DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il suicidio come una delle Belle arti


Che il suicidio sia la sola questione filosofica seria, dove si decide in ultimo se valga o meno la pena vivere, è il grande abbaglio di Albert Camus. Una volta venuti al mondo, per chi sia visitato dal sentimento dell’assurdo uccidersi dovrebbe essere un affare tutto sommato marginale, una bazzecola dentro quella bazzecola cosmica che è l’esistenza, forse perfino un numero comico di congedo. Se l’inconveniente è esser nati, diceva quel chiacchierone molesto di Cioran, se ne deduce che ci si uccide sempre troppo tardi. A rigore, dunque, la questione filosofica di Camus dovrebbe riguardare l’atto di generare, la perpetuazione della vita, o meglio l’iscrizione coatta di marmocchi incolpevoli a un gioco le cui regole sono così crudeli che qualunque genitore premuroso vieterebbe ai figli di parteciparvi, una volta nati – e questo è un bel serpente che si morde la coda: “Ti proibisco di andare al corso di bungee jumping, figliolo”; “E proprio tu me lo dici? Ma lo vedi a che razza di gioco mi hai iscritto?”.
Posto quindi che la questione seria è altrove, è affascinante visitare la galleria dei suicidi letterari, elevati al rango delle Belle arti o della testimonianza filosofica. Il nuovo libro dello scrittore spagnolo Toni Montesinos, Melancolía y suicidios literarios (Fórcola Ediciones) è, in materia, una piccola enciclopedia, che ripercorre le poetiche e le filosofie del suicidio fin da Aristotele ed Egesia di Cirene. Lo si può leggere come un utile aggiornamento del capolavoro di Al Alvarez apparso quarant’anni fa e troppo presto scomparso, Il dio selvaggio, che pure componeva una storia della letteratura attraverso gli stili di suicidio – classico, rinascimentale, romantico, decadente, avanguardistico.
Assurdo per assurdo, nulla supera il suicidio dadaista, e in particolare quello di Jacques Vaché, che a ventitré anni, nel 1919, ingerì una dose letale di oppio e la somministrò anche a due ignari amici unitisi a lui per la scampagnata. Mai la battuta dei Monty Python – “Dopotutto, un omicida è solo un suicida estroverso” – fu meglio spesa. Non c’è una morale da cavarne (o forse una sola: se invitati a un pic-nic dadaista, portatevi il pranzo da casa), tutt’al più un’estetica, ed è forse la cosa più interessante: un suicidio fatto a regola d’arte può provocare invidie tra letterati non meno di un romanzo ben scritto. Parlando di un altro e ben diverso suicidio-omicidio o duplice suicidio, quello di Kleist e Henriette, il solito Cioran scrisse che quel capolavoro di tatto e di gusto rendeva inutili tutti i suicidi successivi (dunque anche il suo: che restava da fare, se non un plagio? Non si uccise). E però mi vien da pensare che neppure dopo i più stremanti esercizi di ammirazione Cioran avrebbe saputo riconoscere che il suicidio perfetto, su cui quasi si ha ritegno di sciupare aggettivi, lo aveva compiuto un suo contemporaneo, se non proprio un possibile rivale spirituale, che i libri sui suicidi letterari non menzionano mai.
Albert Caraco non aveva lo stile secco, ulcerante di Cioran ma una filosofia altrettanto disperata, che riversava in libri per lo più disordinati e ridondanti. Desiderava con impazienza la morte, ma si attardava a vivere come gesto di sublime cortesia verso i genitori, i due che lo avevano iscritto suo malgrado a quel gioco feroce. Poche ore dopo la morte del padre, nel settembre del 1971, venuta meno quella superstite ragione, si uccise.


Articolo uscito sul Foglio il 5 giugno 2014 con il titolo Da Camus a Caraco. Cosa ci può insegnare la galleria dei suicidi letterari