DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

SULLE ORME DI BENEDETTO XVI: MISSIONE, STUDIO, SOCIETA'.


LA MISSIONE


La Chiesa è missione.
Tutti devono essere coinvolti nella missio ad gentes: Vescovi, presbiteri, religiosi e religiose, laici.


Discorso ai partecipanti all’assemblea ordinaria del Consiglio Superiore delle Pontificie Opere Missionarie.


Perché vi sia un deciso impegno nell’evangelizzazione, è necessario che i singoli cristiani come le comunità credano veramente che "la Parola di Dio è la verità salvifica di cui ogni uomo in ogni tempo ha bisogno".
Se questa convinzione di fede non è profondamente radicata nella nostra vita, non potremo sentire la passione e la bellezza di annunciarla.


E’ necessario pertanto continuare con rinnovato entusiasmo l’opera di evangelizzazione, l’annuncio gioioso del Regno di Dio, venuto in Cristo nella potenza dello Spirito Santo, per condurre gli uomini alla vera libertà dei figli di Dio contro ogni forma di schiavitù. E’ necessario gettare le reti del Vangelo nel mare della storia per portare gli uomini verso la terra di Dio.

"La missione di annunciare la Parola di Dio è compito di tutti i discepoli di Cristo, come conseguenza del loro battesimo" (Esort. ap. Verbum Domini, 94). Ma perché vi sia un deciso impegno nell’evangelizzazione, è necessario che i singoli cristiani come le comunità credano veramente che "la Parola di Dio è la verità salvifica di cui ogni uomo in ogni tempo ha bisogno". Se questa convinzione di fede non è profondamente radicata nella nostra vita, non potremo sentire la passione e la bellezza di annunciarla. In realtà, ogni cristiano dovrebbe fare propria l’urgenza di lavorare per l’edificazione del Regno di Dio. Tutto nella Chiesa è al servizio dell’evangelizzazione: ogni settore della sua attività e anche ogni persona, nei vari compiti che è chiamata a svolgere.

Tutti devono essere coinvolti nella missio ad gentes: Vescovi, presbiteri, religiosi e religiose, laici. "Nessun credente in Cristo può sentirsi estraneo a questa responsabilità che proviene dall’appartenere sacramentalmente al Corpo di Cristo". Occorre, pertanto, prestare particolare cura affinché tutti i settori della pastorale, della catechesi, della carità siano caratterizzati dalla dimensione missionaria: la Chiesa è missione.

Condizione fondamentale per l’annuncio è lasciarsi afferrare completamente da Cristo, Parola di Dio incarnata, perché solo chi è in attento ascolto del Verbo incarnato, chi è intimamente unito a Lui, può diventarne annunciatore. Il messaggero del Vangelo deve rimanere sotto il dominio della Parola e deve alimentarsi dei Sacramenti: è da questa linfa vitale che dipendono la sua esistenza e il suo ministero missionario. Solo radicati profondamente in Cristo e nella sua Parola si è capaci di non cedere alla tentazione di ridurre l’evangelizzazione ad un progetto solo umano, sociale, nascondendo o tacendo la dimensione trascendente della salvezza offerta da Dio in Cristo. E’ una Parola che deve essere testimoniata e proclamata esplicitamente, perché senza una testimonianza coerente essa risulta meno comprensibile e credibile. Anche se spesso ci sentiamo inadeguati, poveri, incapaci, conserviamo sempre la certezza nella potenza di Dio, che mette il suo tesoro "in vasi di creta" proprio perché appaia che è Lui ad agire per mezzo nostro.

Il ministero dell’evangelizzazione è affascinante ed esigente: richiede amore per l’annuncio e la testimonianza, un amore così totale che può essere segnato anche dal martirio. La Chiesa non può venire meno alla sua missione di portare la luce di Cristo, di proclamare il lieto annuncio del Vangelo, anche se ciò comporta la persecuzione. E’ parte della sua stessa vita, come lo è stato per Gesù. I cristiani non devono avere timore, anche se "sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede" (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011, 1). San Paolo afferma che "né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore" (Rm 8,38-39).




La Chiesa è la piccola comunità di giusti che intercede per la salvezza delle città immerse nel peccato


Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia "superiore", offrendo loro una possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio e confessano la colpa lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male, diventeranno anch’essi giusti, senza più necessità di essere puniti.


Il primo testo su cui vogliamo riflettere si trova nel capitolo 18 del Libro della Genesi; si narra che la malvagità degli abitanti di Sodoma e Gomorra era giunta al culmine, tanto da rendere necessario un intervento di Dio per compiere un atto di giustizia e per fermare il male distruggendo quelle città. È qui che si inserisce Abramo con la sua preghiera di intercessione. Dio decide di rivelargli ciò che sta per accadere e gli fa conoscere la gravità del male e le sue terribili conseguenze, perché Abramo è il suo eletto, scelto per diventare un grande popolo e far giungere la benedizione divina a tutto il mondo. La sua è una missione di salvezza, che deve rispondere al peccato che ha invaso la realtà dell’uomo; attraverso di lui il Signore vuole riportare l’umanità alla fede, all’obbedienza, alla giustizia. E ora,questo amico di Dio si apre alla realtà e al bisogno del mondo, prega per coloro che stanno per essere puniti e chiede che siano salvati.

Abramo imposta subito il problema in tutta la sua gravità, e dice al Signore: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?» (vv. 23-25). Con queste parole, con grande coraggio, Abramo mette davanti a Dio la necessità di evitare una giustizia sommaria: se la città è colpevole, è giusto condannare il suo reato e infliggere la pena, ma – afferma il grande Patriarca – sarebbe ingiusto punire in modo indiscriminato tutti gli abitanti. Se nella città ci sono degli innocenti, questi non possono essere trattati come i colpevoli. Dio, che è un giudice giusto, non può agire così, dice Abramo giustamente a Dio.

Ma la richiesta di Abramo è ancora più seria e più profonda, perché non si limita a domandare la salvezza per gli innocenti. Abramo chiede il perdono per tutta la città e lo fa appellandosi alla giustizia di Dio; dice, infatti, al Signore: «E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?» (v. 24b). Così facendo, mette in gioco una nuova idea di giustizia: non quella che si limita a punire i colpevoli, come fanno gli uomini, ma una giustizia diversa, divina, che cerca il bene e lo crea attraverso il perdono che trasforma il peccatore, lo converte e lo salva. Con la sua preghiera, dunque, Abramo non invoca una giustizia meramente retributiva, ma un intervento di salvezza che, tenendo conto degli innocenti, liberi dalla colpa anche gli empi, perdonandoli.

Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia "superiore",offrendo loro una possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio e confessano la colpa lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male, diventeranno anch’essi giusti, senza più necessità di essere puniti.

Abramo non chiede a Dio una cosa contraria alla sua essenza, bussa alla porta del cuore di Dio conoscendone la vera volontà. Certo Sodoma è una grande città, cinquanta giusti sembrano poca cosa, ma la giustizia di Dio e il suo perdono non sono forse la manifestazione della forza del bene, anche se sembra più piccolo e più debole del male? La distruzione di Sodoma doveva fermare il male presente nella città, ma Abramo sa che Dio ha altri modi e altri mezzi per mettere argini alla diffusione del male. È il perdono che interrompe la spirale del peccato, e Abramo, nel suo dialogo con Dio, si appella esattamente a questo. E quando il Signore accetta di perdonare la città se vi troverà i cinquanta giusti, la sua preghiera di intercessione comincia a scendere verso gli abissi della misericordia divina. Abramo - come ricordiamo - fa diminuire progressivamente il numero degli innocenti necessari per la salvezza: se non saranno cinquanta, potrebbero bastare quarantacinque, e poi sempre più giù fino a dieci, continuando con la sua supplica, che si fa quasi ardita nell’insistenza: «forse là se ne troveranno quaranta … trenta … venti … dieci» (cfr vv. 29.30.31.32). E più piccolo diventa il numero, più grande si svela e si manifesta la misericordia di Dio, che ascolta con pazienza la preghiera, l’accoglie e ripete ad ogni supplica: «perdonerò, … non distruggerò, … non farò» (cfr vv. 26.28.29.30.31.32).

Così, per l’intercessione di Abramo, Sodoma potrà essere salva, se in essa si troveranno anche solamente dieci innocenti. È questa la potenza della preghiera. Perché attraverso l’intercessione, la preghiera a Dio per la salvezza degli altri, si manifesta e si esprime il desiderio di salvezza che Dio nutre sempre verso l’uomo peccatore. Il male, infatti, non può essere accettato, deve essere segnalato e distrutto attraverso la punizione: la distruzione di Sodoma aveva appunto questa funzione. Ma il Signore non vuole la morte del malvagio, ma che si converta e viva (cfr Ez 18,23; 33,11); il suo desiderio è sempre quello di perdonare, salvare, dare vita, trasformare il male in bene. Ebbene, è proprio questo desiderio divino che, nella preghiera, diventa desiderio dell’uomo e si esprime attraverso le parole dell’intercessione.

Con la sua supplica, Abramo sta prestando la propria voce, ma anche il proprio cuore, alla volontà divina: il desiderio di Dio è misericordia, amore e volontà di salvezza, e questo desiderio di Dio ha trovato in Abramo e nella sua preghiera la possibilità di manifestarsi in modo concreto all’interno della storia degli uomini, per essere presente dove c’è bisogno di grazia. Con la voce della sua preghiera, Abramo sta dando voce al desiderio di Dio, che non è quello di distruggere, ma di salvare Sodoma, di dare vita al peccatore convertito.

La necessità di trovare uomini giusti all’interno della città diventa sempre meno esigente e alla fine ne basteranno dieci per salvare la totalità della popolazione. Per quale motivo Abramo si fermi a dieci, non è detto nel testo. Forse è un numero che indica un nucleo comunitario minimo (ancora oggi, dieci persone sono il quorum necessario per la preghiera pubblica ebraica). Comunque, si tratta di un numero esiguo, una piccola particella di bene da cui partire per salvare un grande male. Ma neppure dieci giusti si trovavano in Sodoma e Gomorra, e le città vennero distrutte. Una distruzione paradossalmente testimoniata come necessaria proprio dalla preghiera d’intercessione di Abramo. Perché proprio quella preghiera ha rivelato la volontà salvifica di Dio: il Signore era disposto a perdonare, desiderava farlo, ma le città erano chiuse in un male totalizzante e paralizzante, senza neppure pochi innocenti da cui partire per trasformare il male in bene. Perché è proprio questo il cammino della salvezza che anche Abramo chiedeva: essere salvati non vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita. Non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell’amore che porta già in sé il castigo. Dirà il profeta Geremia al popolo ribelle: «La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio» (Ger 2,19). È da questa tristezza e amarezza che il Signore vuole salvare l’uomo liberandolo dal peccato. Ma serve dunque una trasformazione dall’interno, un qualche appiglio di bene, un inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l’odio in amore, la vendetta in perdono. Per questo i giusti devono essere dentro la città, e Abramo continuamente ripete: «forse là se ne troveranno …». «Là»: è dentro la realtà malata che deve esserci quel germe di bene che può risanare e ridare la vita. E’ una parola rivolta anche a noi: che nelle nostre città si trovi il germe di bene; che facciamo di tutto perché siano non solo dieci i giusti, per far realmente vivere e sopravvivere le nostre città e per salvarci da questa amarezza interiore che è l’assenza di Dio. E nella realtà malata di Sodoma e Gomorra quel germe di bene non si trovava.

Ma la misericordia di Dio nella storia del suo popolo si allarga ulteriormente. Se per salvare Sodoma servivano dieci giusti, il profeta Geremia dirà, a nome dell’Onnipotente, che basta un solo giusto per salvare Gerusalemme: «Percorrete le vie di Gerusalemme, osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze se c’è un uomo che pratichi il diritto, e cerchi la fedeltà, e io la perdonerò» (5,1). Il numero è sceso ancora, la bontà di Dio si mostra ancora più grande. Eppure questo ancora non basta, la sovrabbondante misericordia di Dio non trova la risposta di bene che cerca, e Gerusalemme cade sotto l’assedio del nemico. Bisognerà che Dio stesso diventi quel giusto. E questo è il mistero dell’Incarnazione: per garantire un giusto Egli stesso si fa uomo. Il giusto ci sarà sempre perché è Lui: bisogna però che Dio stesso diventi quel giusto. L’infinito e sorprendente amore divino sarà pienamente manifestato quando il Figlio di Dio si farà uomo, il Giusto definitivo, il perfetto Innocente, che porterà la salvezza al mondo intero morendo sulla croce, perdonando e intercedendo per coloro che «non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Allora la preghiera di ogni uomo troverà la sua risposta, allora ogni nostra intercessione sarà pienamente esaudita.




I primi passi dei credenti sulla via di Cristo devono essere accompagnati da una solida catechesi che gli consenta di crescere nella fede.

L'inculturazione rispetti e conservi l’unicità e l’integrità della rivelazione divina donata alla Chiesa come sua eredità, mostrando allo stesso tempo che è intelligibile e attraente per coloro ai quali viene proposta.


Discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere questo lunedì in udienza i Vescovi della Conferenza Episcopale Indiana di rito latino (1° e 2° gruppo), in occasione della loro visita "ad Limina Apostolorum".


Nella Chiesa, i primi passi dei credenti sulla via di Cristo devono essere sempre accompagnati da una solida catechesi che consenta loro di prosperare nella fede, nell’amore e nel servizio. Riconoscendo che la catechesi è una cosa distinta dalla speculazione teologica, i sacerdoti, i religiosi e i catechisti laici devono sapere come comunicare con chiarezza e amorevole devozione la bellezza trasformatrice di vita dell’esistenza e dell’insegnamento cristiani, che consentirà e arricchirà l’incontro con Cristo stesso.


Oggi, come in ogni tempo, il mandato apostolico trova la sua fonte e il suo centro nella proclamazione del Figlio di Dio Incarnato, che è la pienezza della rivelazione divina e «la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6). Salvatore di tutto il creato, egli è il portatore della Buona Novella per tutti e il compimento delle aspirazioni più profonde dell’uomo. La rivelazione ultima di Dio che ci giunge in Gesù Cristo e che i credenti in tutto il mondo proclamano con gioia viene espressa in modo particolare nelle Sacre Scritture e nella vita sacramentale della Chiesa. La rivelazione cristiana, se accolta in libertà e per opera della grazia di Dio, trasforma gli uomini e le donne dal di dentro e stabilisce una straordinaria relazione redentrice con Dio, nostro Padre celeste, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo. Questo è il cuore del messaggio che insegniamo, è il grande dono che offriamo al prossimo nella carità: la partecipazione alla vita stessa di Dio.

Nella Chiesa, i primi passi dei credenti sulla via di Cristo devono essere sempre accompagnati da una solida catechesi che consenta loro di prosperare nella fede, nell’amore e nel servizio. Riconoscendo che la catechesi è una cosa distinta dalla speculazione teologica, i sacerdoti, i religiosi e i catechisti laici devono sapere come comunicare con chiarezza e amorevole devozione la bellezza trasformatrice di vita dell’esistenza e dell’insegnamento cristiani, che consentirà e arricchirà l’incontro con Cristo stesso.

La vita cristiana in queste società esige sempre onestà e sincerità circa le proprie credenze e il rispetto di quelle del prossimo. La presentazione del Vangelo in tali circostanze, quindi, comporta il delicato processo dell’inculturazione. Si tratta diun’impresa che rispetta e conserva l’unicità e l’integrità della rivelazione divina donata alla Chiesa come sua eredità, mostrando allo stesso tempo che è intelligibile e attraente per coloro ai quali viene proposta. Il processo d’inculturazione esige che i sacerdoti, i religiosi e i catechisti laici, nel presentare la Buona Novella, utilizzino con attenzione le lingue e le usanze proprie delle persone che servono. Mentre cercate di affrontare le impegnative circostanze di proclamare il messaggio nei vari ambienti culturali nei quali vi trovate, voi, cari fratelli Vescovi, siete chiamati a vegliare su questo processo in fedeltà al deposito di fede che ci è stato consegnato perché lo custodissimo e lo trasmettessimo. Combinate questa fedeltà con la sensibilità e la creatività, affinché possiate dare conto in modo convincente della speranza che è in voi (cfr. 1 Pt 3, 15).




LO STUDIO


Ciò che la ragione scorge, la fede illumina e manifesta.

All'Università Cattolica del Sacro Cuore in occasione del 90° anniversario di fondazione.


Cari amici, fede e cultura sono grandezze indissolubilmente connesse, manifestazione di queldesiderium naturale videndi Deum che è presente in ogni uomo. Quando questo connubio si infrange, l’umanità tende a ripiegarsi e a rinchiudersi nelle sue stesse capacità creative.


Il nostro tempo è tempo di grandi e rapide trasformazioni, che si riflettono anche sulla vita universitaria: la cultura umanistica sembra colpita da un progressivo logoramento, mentre l’accento viene posto sulle discipline dette ‘produttive’, di ambito tecnologico ed economico; si riscontra la tendenza a ridurre l’orizzonte umano al livello di ciò che è misurabile, a eliminare dal sapere sistematico e critico la fondamentale questione del senso. La cultura contemporanea, poi, tende a confinare la religione fuori dagli spazi della razionalità: nella misura in cui le scienze empiriche monopolizzano i territori della ragione, non sembra esserci più spazio per le ragioni del credere, per cui la dimensione religiosa viene relegata nella sfera dell’opinabile e del privato.

La vocazione originaria dell’Università, nata dalla ricerca della verità, di tutta la verità, di tutta la verità del nostro essere. E con la sua obbedienza alla verità e alle esigenze della sua conoscenza essa diventa scuola di humanitas nella quale si coltiva un sapere vitale, si forgiano alte personalità e si trasmettono conoscenze e competenze di valore. La prospettiva cristiana, come quadro del lavoro intellettuale dell'Università, non si contrappone al sapere scientifico e alle conquiste dell’ingegno umano, ma, al contrario, la fede allarga l'orizzonte del nostro pensiero, è via alla verità piena, guida di autentico sviluppo. Senza orientamento alla verità, senza un atteggiamento di ricerca umile e ardita, ogni cultura si sfalda, decade nel relativismo e si perde nell’effimero. Sottratta invece alla morsa di un riduzionismo che la mortifica e la circoscrive può aprirsi ad un’interpretazione veramente illuminata del reale, svolgendo così un autentico servizio alla vita.

La questione della Verità e dell'Assoluto - la questione di Dio - non è un’investigazione astratta, avulsa dalla realtà del quotidiano, ma è la domanda cruciale, da cui dipende radicalmente la scoperta del senso del mondo e della vita. Nel Vangelo si fonda una concezione del mondo e dell’uomo che non cessa di sprigionare valenze culturali, umanistiche ed etiche. Il sapere della fede quindi illumina la ricerca dell’uomo, la interpreta umanizzandola, la integra in progetti di bene, strappandola alla tentazione del pensiero calcolatore, che strumentalizza il sapere e fa delle scoperte scientifiche mezzi di potere e di asservimento dell’uomo.

L’orizzonte che anima il lavoro universitario può e deve essere la passione autentica per l’uomo. Solo nel servizio all’uomo la scienza si svolge come vera coltivazione e custodia dell’universo (cfr Gn 2,15). E servire l’uomo è fare la verità nella carità, è amare la vita, rispettarla sempre, a cominciare dalle situazioni in cui essa è più fragile e indifesa.

Come afferma il Concilio Vaticano II, la fede è capace di donare luce all’esistenza. Dice il Concilio che la fede: "Tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, e perciò guida l’intelligenza verso soluzioni pienamente umane" (Gaudium et spes, 11).

L’attestazione della fede e la testimonianza della carità sono inscindibili (cfr 1Gv 3,23). Il nucleo profondo della verità di Dio, infatti, è l’amore con cui Egli si è chinato sull’uomo e, in Cristo, gli ha offerto doni infiniti di grazia. In Gesù noi scopriamo che Dio è amore e che solo nell'amore possiamo conoscerLo: "Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio perché Dio è amore" (1Gv 4,7.8) dice san Giovanni. E sant’Agostino afferma: "Non intratur in veritatem nisi per caritatem" (Contra Faustum, 32). Il vertice della conoscenza di Dio si raggiunge nell'amore; quell’amore che sa andare alla radice, che non si accontenta di occasionali espressioni filantropiche, ma illumina il senso della vita con la Verità di Cristo, che trasforma il cuore dell’uomo e lo strappa agli egoismi che generano miseria e morte. L’uomo ha bisogno di amore, l’uomo ha bisogno di verità, per non disperdere il fragile tesoro della libertà ed essere esposto alla violenza delle passioni e a condizionamenti aperti ed occulti (cfr Giovanni Paolo II, Enc. Centesimus annus, 46). La fede cristiana non fa della carità un sentimento vago e pietoso, ma una forza capace di illuminare i sentieri della vita in ogni sua espressione. Senza questa visione,senza questa dimensione teologale originaria e profonda, la carità si accontenta dell’aiuto occasionale e rinuncia al compito profetico, che le è proprio, di trasformare la vita della persona e le strutture stesse della società. È questo un impegno specifico che la missione in Università vi chiama a realizzare comeprotagonisti appassionati, convinti che la forza del Vangelo è capace di rinnovare le relazioni umane e penetrare nel cuore della realtà.

La contemplazione dell’opera di Dio dischiude al sapere l’esigenza dell’investigazione razionale, sistematica e critica; la ricerca di Dio rafforza l’amore per le lettere e per le scienze profane: «Fides ratione adiuvatur et ratio fide perficitur», afferma Ugo di San Vittore (De sacramentis, I, III, 30: PL 176, 232).




Studiare con quella intelligenza del cuore che è insieme un conoscere e un amare; ciò esige che Gesù sia posto al centro di tutto. Lui è la Parola, il "libro vivente".


Cari studenti... il vostro lavoro di approfondimento... è il compito di penetrare il mistero di Cristo, con quella intelligenza del cuore che è insieme un conoscere e un amare; ciò esige che Gesù sia posto al centro di tutto, dei vostri affetti e pensieri, del vostro tempo di preghiera, di studio e di azione, di tutto il vostro vivere. Lui è la Parola, il "libro vivente", come lo è stato per santa Teresa d’Avila, che affermava: "per apprendere la verità non ebbi altro libro che Dio" (Vita 26,5). Auguro a ciascuno di voi di poter dire con san Paolo: "Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore" (Fil 3,8).

A tale proposito, vorrei richiamare la descrizione che santa Teresa fa dell’esperienza interiore della conversione, così come lei stessa la visse un giorno davanti al Crocifisso. Scrive: "Appena lo guardai… fu così grande il dolore che provai, la pena dell’ingratitudine con la quale rispondevo al suo amore che mi parve che il cuore mi si spezzasse. Mi gettai ai suoi piedi tutta in lacrime e lo supplicai di farmi la grazia di non offenderlo più"(Autobiografia 9,1). Con lo stesso impeto, la Santa sembra chiedere anche a noi: come restare indifferenti a tanto amore? Come ignorare Colui che ci ha amato con una misericordia così grande? L’amore del Redentore merita tutta l’attenzione del cuore e della mente, e può attivare anche in noi quel mirabile circolo in cui amore e conoscenza si alimentano reciprocamente. Durante i vostri studi teologici, tenete sempre lo sguardo rivolto al motivo ultimo per cui li avete intrapresi, cioè a quel Gesù che "ci ha amato e ha dato la sua vita per noi" (cfr 1Gv 3,16). Siate consapevoli che questi anni di studio sono un dono prezioso della Provvidenza divina; dono che va accolto con fede e vissuto diligentemente, come una irripetibile opportunità per crescere nella conoscenza del mistero di Cristo.

Ognuno, infatti, e in modo particolare quanti hanno accolto la chiamata divina ad una sequela più prossima, necessita di essere accompagnato personalmente da una guida sicura nella dottrina ed esperta nelle cose di Dio; essa può aiutare a guardarsi da facili soggettivismi, mettendo a disposizione il proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze vissute nella sequela di Gesù. Si tratta di instaurare quello stesso rapporto personale che il Signore aveva con i suoi discepoli, quello speciale legame con cui Egli li ha condotti, dietro di sé, ad abbracciare la volontà del Padre (cfr Lc 22,42), ad abbracciare, cioè, la croce.




LA SOCIETA'


Senza la conoscenza del vero bene umano, la carità scivola nel sentimentalismo, la giustizia perde la sua «misura» fondamentale.

Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale promosso dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, nel 50° anniversario dell’Enciclica Mater et magistra del Beato Giovanni XXIII, sul tema: "Giustizia e globalizzazione: dalla Mater et magistra alla Caritas in veritate" (Roma, 16-18 maggio 2011).


In un contesto ove si vive una progressiva unificazione dell’umanità, è indispensabile che la nuova evangelizzazione del sociale evidenzi le implicanze di una giustizia che va realizzata a livello universale... non è possibile realizzar questa giustizia poggiandosi sul mero consenso sociale, senza riconoscere che questo, per essere duraturo, deve essere radicato nel bene umano universale.

Per il beato Giovanni XXIII, la Dottrina sociale della Chiesa ha come luce la Verità, come forza propulsiva l’Amore, come obiettivo la Giustizia (cfr n. 209), una visione della Dottrina sociale, che ho ripreso nell’Enciclica Caritas in veritate, a testimonianza di quella continuità che tiene unito l’intero corpus delle Encicliche sociali. La verità, l’amore, la giustizia, additati dalla Mater et magistra, assieme al principio della destinazione universale dei beni, quali criteri fondamentali per superare gli squilibri sociali e culturali, rimangono i pilastri per interpretare ed avviare a soluzione anche gli squilibri interni all’odierna globalizzazione. A fronte di questi squilibri c’è bisogno del ripristino di una ragione integrale che faccia rinascere il pensiero e l’etica. Senza un pensiero morale che superi l’impostazione delle etiche secolari, come quelle neoutilitaristiche e neocontrattualiste, che si fondano su un sostanziale scetticismo e su una visione prevalentemente immanentista della storia, diviene arduo per l’uomo d’oggi accedere alla conoscenza del vero bene umano. Occorre sviluppare sintesi culturali umanistiche aperte alla Trascendenza mediante una nuova evangelizzazione - radicata nella legge nuova del Vangelo, la legge dello Spirito - a cui più volte ci ha sollecitati il beato Giovanni Paolo II. Solo nella comunione personale con il Nuovo Adamo, Gesù Cristo, la ragione umana viene guarita e potenziata ed è possibile accedere ad una visione più adeguata dello sviluppo, dell’economia e della politica secondo la loro dimensione antropologica e le nuove condizioni storiche. Ed è grazie ad una ragione ripristinata nella sua capacità speculativa e pratica che si può disporre di criteri fondamentali per superare gli squilibri globali, alla luce del bene comune. Infatti, senza la conoscenza del vero bene umano, la carità scivola nel sentimentalismo; la giustizia perde la sua «misura» fondamentale; il principio della destinazione universale dei beni viene delegittimato. Dai vari squilibri globali, che caratterizzano la nostra epoca, vengono alimentate disparità, differenze di ricchezza, ineguaglianze, che creano problemi di giustizia e di equa distribuzione delle risorse e delle opportunità, specie nei confronti dei più poveri.

Il beato Giovanni XXIII affermava: «L’educazione ad operare cristianamente anche in campo economico e sociale difficilmente riesce efficace se i soggetti medesimi non prendono parte attiva nell’educare se stessi, e se l’educazione non viene svolta anche attraverso l’azione» (nn. 212-213).

Ancora valide, inoltre, sono le indicazioni offerte da Papa Roncalli a proposito di un legittimo pluralismo tra i cattolici nella concretizzazione della Dottrina sociale. Scriveva, infatti, che in questo ambito «[…] possono sorgere anche tra cattolici, retti e sinceri, delle divergenze. Quando ciò si verifichi non vengano mai meno la vicendevole considerazione, il reciproco rispetto e la buona disposizione a individuare i punti di incontro per un’azione tempestiva ed efficace: non ci si logori in discussioni interminabili e, sotto il pretesto del meglio e dell’ottimo, non si trascuri di compiere il bene che è possibile e perciò doveroso»

Auguro, pertanto, a tutti voi che il Signore Risorto riscaldi i vostri cuori e vi aiuti a diffondere il frutto della redenzione, mediante una nuova evangelizzazione del sociale e la testimonianza della vita buona secondo il Vangelo. Tale evangelizzazione sia sorretta da un’adeguata pastorale sociale, attivata sistematicamente nelle varie Chiese particolari.