e i limiti dell'uomo vengono dirottati nell'ambito delle patologie psicologiche, oggetto di terapie psicoanalitiche che alla fine li elimineranno totalmente. Anche noi cristiani abbiamo dato il nostro contributo, teorico e pratico, a quell'«irrealismo antropologico», di cui ha così spesso e pertinentemente parlato Giovanni Paolo II. Ma se il mondo è strutturalmente buono e la storia dell'umanità è la storia di un progresso definitivamente positivo, anche se attuato con gradualità, allora qual è la funzione della Chiesa: quella di scomparire nel mondo, perché il mondo possa, senza più nessuna obiezione dall'esterno, raggiungere la sua piena maturità? Ben altro era quello che ci era stato messo nel cuore e come responsabilità da assumere di fronte a Dio, alla nostra coscienza, al cuore e alla storia degli uomini. Infatti, la novità della vita dell'uomo è solo Cristo - in cui si è reso e si rende definitivamente presente la misericordia di Dio - che accoglie l'uomo, lo libera dal suo male profondo, e lo fa camminare verso un destino di verità, di bellezza, di bene e di giustizia. Siamo stati in silenzio, cioè non siamo stati testimoni, testimoni della verità e della liberazione.
Soltanto un'umile e certa testimonianza di Cristo incontra l'uomo di oggi come l'uomo di ogni tempo: alla luce del volto di Cristo emerge tutta l'inesorabile positività del cuore dell'uomo, ma insieme emerge anche l'inesorabile tendenza al male e all'odio che caratterizza anch'essa il cuore dell'uomo. L'uomo ha bisogno di essere educato. La testimonianza cristiana è un fattore fondamentale di educazione che favorisce, con il suo stesso esserci, una vita umana più positiva e più buona sulla terra. Se la Chiesa sta in silenzio, non annuncia Gesù Cristo, non coinvolge la libertà degli uomini nel grande evento della salvezza cristiana, allora questa assenza favorisce il dilagare del male, nel cuore dell'uomo e della società.




Ravasi: Se il messaggio di fede non sarà consegnato alle generazioni future, saremo incapaci di sottrarci al nulla

Il biblista ha concentrato innanzitutto la sua riflessione sulla filologia delle parole bibliche, importanti perché esprimono realtà profonde. Figlio, ad esempio, deriva da una parola sanscrita che significa “allattare” e in latino significa “libertà”. Generare, insomma, è essere liberi. Il libro del Qhoelet (1,4), ad esempio, dice che una generazione se ne va e un’altra subentra su una terra eternamente ferma. L’autore biblico qui è acido: la terra assiste indifferente alla morte e alla nascita delle generazioni, teatro muto del nostro muoverci. Quando parliamo delle generazioni parliamo allora del tempo, della storia, di qualcosa che passa e scorre. Lo ricorda anche il Siracide, scritto nel II sec. A.C.: “Come foglie spuntate su albero verdeggiante l’una cade e l’altra sboccia, così sono le generazioni di carne e sangue. Una muore e l’altra nasce”. Il filo del tempo non si spegne mai e la storia delle generazioni, in ultima analisi, è la storia del nostro stesso limite.
Ma il fluire delle generazioni è anche teofania di Dio. La Bibbia non ci invita a decollare verso cieli mitici, un ambiente ineffabile, impalpabile… No, il Dio biblico ha deciso di svelarsi nelle storie umane ed è lì che occorre cercarlo. Gn 1,27 ha un parallelismo per cercare di rendere il concetto più incisivo: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a sua immagine lo creò, maschio e femmina li creò”. Dio, insomma, è maschio e femmina e l’immagine più vicina all’essenza di Dio è l’uomo e la donna che insieme generano e, come Dio, dal “nulla fanno essere il creato” attraverso un atto d’amore. Nella seconda parte delle sua meditazione Ravasi, facendo riferimento al capitolo 12 del libro dell’Esodo, ha ricordato che la pasqua ebraica narrata nell’Esodo rappresenta la sequenza delle generazioni, un memoriale da celebrare “di generazione in generazione”, un luogo, anzi “il” luogo privilegiato in cui i padri insegnano ai figli la storia della salvezza. Le generazioni sono allora come il seme dell’umanità credente, fosse pure, come capiterà spesso bella Bibbia, di generazioni adultere e infedeli, che non sanno conservare l’alleanza con Dio. L’aggadah, la narrazione della fuga dall’Egitto, è ancora oggi un intreccio di voci, di domande e risposte tra padri e figli. La giovane generazione chiede all’antica il significato del rito per poterlo poi narrare a sua volta alla generazione successiva. Il tema dell’educazione, insomma, si intreccia strettamente con quello della generazione. Lo stesso Concilio Vaticano II ha definito i genitori i primi maestri della fede. La generazione è dunque l’orizzonte fondamentale entro cui bisogna annunciare la fede. “Chi non ricorda non vive”, diceva il poeta Pasquali. Ed Elliott, ben 70 anni fa, commentava: “Noi stiamo dimenticando il nostro cristianesimo”.


Come il medioevo chi ha regalato gli ospedali

E’ ancora materia di dibattito se si possa dire che nell’antica Grecia e nell’antica Roma siano esistite istituzioni che somigliassero agli ospedali come li intende l’età moderna… Tutto fa pensare che sia stata la Chiesa ad aprire la strada alla fondazione di istituzioni fornite di medici che facessero diagnosi e prescrivessero rimedi, e dove fossero presenti anche mezzi di cura.” A tali conclusioni giunge lo storico americano Thomas E. Woods Jr. nel suo volume “Come la Chiesa cattolica ha costruito la civiltà occidentale”, tradotto e pubblicato in Italia da Cantagalli (Siena, 2007, pagg. 270). Secondo Woods già nel IV secolo la Chiesa iniziò a promuovere la costituzione di ospedali su larga scala, al punto che quasi ogni città principale si trovò ad averne uno. In origine questi ospedali offrivano ospitalità agli stranieri, ma all’occasione si prendevano cura dei malati, delle vedove, degli orfani e dei poveri in genere. Woods nel suo libro cita lo storico della medicina Fielding Garrison, il quale osserva che prima della nascita di Cristo l’atteggiamento degli uomini verso la malattia e le situazioni difficili della vita non era ispirato alla compassione: il merito di aver dato sollievo su vasta scala alla sofferenza umana è proprio del cristianesimo. Uomini e donne dei primi secoli (spesso annoverati fra i Santi che la Chiesa venera) istituirono centri di accoglienza assimilabili ai nostri ospedali; ma come al solito furono i monasteri a svolgere un ruolo importante nella cura dei malati. L’Autore ricorda che in seguito alla caduta dell’Impero romano i monasteri gradualmente diventarono luoghi in cui si offrivano cure mediche organizzate che per molti secoli in Europa non furono disponibili altrove. Per migliorare l’assistenza sanitaria e specialistica, tra il V e il X secolo i monasteri diventarono anche sedi di studio di dottrina medica. Oltre ai monasteri, nel corso del Medio Evo si distinsero per la cura degli ammalati anche i grandi ordini cavallereschi e militari impegnati nelle crociate. Uno di questi ordini, i Cavalieri di San Giovanni, non a caso noti come “gli Spedalieri” e più tardi divenuti Cavalieri di Malta, lasciarono un’impronta significativa nella storia degli ospedali europei. La loro sede principale fu fondata a Gerusalemme intorno al 1080 in funzione dei pellegrini poveri ed ammalati. Quando Gerusalemme fu riconquistata dai Crociati nel 1099, l’ospedale di San Giovanni grazie alle donazioni dei fedeli crebbe fino a diventare un centro di assistenza di prim’ordine. Lo stesso Goffredo di Buglione, appena entrato in Gerusalemme, volle visitare l’ ospedale e ne restò tanto edificato che fece ad essi copiose donazioni. I cronisti del tempo riferiscono che la struttura disponeva di un migliaio di letti per la degenza, ma molti di più erano i sofferenti e i poveri che vi potevano trovare cure ed accoglienza. L’articolo 16 di un codice che riguardava l’amministrazione dell’ospedale recitava: “Come i nostri signori ammalati dovrebbero essere ricevuti e serviti”…


Così Facebook scatena l’ormone dell’amore

Uno studio americano ha dimostrato come una breve navigazione online provoca nel nostro cervello scariche di ossitocina, la stessa sostanza che si attiva dopo un bacio appassionato. Il motivo? Lo spazio della realtà virtuale ci fa sentire meno soli. È chiamato «ormone dell’amore», sostanza naturale che, come la dopamina, aumenta nel nostro organismo in situazioni eccezionali: per esempio quando ci scambiamo delle effusioni, e l’autostima e il buon umore irrorano il nostro stato psicofisico. È anche l’ormone - l’ossitocina - che viene somministrato per indurre le contrazioni del parto, laddove sia necessario. E studi neuroscientifici recenti hanno scoperto che questa misteriosa particella presiederebbe a piccoli fenomeni di «telepatia», ovvero a intuizioni sorprendenti sul pensiero altrui, in quanto è l’ormone che meglio lavora sulle nostre funzioni cognitive, sull’apertura e la curiosità verso il prossimo.
La vera novità sull’ossitocina, però, riguarda i social network: o meglio, cosa succede, e come essa cresce nel nostro organismo, durante le nostre sortite su piattaforme virtuali come Facebook e Twitter. Uno studio della Claremont University, Stati Uniti, diretto dal Professor Paul J. Zack, ha messo in luce come questo ormone aumenti nel sangue dopo la fruizione dei network più popolari: analisi di laboratorio hanno dimostrato che il livello di ossitocina negli utenti di Facebook cresce addirittura del 13% dopo un breve viaggetto online. La stessa percentuale che si verifica - pare - dopo un lungo e appassionato bacio d’amore. Il che proverebbe che le interazioni su media come Facebook e Twitter accarezzano il senso di sé e ci fanno sentire confermati, coccolati, come se fossimo bocca a bocca col nostro essere umano preferito. La parola d’ordine su Facebook? «Condividi». Che è un altro modo per dire «rendi noto», che è un altro modo per dire «lasciati guardare». Un microcosmo, la nostra «bacheca», inserito nel perimetro illusorio delle «impostazioni sulla privacy» (cioè un altro modo per dire «discrezione personale: decidi tu quanto e da chi lasciarti guardare»), e che invita con un semplice click ad apprezzare, disprezzare con commenti più o meno argomentati, qualunque cosa ci attraversi la mente. La musica che ascoltiamo. Le nostre immagini: una galleria di foto sulla gita fuori porta più recente, o dell’ultimo sorriso che abbiamo dedicato a qualcuno, «condiviso», evidentemente, ma non abbastanza. Un sorriso da cui spesso abbiamo rimosso (photoshop permettendo) le piccole ombre che ci appesantivano l’espressione, la palpebra appena calante, l’incisivo non perfettamente smagliante, e soprattutto quelle zampe di gallina che sullo schermo ci pungono come spilli nell’occhio. Sì, perché sullo schermo è tutto più grande, più reale. O così ci piace pensare.
Cosa dire poi degli «status» sulle nostre piattaforme virtuali? «Status» è davvero la parola più ingombrante di questa lunga e variegata gamma. Su Facebook, lo «status» corrisponde a una manciata di righe che abbiamo a disposizione per esprimere i nostri grilli, le nostre sensazioni, una recensione delicata o sferzante di ciò che stiamo guardando in tv: o, certamente, un piccolo dardo infuocato e pubblico verso l’utente che ci ha fatto inalberare. «Status» quale riflesso - così vuole la parola - di «ciò che siamo», che si imprime nero su bianco in questa impalpabile folla di internauti. Di persone cui non piace pensarsi sole. Ecco cosa innalza del 13%, dice la Claremont University, il nostro livello di fiducia in noi stessi. La voglia di esprimerci: frequentemente in terza persona, come se avessimo il potere magico di astrarci da noi stessi per qualche istante. Fare di noi i protagonisti di una saga disimpegnata, di un reality nel quale, però, siamo sempre liberi di giocare un po’ a nascondino sguinzagliando quella sorta di «avatar»: alter ego virtuale e scremato, che flirta meglio di quanto non sappiamo fare noi. Che accresce in noi l’ormone dell’amore, ci raccontano oggi. L’ormone della telepatia. L’ormone, chissà, delle belle illusioni.



OGM. Di Rino Cammilleri

L’agenzia «Rassegna Stampa di Marina di Pisa» mi ha segnalato un articolo apparso su «Nuova Secondaria» del 15 marzo 2011 a firma di Piero Morandini, biologo accademico dell’Università di Milano. L’autore, dopo aver ricordato la frase di Einstein «è più facile rompere un atomo che un pregiudizio», sottolinea il fatto che «circa il 50% della popolazione mondiale vive per e del coltivare la terra». Ma ha il problema della bassa resa (produttività). Si può aumentare la superficie coltivabile, certo, ma non sempre è facile. E poi significa solo lavorare di più. «Molti altri fattori possono ovviamente contribuire (ad es. meccanizzazione, fertilizzanti, irrigazione) ma tutti questi soffrono di costi elevati e di minor sostenibilità rispetto ad approcci genetici dove è il vegetale piuttosto che l’ambiente ad essere cambiato». Un esempio clamoroso è dato dal cotone BT, contenente un proteina che è tossica per le larve degli insetti che danneggiano il cotone. In India il BT è stato adottato nel 2002. «In concomitanza con l’adozione si è verificato un raddoppio nella produzione» e una «riduzione nel consumo di pesticidi». Così, il risultato è stato «la trasformazione dell’India da paese importatore di cotone in paese esportatore ed un aumento di reddito per circa 6 milioni di agricoltori». C’è anche un cotone ogm che «renderebbe commestibile il seme permettendo così di soddisfare il fabbisogno proteico di mezzo miliardo di persone all’anno (…).
II cotone transgenico “commestibile” è stato pubblicato nel 2006, ma la stringente e costosa normativa ne impedisce la distribuzione perché l’università che l’ha sviluppata non ha le risorse economiche necessarie per richiedere l’approvazione». Purtroppo «i miti influenzano l’accettabilità da parte dell’opinione pubblica; questa a sua volta influenza la politica che raramente rischia un’assunzione di responsabilità contraria ad un’apparente volontà popolare». I miti «rendono invisa questa tecnologia alle giovani generazioni allontanandole dal perseguire gli studi superiori in questo settore: i corsi di laurea in biotecnologie vegetali in Italia soffrono da diversi anni di un numero ridotto di studenti».



Una bara e un testamento bastano a “sconfiggere” la morte? di Carlo Bellieni

“Se un giorno vedrai che la mia vita è dipendente da strumenti elettronici e che vado avanti a forza di liquidi, spegni le macchine e toglimi l’idratazione”. La moglie lo guardò bene, ci pensò un attimo, poi… gli spense la tv e gli tolse la birra.

Chi tanto parla di morte, o è un filosofo, o ne è davvero impaurito; e tanto parlare di eutanasia e affini forse non esprime altro che un tentativo di esorcizzare la morte. Infatti, sembra davvero impellente, ossessionante, fondamentale “decidere” come morire. Ma avete mai pensato che trovarsi nelle condizioni in cui certi giornali ci immaginano di qui a tot anni (incoscienti, attaccati a una macchina, forniti di idratazione e alimentazione meccaniche) è non raro, ma statisticamente impossibile, e che quindi, in sostanza, tanto clamore per nulla: non decidiamo proprio un bel niente (per fortuna)? Come ben spiega un libro di Cass R. Sunstein (Il potere della paura), consigliere economico di Barack Obama, quando inizia a serpeggiare grazie ai mass media il panico, un evento rarissimo diventa la prima e assoluta preoccupazione... L’idea della morte si sa solo esorcizzare: a Parigi ci si può far rinchiudere in una bara, per provare l’ebbrezza della sepoltura al Salon de la Mort, in cui si discute e si studia la morte, ovviamente senza trattare l’aspetto religioso (ci mancherebbe!), ma spiegando i veri problemi (cioè come lasciare un video messaggio per gli eredi). E si esorcizza la morte con l’esposizione “artistica” di cadaveri cinesi, portati in esposizione a Parigi, Dublino, ecc., come statue cerificate, sezionate e messe in plastici atteggiamenti. Il dibattito sul fine vita vuole esorcizzare la morte perché non ne capisce più il senso: non se ne deve parlare, deve arrivare subitanea e indolore, preferibilmente nel sonno (così si legge in tutte le interviste dei Vip sui giornaletti per teenagers). Non deve esistere. Ma siccome è per natura dotata di libertà e sorpresa, non si accetta se non trasformandola in qualcosa che io gestisco come mi pare, quando lo dico io, come lo dico io; proprio come la società occidentale ha fatto per i figli, altro esempio di libertà che ora non si sa più gestire (e infatti si fanno scomparire). Testamenti biologici, direttive, eutanasia, suicidi assistiti, per non guardare la morte in faccia; mentre è proprio dell’uomo e della donna voler assaporare e abbracciare la propria vita, di cui la morte è parte; non fuggirla. Invece, la cultura postmoderna ci vuole tutti angosciati e impauriti, al pensiero di medici folli che ci legheranno agli strumenti di terapia medica e da cui possiamo liberarci solo dichiarando di voler assolutamente, liberamente, improrogabilmente morire.



Non si ferma la "strage silenziosa" di bambine in India. Secondo The Lancet, ne mancano all'appello circa 12 milioni

La tradizionale preferenza per il figlio maschio continua a provocare una vera e propria ecatombe di bambine in India. Dai dati dell'ultimo censimento della popolazione indiana (2011) è emerso infatti che nella fascia d'età 0-6 anni ci sono nel Paese solo 914 bambine per ogni 1.000 maschietti, il rapporto più basso mai registrato dall'indipendenza nel 1947. In cifre assolute, il "deficit" di femminucce rispetto ai maschietti raggiunge oggi in questa fascia di età i 7,1 milioni. Nel censimento 2001 questo divario era di 6 milioni e in quello del 1991 di 4,2 milioni.
Mentre in tempi neppure tanto lontani il fenomeno dell'infanticidio o dell'abbandono di bambine era molto diffuso in alcuni Stati dell'India settentrionale ed occidentale, come il Gujarat, l'Haryana e il Rajastan, oggi prevale la pratica dell'aborto selettivo di feti di sesso femminile, un metodo forse meno clamoroso e senz'altro più silenzioso ma altrettanto efficace, anzi.
Lo conferma una nuova ricerca pubblicata martedì 24 maggio sull'autorevole rivista medica britannica The Lancet. In base a quanto emerso dallo studio, il fenomeno delle cosiddette "missing girls" - cioè le bambine "mancanti" o "sparite" perché già eliminate nel grembo materno a causa del loro sesso - è molto accentuato tra i secondogeniti di famiglie indiane a cui è nata già una femminuccia. Mentre non c'è una chiara preferenza per un maschietto nella prima gravidanza, la tendenza si profila nettamente in quelle successive. Quando si scopre che il nascituro sarà nuovamente di sesso femminile, la tentazione di ricorrere ad un aborto per eliminare il feto è davvero molto forte. Il ricorso all'aborto selettivo di figlie femmine aumenta soprattutto nelle famiglie benestanti e nelle donne con dieci o più anni di educazione. La "strage silenziosa" - questa è l'espressione usata dagli autori del rapporto - non solo è emblematica per lo status delle donne nella più grande democrazia del mondo ma anche per il livello di impunità di cui godono soprattutto le famiglie più ricche e una certa classe medica. La spiegazione per il continuo massacro di feti femminili è infatti semplice. Per le famiglie benestanti è molto facile pagare uno specialista disposto a violare la legge e ad effettuare nel suo studio privato un'ecografia per stabilire il sesso del nascituro. Una legge entrata in vigore il 1° gennaio 1996 - la "Pre-natal Diagnostic Techniques (Regulation and Prevention of Misuse) Act" - vieta infatti l'uso di macchine ad ultrasuoni per determinare il sesso del feto. Come sottolinea l'Independent (25 maggio), su circa 800 cause aperte contro medici in 17 Stati dell'Unione Indiana solo 55 si sono concluse con una condanna.



Fertilità sempre più in calo. Le conseguenze economiche dell’invecchiamento demografico

I bassi tassi di fertilità e l’invecchiamento della popolazione porteranno l’Europa di fronte a una grande sfida economica. È questa una delle affermazioni contenute in uno studio pubblicato dalla Commissione europea all’inizio di aprile. Secondo questo “Terzo rapporto demografico”, il numero di figli per donna è aumentato dagli 1,45 dei tempi dell’ultimo rapporto relativo al 2008, agli 1,6 del 2010. Ciò nonostante, si tratta di un valore sostanzialmente inferiore a quello di 2,1 figli che è necessario per mantenere stabile una popolazione. Al contempo è in aumento l’aspettativa di vita, che comporta un invecchiamento della popolazione. Già in 4 Paesi – Bulgaria, Lituania, Lettonia e Romania – la popolazione è in diminuzione, sia perché muoiono più persone di quelle che nascono, sia per un fenomeno di emigrazione. Il rapporto osserva inoltre che l’età media delle donne al momento del primo figlio è aumentata significativamente nel corso degli ultimi tre decenni. Il dato più elevato, relativo al 2009, riguarda l’Irlanda, pari a 31,2 anni. Subito dopo figura l’Italia a 31,1, mentre il valore più basso è registrato in Bulgaria a 26,6 e in Romania a 26,9. In 13 dei 27 Stati membri dell’UE, le donne tendono ad avere figli dopo aver superato i 30 anni di età. Anche negli Stati Uniti il tasso di natalità è crollato nel periodo 2007-2009, secondo i dati pubblicati a marzo dal Centers for Disease Control (CDC). Dal 2007 a tutto il 2009, le nascite sono diminuite del 4%, attestandosi a 4.131.019; e i dati provvisori che coprono fino a giugno 2010 risultano in linea con tale tendenza alla diminuzione, aggiunge il rapporto. La media dei figli per donna, nel 2009, è stato di 2,01, ovvero il dato più basso sin dal 1998. Con questo calo delle nascite negli Stati Uniti, il tasso complessivo di fertilità si attesta ora al di sotto del livello di sostituzione di 2,1 nascite per donna. In seguito alla pubblicazione dell’ultimo censimento, la Cina si trova ora di fronte alla questione di dover rivedere la sua politica familiare del figlio unico.
La popolazione è arrivata a 1,34 miliardi nel 2010, rispetto agli 1,27 miliardi del 2000, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal il 29 aprile. La crescita annuale media nell’ultimo decennio è stata dello 0,57%: un rallentamento significativo rispetto all’1,07% del decennio precedente. I dati statistici hanno anche confermato la tendenza verso un rapido invecchiamento della popolazione. Gli ultra-sessantenni costituiscono il 13,3% della popolazione cinese, mentre nel 2000 erano il 10,3%. Intanto i bambini minori di 14 anni rappresentano il 16,6% della popolazione, con una brusca riduzione rispetto al 23% del decennio precedente.
In un altro articolo concernente i dati del censimento, il Wall Street Journal ha preso in esame lo squilibrio di genere provocato dalla preferenza per i figli maschi. La popolazione maschile costituisce oggi il 51,3% del totale, in lieve diminuzione rispetto al 51,6% del 2000.
Nonostante questo miglioramento – osserva l’articolo – esistono ancora 34 milioni di uomini “in più”, che non sono pochi. Questo è il risultato degli aborti selettivi, facilitati dall’uso dell’ecografia. Inoltre, le femmine indesiderate sono spesso abbandonate o date in adozione. La Cina potrebbe diventare vecchia prima di diventare ricca, ha avvertito il titolo di un servizio, relativo al censimento, pubblicato dal quotidiano Guardian del 28 aprile. Mentre il bacino dei nuovi lavoratori si restringe, la Cina potrebbe non avere più tempo per riconvertire le sue imprese verso metodi meno basati sulla manodopera e con maggiore valore aggiunto.



Usa, la decisione choc di una madre estetista Botox alla figlia di 7 anni: "Diventerai una star"

Iniezioni di botulino sulle labbra e sopracciglia tatuate. La donna ha acquistato l'occorrente su internet e si è trasformata nel Frankenstein di sua figlia Bree, raccontandolo al Sun: "Sfonderà grazie alle sue super-labbra e alla sua pelle morbida e senza rughe". La bimba se la prende con le sue compagne di scuola: Sono solo stupide e gelose". "Tutte le attrici e le celebrità del futuro iniziano adesso e Bree sfonderà grazie alle sue super-labbra e alla sua pelle morbida e senza rughe. Lei è la mia bambina e questa è la mia decisione - prosegue Sharon - tutto ciò l’aiuterà e cambierà il corso della sua via. Oltretutto, risparmierà anche tanto denaro in futuro per cosmetici e trattamenti estetici" ha raccontato la donna spiegando di aver acquistato il Botox online.



GB: Maschio o femmina? Ti blocco la pubertà. Iniezioni mensili ai ragazzini di 12 anni per bloccare la pubertà

In Gran Bretagna una clinica del servizio sanitario nazionale è stata autorizzata a somministrarle a ragazzini confusi sulla loro identità sessuale, di modo che possano fare una scelta oculata prima che nel loro organismo compaiano tratti spiccatamente maschili o femminili. La decisione del National Research Ethics Service di dare luce verde alla terapia presso l'unico centro del Regno specializzato nella cura dei "disordini" di identità di genere è stata presa nei giorni scorsi e oggi ne dà notizia il Daily Telegraph. Hai una figlia adolescente, che detesta i maschi perché si lavano poco, parlano solo di calcio e invece ha una spiccata preferenza per la sua amica del cuore, con cui parla fitto fitto, a volte la chiama persino “amooooore” con quella voce stridula che a volte ti irrita? Oppure, hai un figlio adolescente, che preferisce giocare con gli amici a pallone, passare le sere al computer e detesta le ragazze che parlano solo di moda e di trucco, e ridono alle spalle dei ragazzi? Magari pensi sia normale per degli adolescenti. A pensarci bene eri così anche tu, poi invece hai incontrato una lei che ti ha fatto vedere il mondo con altri occhi, e tutto di lei ti sembrava bello, anche passare delle ore a guardare le vetrine dei negozi, hai scoperto la bellezza della differenza, hai visto che quella ragazza non era solo trucco e tacchi, ma capace di guardare al futuro, fare progetti, completarti. Caro padre, sappi che in Inghilterra a questi adolescenti normali avrebbero bloccato la pubertà. Ma come si fa a mettere sulle spalle di un adolescente confuso il peso di decidere di cambiare sesso? Che razza di adulti siamo? Temo che nella nostra società non siano gli adolescenti ad essere confusi, ma i loro padri, i loro maestri, gli adulti che dovrebbero essere per i giovani la roccia con cui confrontarsi e che invece, incapaci di guardare alle cose per come sono temporeggiano, chiamano libertà persino la scelta di cambiare genere, temono le differenze perché sono i primi a non capirne la ricchezza, e credono che l’insoddisfazione, sia una confusione di genere e non il desiderio del cuore di trovare risposte alle proprie domande.


La New Age si insinua inconsciamente nella vita dei giovani

Sebbene, come dice il rapporto della Fundación Santa María, “Dio è il grande assente nelle famiglie spagnole, in un momento segnato da stili di vita consumistici e edonistici, incentrati nel piacere”, nella vita dei giovani si insinua inconsciamente, come un grande fiume che scorre attraverso molti canali, la New Age, che si presenta come una tipica forma di sensibilità religiosa contemporanea, come una nuova religiosità. Sebbene, come dice il rapporto della Fundación Santa María, “Dio è il grande assente nelle famiglie spagnole, in un momento segnato da stili di vita consumistici e edonistici, incentrati nel piacere”, nella vita dei giovani si insinua inconsciamente, come un grande fiume che scorre attraverso molti canali, la New Age, che si presenta come una tipica forma di sensibilità religiosa contemporanea, come una nuova religiosità. Il grande movimento che si cela oggi sotto la New Age è formato dal Movimento del potenziale umano (MPU) e dalla Psicologia transpersonale, che può condurre a esperienze di carattere irreale, assurdo, fantastico o semplicemente fraudolento. Questo mondo dell’occulto e del soprannaturale a buon mercato sta diventando l’ultima moda della religiosità attuale.
Come orizzonte troviamo nuovamente un’inaspettata fiducia nella condizione umana, nel potenziale della mente e nelle enormi possibilità di autorealizzazione che invitano la persona a trascendere il suo io individuale e a incontrare dimensioni mistiche nell’inconscio. Age è sintomo di una cultura in profonda crisi ed è al contempo una risposta sbagliata a tale crisi. Senza testi sacri e senza un vertice, la New Age appare come un mare senza fondo, in cui ognuno naviga a proprio modo, combinando lo spiritismo con l’astrologia, le tecniche alternative di meditazione e di terapia con un ottimismo sull’universo, poiché la materia appare come una grande vibrazione energetica spirituale che trasforma tutto, che collega tutto inconsciamente e che dirige tutto verso un fine più alto e sublime.


L'ergastolano albanese trova il Cielo in una cella. Di A. Socci

Un albero che cade - com'è noto - fa più rumore di una foresta che cresce. I telegiornali sono pieni di alberi che cadono: lotte di potere, una serie infinita di omicidi, gli scandali sessuali, le guerre. Ne viene fuori ogni giorno una rappresentazione mostruosa della realtà. Una desertificazione umana dove sembra non ci sia più speranza. I media sono una fabbrica gigante di angoscia. Eppure c'è anche altro. C'è molto altro. C'è l'eroismo quotidiano della gente semplice, di tantissimi padri e di madri, c'è la grandezza di persone che portano amore e speranza, ci sono vite che cambiano e che - magari dall'abisso - ritrovano significato e verità, uomini che rinascono, il Male che batte in ritirata. È la storia di Bledar, un albanese di 37 anni, detenuto nel carcere "Due Palazzi" di Padova dove sta scontando addirittura l'ergastolo. Con un tale gravame sulle spalle - "fine pena mai" - questo giovane uomo deve avere un passato molto cupo, segnato da tragici errori e - secondo il giudizio umano - dovrebbe essere disperato e incattivito. Invece ha incontrato la salvezza in carcere ed è rinato. Un uomo nuovo che da sabato scorso si chiama Giovanni, come il discepolo a cui Gesù voleva più bene. Infatti Bledar-Giovanni, che viene dal Paese dove il comunista Hoxa aveva imposto l'ateismo di stato obbligatorio, cancellando Dio con la tirannia più cupa e sanguinaria d'Europa, ha scoperto Gesù e il cristianesimo, ha chiesto il battesimo e - dopo un percorso di catecumenato - sabato scorso, 14 maggio, nella commozione generale, ha ricevuto dal vescovo di Padova il battesimo e i sacramenti della Comunione e della Cresima. Ora Giovanni è un altro uomo, destinato a un futuro (e già anche un presente) divino "infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio" (S. Atanasio). Entrare a far parte della Chiesa non è una questione associativa come prendere la tessera di un club o di un partito, ma è un cambiamento ontologico, cambia cioè la natura stessa dell'uomo che viene liberato dalla signoria di satana e diventa "figlio di Dio", parte del Corpo vivo di Cristo. Ogni battezzato in quanto "figlio" acquista i titoli di "re, sacerdote e profeta". I sacramenti agiscono in profondità (come mostrano i bellissimi romanzi di Graham Greene) e sono la più grande potenza attiva nella storia, perché sono il segno fisico della potenza invincibile di Cristo. Cambiando il cuore umano cambiano la storia. Infatti la vicenda di Bledar-Giovanni non è affatto isolata. I casi simili sono ormai tantissimi. Ieri "Avvenire", dandone notizia, riferiva che il giovane albanese aveva come padrino di battesimo un italiano, Franco, che anch'esso sta scontando in carcere l'ergastolo. Inoltre quella cronaca dell'evento ci dice che altri due detenuti, Umberto e Ludovico, hanno ricevuto i sacramenti della Cresima e della Prima Comunione. "Avvenire" accenna anche alla storia del ventottenne cinese Wu, che ha scontato sempre al carcere di Padova una pena per omicidio e ora - tornato in libertà - ha chiesto il battesimo, l'ha ricevuto nella notte di Pasqua prendendo il nome di Andrea e - durante la recente visita del Papa a Venezia - con immensa emozione ha ricevuto la Comunione dalle sue mani. «Non si può descrivere la gioia di questo momento» ha detto Bledar-Giovanni. «Per me Gesù è amore, è tutto. E grazie a quanti mi hanno accompagnato, una grande famiglia». È straordinario vedere che l'amicizia di Gesù può portare la felicità perfino nella vita di un giovane che è chiuso in una galera e che - presumibilmente - dovrà consumare il meglio della sua esistenza fra quelle quattro mura, dietro le sbarre. È questo il cielo in una stanza. La madre di Giovanni, venuta dall'Albania per il battesimo del figlio, con i lucciconi agli occhi, ha ringraziato per la festa e ha detto: «Sono felice che mio figlio, dopo tante brutte avventure, abbia potuto incontrare Dio». Infatti sono vite che erano perdute e che il Buon Pastore è andato a cercare e che si è caricato sulle spalle, sono esistenze che il mondo giudicava maledette e che Dio ha benedetto e fatto rifiorire. Dietrich Bonhoeffer, un grande cristiano ucciso in un lager nazista, scriveva: "Dio non si vergogna della bassezza dell'uomo, vi entra dentro, sceglie una creatura umana come suo strumento e compie meraviglie li dove uno meno se le aspetta. Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l'insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono ‘perduto', li Egli dice 'salvato'; dove gli uomini dicono 'no!', lì Egli dice 'sì'! Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì Egli posa il Suo sguardo pieno di un amore ardente e incomparabile. (...). Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, lì Egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il Suo approssimarsi, affinchè comprendiamo il miracolo del Suo amore, della Sua vicinanza e della Sua Grazia". Nulla è di ostacolo per lui: non certo i peccati e nemmeno i crimini. Solo l'orgoglio dell'intellettuale, la strafottenza del peccatore impenitente e la presunzione ipocrita del moralista gli legano le mani. Al contrario i peccati, le cadute umilianti, la vergogna rendono più appassionata la sua Misericordia. Così accade che le ferite della vita siano spesso le feritoie attraverso le quali lui raggiunge il cuore e resuscita una creatura. La tradizione cristiana ha sempre saputo che "dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia". Perché così Dio mostra che nulla a lui è impossibile. E mostra che gli uomini si salvano per la sua misericordia paterna e non per la loro presunzione. Si salvano attraverso la propria debolezza e non per la loro forza. Anzi, sono le loro presunte capacità a fregarli. È la loro presunta giustizia. Un altro grande convertìto, Charles Péguy, diceva che nulla rende impermeabili alla grazia come "la morale", o meglio la pretesa moralità di coloro che si sentono "perbene" e che - come gli scribi e i farisei - giudicano e condannano gli altri. A costoro Gesù diceva: "i peccatori e le prostitute vi stanno passando avanti nel Regno dei Cieli". Quelli che si ritengono giusti o quelli che si rotolano soddisfatti nel loro peccato, pretendono di autoassolversi e di non aver bisogno della misericordia di Dio, si perdono. Non hanno ferite della vita e non hanno peccati (o meglio li hanno, ma ben nascosti o non confessati, non brucianti) e così Dio non può raggiungerli nel loro intimo pianto, nel grido del loro cuore. Vedendo la storia di questi carcerati si resta impressionati dalla facilità con cui Dio salva i cuori umili (perché umiliati). E così un ergastolano albanese può dire di aver trovato quel Dio e quella felicità che tanti intellettuali pieni di sé e intristiti dicono di cercare e non trovare. Perché non lui ha trovato la Verità, ma è stato trovato dalla Verità fatta carne. E ben volentieri lui si è lasciato trovare, confortare e abbracciare. Iniziando una vita nuova.

Dal Canada una notizia sconvolgente. L’abisso dell’odio egualitario

Due genitori canadesi, dai nomi propri normali, hanno chiamato i loro due figli Jazz e Kio, e questo non per seguire le attuali mode folli (attori e vip di ogni sorta) di dare nomi idioti ai propri figli, ma per una ragione ben più profonda e ideologica: i loro bambini non devono avere nomi maschili e femminili, in quanto questa – quella del maschio e della femmina, dell’uomo e della donna – è l’ultima grande barriera da abbattere nel cammino dell’umanità verso l’uguaglianza assoluta. Faccio presente che qui siamo ben oltre le solite idiozie femministiche contro la disuguaglianza sessuale intesa in senso “classico”, cioè contro il cosiddetto maschilismo. Qui si tratta di un salto qualitativo impressionante: il problema non è quello di rimediare alla disaguaglianza fra uomo e donna nelle sue plurime espressioni religiose, culturali e sociali, ma quello di distruggere la disuguaglianza fra uomo e donna tout court, nel senso che non devono più esistere né uomo né donna, ma un solo unico sesso, senza più distinzioni di alcun genere, a partire dal nome (e giù a scendere, per arrivare ai vestiti, al cibo, ai giochi, ecc.). È il mito dell’androgino, ripreso dalle sette massoniche più radicali e riproposto “qua e là” dai movimenti più esoterici e sovversivi della (post)modernità. Se qualcuno pensa che stiamo esagerando, la riprova viene dalla ulteriore scelta dei due meravigliosi genitori: alla notizia dell’arrivo di un terzo figlio, hanno deciso che mai, in alcun modo, di costui si dovrà conoscere il sesso (nemmeno lui, il nascituro, dovrà conoscere il fatto che ha un sesso differente da quello di circa l’altra metà dell’umanità). Tutto sarà fatto in modo (non ci chiedete come…) tale che, durante la sua crescita egli, e tutti coloro con cui verrà in contatto, mai potranno capire il suo sesso vero. Solo gli ingenui e i superficiali possono sorridere di questo fatto, possono presentarlo come un’astrusità di due originali bontemponi. I due genitori non sono affatto dei bontemponi o degli originali. Sono in realtà due coerentissimi e radicali sostenitori delle ultime conseguenze del processo ugualitarista rivoluzionario e anarchico. L’egualitarismo assoluto è il senso, la molla e il fine stesso, del processo rivoluzionario sovversivo che da secoli sta trasformando la società occidentale, quella che un tempo era la civiltà cristiana. L’egualitarismo economico, quello tipico del socialismo prima e del marxismo poi, è solo il primo stadio: se ci si pensa bene, nessuno può realmente credere che l’infelicità degli uomini dipenda solo da fattori economici di disuguaglianza e ingiustizia. Già Rousseau ci avvisava che il vero egualitarismo non è tanto quello economico, ma soprattutto e anzitutto quello politico (e infatti propone l’utopia totalitaria della volontà generale come soluzione); uno dei punti più deboli della struttura rivoluzionaria marxista è quello di pensare che si arriverà alla fine dei contrasti fra gli uomini (e quindi alla fine della necessità dello Stato e alla realizzazione dell’anarchia e della felicità comune) abolendo la proprietà privata e ogni forma di differenza economico-sociale. Marx e seguaci dimenticano che le prime e più immediate ragioni di “invidia” sociale non sono quelle economiche, sono quelle fisiche (chi è bello e chi è brutto, chi è sano e atletico e chi invece è malato o debole, chi è intelligente e chi meno e chi è stupido, ecc.), e quelle fisiche non possono essere eliminate in alcun modo (che facciamo, sfregiamo i belli, tagliamo le gambe agli alti, facciamo ammalare i sani?). Non si pensi che stiamo esagerando: solo per fare due esempi, durante la Rivoluzione Francese, il giacobino “arrabbiato” Hebert propose seriamente alla Convenzione di abbattere tutti i campanili di Francia, perché, svettando con la loro altezza, erano contrari al principio di uguaglianza… E, ben più drammaticamente, Pol Pot in Cambogia arrivò a uccidere, nella sua follia criminale, chi portava gli occhiali, per il solo fatto che il portare gli occhiali era dimostrazione di sapere leggere e quindi di essere contro il principio dell’uguaglianza assoluta. È una tipica ingenua disfunzione marxista quella di ridurre i problemi dell’uomo al suo stomaco insoddisfatto. I veri rivoluzionari, le menti della sovversione anarchica dell’umanità, sanno bene che l’uomo non si può ridurre a uno stomaco e che l’uguaglianza economica è il preambolo necessario ma pienamente transitorio del radicale processo di ugualitarismo universale. E infatti, negli ultimi 200 anni, e in particolare nel Novecento, le teorie egualitarie sono andate ben oltre il banale economicismo marxista, portando avanti le più radicali teorie della massoneria più esoterica: quella della distruzione definitiva di ogni pur lieve forma di differenziazione in ogni ambito dell’uomo e dell’universo. Niente più differenza di religioni (un “credo” universale di chiara marca ecumenistico-newagista, ottimistico e salutista per tutti); niente più differenza di razze (il famoso “melting-pot”, oggi sostenuto facilmente dall’immigrazionismo di massa: il termine stesso di “razza” ormai suona in maniera negativa, come se le razze, come qualsiasi altra cosa e diversità di questo mondo, non le avesse create Dio stesso); niente più Stati e patrie (la repubblica universale, mito portante della massoneria illuminista); niente più diifferenze di classe, differenze organiche societarie, differenze all’interno delle istituzioni, all’interno della famiglia. Soprattutto, dopo il ’68 e con l’affermazione dell’ideologia ecologista e animalista, si è giunti a teorizzare l’egualitarismo non solo fra tutti gli uomini, ma anche fra i generi (uomini e animali: si parte con i diritti degli animali per arrivare, un giorno, alla perfetta identificazione dell’animale con l’uomo; uomini, animali e piante: l’ecologismo estremo di un Peter Singer, ideologo di grido dell’egualitarismo dei vegetali con gli animali e con gli uomini, fautore quindi del divieto non solo di mangiare animali, ma anche i vegetali…). Queste non sono mie fantasie, esistono libri, discorsi pubblici, atti di convegni, manifesti politici, che dimostrano l’esistenza di tali progetti politici finalizzati alla creazione di un mondo totalmente egualitario. Il discorso è lunghissimo e di una gravità devastante, come chiunque può capire. Ma ora forse, già con queste poche note, può apparire più chiaro il senso della follia ideologica dei nostri due genitori canadesi: essi, tutt’altro che svampiti bontemponi, sono dei lucidissimi rivoluzionari, che stanno tentando, pionieri della più profonda di tutte le sovversioni, di realizzare l’utopia della distruzione della prima e più indistruttibile di tutte le differenze: quella sessuale («Maschio e femmina li creò»... Genesi, 1,27). Come detto, non si tratta di femminismo, neanche più di omosessualismo; nemmeno di “genderismo” (la teoria del “gender”, per cui esistono 5, 10, l’ultima che ho sentito, 25, sessi…). È il contrario: non esiste sesso. È l’urlo finale e più pazzesco della ribellione contro l’ordine del creato. Il loro terzo figlio non deve conoscere il suo sesso. Questo va oltre il “sessismo”. È il “non serviam” della bioetica. E poco importa che sia impossibile da attuare. Il presuposto di ogni utopismo ideologico è proprio il superamento dell’ovvio evidente problema della impossibilità di quanto si predica giusto. Quando chiesero a J.J. Rousseau se egli veramente pensasse che fosse esistito uno “stato di natura” in cui l’uomo, senza peccato originale e quindi naturalmente buono, fosse vissuto felice, egli rispose semplicemente: “non mi interessa se vi sia mai stato nella realtà. Dico solo che questo è ciò che sarebbe giusto essere stato”. E quando gli fecero notare che la sua volontà generale (tutti d’accordo su tutto in ogni cosa) è semplicemente impossibile, a meno che non si cada in una spaventosa dittatura che tutti obbliga a un pensiero unico generale, egli rispose che ciò non gli interessava, l’importante era che lo si pensasse giusto e attuabile. È l’utopismo totalitario su cui si fonda ogni futuro radicale sovvertimento dell’ordine del creato. Non importa come si farà a far sì che quel bambino non si accorga che esistono due sessi. Importa che qualcuno inizi a pensare che ciò sia giusto e possibile. Tutto il resto, poi, verrà da sé con il tempo. L’uomo, infatti, si abitua a tutto. E purtroppo, i nostri giorni, ne sono la più tragica ed evidente dimostrazione. Dai diritti dell’uomo si è passati, per il verso verticale, ai diritti degli animali e delle piante, e, per quello orizzontale, ai diritti della donna (vale a dire, a “diritti” della donna nei confronti del marito e dei figli stessi = aborto); dai diritti della donna ai diritti dell’omosessuale (“matrimonio”, adozione dei bambini, diritto alla casa, ecc.); dai diritti degli omosessuali ai diritti di “gender” (ogni disfunzione e deviazione sessuale ha i suoi diritti); ora ai diritti di non avere sesso, cioè non solo di modificare il piano divino del creato, ma di negarlo in radice. Lo scopo concreto di tutto questo? È, come detto, dinanzi ai nostri occhi: è un cammino graduale, secolare, ma inesorabile, ove ognuno (rivoluzionari di professione, suffraggette, circoli omosessualisti, tranasessualisti, coppia canadese, ecc.) fa la sua parte al momento opportuno. E, prima o poi, si trova anche una ministra che si batte per questi diritti… e magari pure in un governo di centro-destra. E nessuno fa nulla. Ecco il senso di tutto questo. E noi, possiamo continuare a rimanere spettatori inerti?


Senza sesso E’ un maschio o è una femmina? Il massimo del politicamente corretto è tenerlo segreto. di Annalena Benini

Il bambino ha quattro mesi e si chiama Storm. Canadese biondo con gli occhi azzurri, nelle foto con la tutina rossa sembra avere la faccia da maschietto, ma i suoi genitori hanno deciso di non farglielo sapere e di non dirlo a nessuno (a parte gli altri due figli, l’ostetrica che l’ha fatto nascere e un amico di famiglia, tutti vincolati alla riservatezza). Il sesso non è importante e anzi è una convenzione potenzialmente dannosa, quindi è meglio che resti un segreto, un dettaglio che non deve condizionare la vita, una scelta futura (scegliere il liceo, scegliere se essere un uomo o una donna).

“Se vuoi davvero conoscere qualcuno, non chiedi cosa c’è fra le sue gambe”, dice suo padre, insegnante in una scuola alternativa, e “nel non rivelare il genere del mio prezioso bambino, io dico al mondo: per favore lasciate che Storm scopra da solo, o da sola, quel che vuole essere”, ha scritto la madre al quotidiano di Toronto. Lo cresceranno come un bambino neutro e lo vestiranno con i colori che preferisce. E’ già accaduto, ma senza arrivare al gesto estremo di nascondere il sesso, con gli altri due figli: il più grande, Jazz, maschio riconosciuto, ha le trecce e le gonnelline rosa (ironico omaggio agli stereotipi sociali che i genitori rifiutano). Non vogliono che i bambini si sentano condizionati da una sovrastruttura (rosa, azzurro, bambole, soldatini, mollettine, fucili) e sono certi di regalare libertà, progresso e buon esempio, possibilità di autodeterminarsi.

A parte che la dannazione di moltissime madri che imbacuccano la propria bambina in cuffiette rosa, carrozzine rosa, copertine rosa piene di cuori, è sentirsi dire dalla solita vicina di casa: “Ma che ometto forzuto” (succede sempre anche il contrario, è ineluttabile: se si mettesse un’insegna luminosa con freccia e la scritta: “Boy” o “Girl”, qualche ficcanaso distratto direbbe comunque che vostro figlio, vestito per l’occasione da gladiatore, è proprio una deliziosa bambina), il genderless è un ottimo modo per crescere un perfetto bambino nevrotico: oltre alla responsabilità precoce di scegliere quale sport fare, quale lingua studiare, quale genitore preferire, quale hobby coltivare, quale religione o non religione adottare, dovrà anche decidere che sesso avere. A questo punto, perché imporgli, con gesto autoritario, un nome, quando potrebbe consapevolmente deciderlo da sé, perché non chiamarlo fino ad allora “essere umano di piccole dimensioni” o “neutra occasione di vita”?

C’è tutto il tempo per ribellarsi a qualunque cosa, ma dire: è un maschio o: è una bambina, è una naturale certezza di cui essere semplicemente contenti, non un manifesto politico. Mia figlia dice che preferirebbe chiamarsi Coccinellina e vorrebbe che suo fratello di due anni fosse una femmina, quindi lo riempie di collane e cerchietti: ieri l’ha vestito da principessa e lui era molto felice. Una madre libertaria non interviene, per rispetto dell’autodeterminazione. Non sono intervenuta. Poi lui, vestito da principessa, ha imbracciato un camion e ha calciato maldestramente un pallone urlando “gol”: entrambe l’abbiamo guardato schifate. “Sei proprio un maschio”, lei gli ha detto, indispettita dal sopravvento della natura sull’abito rosa. Lui allora le ha sputato in un occhio, confermando l’accusa.