Io insisto sulla frase: «La domanda di Cristo», perché è la domanda del Destino.
Perché uno vuole mangiare, perché uno vuole la ragazza, perché uno vuole i figli, perché uno vuole andare a lavorare? Perché vuole il suo destino, poiché tutto è cammino al destino, alla felicità. E perciò vive la domanda di Cristo dentro i problemi dell’esistenza, chiede che Cristo diventi giudizio sull’esistenza, criterio nell’affrontare le cose. Mentre, come si è detto prima, per noi tante volte, cioè normalmente, il fatto di Cristo va bene – andiamo in chiesa, partecipiamo al movimento –, ma poi, quando arriviamo alle cose, interpretiamo noi.
Noi scivoliamo o sulla nostra interpretazione o su una ospitalità sentimentale al fatto di Cristo.
Prendiamo per esempio il rapporto tra ragazzo e ragazza: la domanda di Cristo dentro il problema affettivo è chiaro che non ti permette la tua interpretazione, è chiaro che non può rimanere in una nicchia di sentimentalità; ti determina il perché e il come del rapporto e, se questo “perché” non è recepito e questo “come” non è rispettato, non è amore, sei impostore, non è vero. Pensate a quando avrete un figlio, due figli, tre figli e andrete a lavorare. Nello stabilimento – mettiamo di essere alla FIAT –, i sindacati indicono uno sciopero (che, spesso, è l’arma per ottenere, non quello che i lavoratori desiderano, ma quello che i capi, menandoli per il naso, desiderano). Siccome hanno già fatto lo sciopero due giorni prima, quattro giorni prima, sette giorni prima,
perciò lo stipendio va indietro, nel giudicare se è opportuno quello sciopero o no, sarà impossibile per voi non essere determinati dal fatto di vostra moglie e dei vostri tre figli. Non potrà non c’entrare questo avvenimento nella determinazione del vostro giudizio sullo sciopero. Certo, se poi chi non sciopera viene fatto fuori, così che vostra moglie resta vedova e i figli orfani, allora farete lo sciopero. Ma anche questo sarà un modo per applicare l’anzidetto criterio.
Il problema culturale nostro nasce così.
Insomma, quando i primi anni i ragazzi, nelle ore di religione, non facevano altro che chiedere di leggere L’Annuncio a Maria di Paul Claudel e, qualche anno dopo, il Miguel Mañara di Milosz – chissà quante volte ho letto e spiegato questi testi –, non era che una esplosione più chiara di una Presenza, che determinava anche la lettura di Dante Alighieri e di Leopardi. Era la coscienza di un avvenimento, di un fatto, che determinava quella lettura, come la lettura de Il pensiero dominante o dell’inno Alla sua donna di Leopardi.
E se avessi fatto, invece che certe materie, fisica o scienze, sarebbe stata la coscienza di quell’avvenimento che certamente avrebbe dato aspetti di vibrazione più umana all’insegnamento – certamente! – e mi avrebbe fatto ripetere in modo più critico certe posizioni (per esempio il darwinismo, che è stato considerato un dogma, ma, man mano che il tempo passa, si vede che non è sicuro). E l’interpretazione positivista dell’evoluzione dell’uomo, dal punto di vista morale e religioso, etico-religioso, e perciò del pensiero (per cui, quanto più l’uomo è primitivo, tanto più è un bamba, un cretino), per un secolo è stata presa come un dogma di fede. Invece, quanto più gli studi sono andati avanti, tanto più un’ipotesi contraria è emersa. Allora, è la coscienza di un avvenimento che mi rende più sensibile e più capace di attenzione e di scaltrezza nell’impostare le questioni, nell’identificare delle ipotesi, in tutto.
Ma lasciamo andare questo.
Il punto è la domanda di Cristo dentro i problemi dell’esistenza; non il fatto di Cristo come un a lato, parallelo, così che poi il modo di affrontare le cose peschi i suoi criteri nella radice d’una mia interpretazione o rimanga come riverbero sentimentale. Il problema culturale nasce come il fatto di Cristo che diventa l’orizzonte totale del giudizio su tutto (san Paolo).
San Tommaso ha una bellissima immagine: «Se io sapessi che c’è un libro dove è contenuto tutto il vero, io abbandonerei tutto il resto e leggerei questo libro. Questo libro è Cristo».
Ricordando l’aspetto negativo da cui ha preso le mosse – «lavoriamo con il coltello tra i denti», con uno sforzo che è «generato da una volontà di riuscita» –, uno di voi ha concluso che questo «ci ha lasciato sempre e ci lascia insoddisfatti»; e io aggiungevo: lascia insoddisfatti «come ogni volontarismo».
Perché la vita morale della stragrande maggioranza dei cristiani è insoddisfacente? Forse perché sbagliano? Macché! È perché è tutta concepita come una lotta della propria volontà con la legge, come l’applicazione del proprio energumenismo spirituale, che, dopo poco tempo, su cento dura in uno, e quello sarebbe meglio che sbagliasse, perché diventa un fariseo.
Così, diceva giustamente il nostro amico, in questo lavorio, in questo lavoro per riuscire, col coltello fra i denti, meno male che a un certo punto ci sono «gli spazi privati», l’affezione alla ragazza, il cinema, l’andare via, l’andare in montagna, magari lo studio. Gli spazi privati, liberi, sono il «finalmente»: finalmente uno ha delle cose sue.
È terribile questa divisione, che è generale. Allora succede che cinque ragazzi vanno in montagna a Natale, con una matricola ben educata, la quale torna a casa tutta demoralizzata perché hanno passato cinque giorni stando su fino alle tre, alle quattro di notte, senza nessun ordine, gozzovigliando, senza criterio. Ma il bello viene adesso. Il ragazzo novellino, alla fine dei cinque giorni, dice agli altri: «Non mi sono piaciuti questi giorni, perché non è giusto vivere, sprecare cinque giorni così». E si sente rispondere: «Ma non è mica una vacanza del CLU!».
Io non ho mai sentito un caso così “tipico” di divisione della persona.
Invece, come diceva ancora il nostro amico, riprendendo l’idea di memoria, «l’energia deve essere non ripiegata in se stessa», su se stessa, per ottenere quello che vuole, ma «deve essere rivolta ad altro». Uno, con la faccia tutta tesa a se stesso, con la faccia curva su di sé, si stanca; invece se alza la testa e guarda qualcosa d’altro, respira: si chiama «amore» questo respiro. E «non ci sono più spazi liberi, perché tutto è libertà, perché si vuole una cosa sola», Colui che è il proprio destino, l’avvenimento che è il proprio destino, che è il destino del mondo.
Volevo dire che, se Cristo è risorto, l’aspetto da scoprire è cos’è la preghiera, la memoria, da cui scaturisce tutto lo spring, tutto l’impeto del problema culturale e in cui si afferma un cuore diverso, vale a dire una libertà della vita. Perché la libertà della vita è nell’affermare l’Altro, qualcosa d’altro: noi siamo nati, eravamo niente, siamo stati fatti, l’essenza della nostra esistenza è affermare qualcosa d’altro, tanto è vero che la cosa più bella, il segno più bello del Destino è l’amore. La libertà: questo dovrebbe definire i nostri rapporti. L’attenzione ai compagni è un aspetto dell’attenzione che porti alla donna cui vuoi bene; è lo stesso dinamismo. E tutto questo dinamismo scaturisce dal fatto che tutta la tua vita è libertà, cioè è amore, cioè è affermazione di qualcosa d’altro.
Settimo punto. Riconoscere questa Presenza – vale a dire, tutto ciò che abbiamo detto finora – è un lavoro. ......
( LUIGI GIUSSANI, UOMINI SENZA PATRIA)