DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

BEATI GLI ULTIMI (SECOLI). Ma quanto durerà ancora il cristianesimo? Il gran libro di Bardy profetizza che un nuovo inizio ci sarà


di Maurizio Crippa
Il Foglio 7 febbraio 2015


mezzogiorno di mercoledì 4 febbraio
le campane di tutte le chiese cattoliche
sparse in Giordania hanno suonato a
morto per il raccapricciante omicidio di
Muath al-Kasasbeh, il pilota bruciato vivo
dai jihadisti. Nel convento della Custodia
del Terra Santa di Aleppo, ha raccontato
padre Pierbattista Pizzaballa, non c’è il generatore
ma il vicino musulmano ne ha uno
e gli altri vicini, tutti musulmani, facevano
la colletta per il gasolio: il vicino manteneva
il generatore e i frati attingevano l’acqua
per il quartiere. Come hanno potuto i
cristiani mettere radici, e resistere finora,
in quelle terre che sembrano vocate solo
al martirio? Oggi come un tempo, nel tempo
dell’ultima persecuzione. Le gole tagliate,
le chiese bruciate. E come si è diffuso e
radicato (due millenni) il vangelo lì, in
quelle terre non proprio accoglienti? Forse
a causa della stessa mansuetudine, della
pietas che il loro Messia insegna, da allora
fino alle campane a morto dell’altro
giorno?
Clemente Alessandrino, nel libro XIV
degli Hypotyposeis riporta un episodio, affidabile
secondo gli storici, che generò
molte conversioni in chi ne fu testimone:
“Colui che aveva condotto Giacomo, fratello
di Giovanni, davanti al tribunale, ascoltandolo
rendere testimonianza, fu sconvolto
e confessò che anche lui era cristiano.
Vennero condotti tutti e due al supplizio,
e durante il cammino, egli pregò Giacomo
di perdonarlo. L’apostolo rifletté un istante
e disse: la pace sia con te. E l’abbracciò.
E così furono decapitati tutti e due contemporaneamente”.
Il romanzo di Michel Houellebecq sul
paradosso postmoderno della “sottomissione”
all’islam, cosa diversa dalla metànoia
cristiana, è uscito in Francia nel giorno
di Charlie Hebdo, il ground zero dell’Europa.
Grado zero per la sua cultura
malata, terminale, desiderante e furiosa. E
insieme minaccia all’occidente e al non
troppo che resta del cristianesimo europeo.
Un funerale di terza classe, per due.
Houellebecq narra di un professore della
Sorbona che cerca di sottrarsi alla guerra
civile fra le strade di Parigi, mentre il
mondo lussureggiante di passioni cui è
abituato, col suo libertinaggio vuoi cerebrale
vuoi sessuale e triste come un limone
già adoperato, sta raschiando il fondo
di una civiltà che da secoli ha evacuato il
cristianesimo. Così che non rimane che
sottomettersi all’islam. Resa tragica, forse
più che altro grottesca. Del resto Luis
Buñuel, ateo per grazia di Dio, i pellegrini
della sua Via Lattea diretti a Santiago di
Compostela li faceva partire proprio da
Parigi, da dove se no?, in un interminabile
viaggio burlesco-teologico. Anche il personaggio
di Houellebecq a un certo punto
parte per il santuario della Madonna nera
di Rocamadour in cerca di fede. Invano.
Ci sono i massacri, c’è la trionfante cultura
gender, ormai ideologia unica del pianeta
come nemmeno la globalizzazione lo
fu, che travolge quel poco di lascito antropologico
del giudaismo-cristianesimo. Ci
sono i cristiani sempre più derisi, sempre
più zittiti. Nel graffito cosiddetto di Alexamenos,
scarabocchiato sulle pareti di una
scuola vicina al palazzo imperiale sul Palatino
da un writer del II o del III secolo,
si vede un ragazzo che venera un crocifisso
con la testa di asino. In caratteri greci
sono graffiate parole di scherno: “Alexamenos
sebete theon”, “Alexamenos adora
Dio”, indirizzate probabilmente a un alunno
cristiano. Le Femen di oggi hanno tette
ma meno ironia. La libertà religiosa è
però conculcata, forse davvero in misura
superiore alle persecuzioni del passato secolo
breve. Quanto durerà, ancora, il cristianesimo
stretto tra persecuzioni esterne
ed erosioni interne?
Guido Ceronetti la scorsa estate, su Repubblica,
si lasciò fulminare da un aforisma
di Emil Cioran: “Il cristianesimo è
morto quando ha cessato di essere mostruoso”.
Molti pensatori atei o agnostici,
presentendo con acume la sperdutezza dei
tempi, guardano alla fine del cristianesimo
(occidentale) come a un presagio infausto.
Per Ceronetti “tutte le fedi monoteiste
sono risucchiate dal Buco Nero”. Per lui
“la mostruosità cristiana”, in fondo ciò che
ne giustificava l’esistenza, “è in declino da
quando sono cessati gli autodafé e i processi
delle streghe”. E “da quando il Papa
è sceso dalla sedia gestatoria e si è messo
a fare viaggi trionfali”. Anche il Concilio
“andrà visto come una cessazione del carattere
mostruoso della chiesa che avrà
impresso un’accelerazione al processo
mortale del cristianesimo in ambito cattolico”.
Domande. In cui “senti il fragore delle
ondate tra cui il Titanic-Cristianesimo,
protestante o cattolico, sta colando a picco”.
In Roma senza Papa, Guido Morselli
aveva già scritto tutto. Si può ancora diventare
cristiani, in un mondo così? E’ la domanda
che anche tanti credenti, soprattutto
quelli refrattari all’ottimismo della modernizzazione,
si fanno. Con le risposte più
diverse. Fatte anche di pubbliche preghiere,
di difesa di certe forme liturgiche o ecclesiali.
Di tentativi di battaglie nello spazio
pubblico che si fanno carico sempre
più spesso di una necessaria “disintermediazione”,
per dirla come usa nell’èra di
Matteo Renzi, dentro a una società sempre
meno laica, più totalitaria. Ma la domanda
dei dotti, di alcuni intellò, assieme a quella
di molti cristiani, resta. Sarà mai possibile
convertirsi (ancora) al cristianesimo,
in quelli che Ceronetti chiamerebbe gli ultimi
secoli?
Taziano il Siro, allievo di san Giustino
prima di divenire eresiarca, nel II secolo
ha lasciato una testimonianza affidabile
della sua conversione: “Ho percorso molti
paesi, ho insegnato le vostre dottrine, mi
sono messo al corrente di molte arti e invenzioni.
(…) Dopo aver inoltre partecipato
ai misteri e fatto la prova di culti diversi,
mi chiedevo come potevo scoprire la verità.
Mentre meditavo cercando il bene, mi
accadde di incontrare gli scritti dei barbari,
più antichi delle dottrine dei greci, di
ispirazione troppo manifestamente divina.
Mi accadde di credere in essi a causa della
semplicità dello stile, della naturalezza
delle narrazioni, dell’intelligenza chiara
che danno. (…) La mia anima si mise così
alla scuola di Dio”. Agostino di Ippona, che
forse non ne aveva fatte tante come Houellebecq,
ma insomma, confessa: “Ripetevano:
verità, verità, ne facevano un gran parlare
ed essa non era mai in essi. Dicevano
il falso non su di te soltanto, che sei davvero
la verità, ma anche sugli elementi di
questo mondo. Verità, verità, come già allora
dal più profondo della mia anima sospiravo
per te”.
C’è un bellissimo vecchio libro di Gustave
Bardy, uno dei più grandi studiosi francesi
di patrologia del secolo scorso, pubblicato
nel 1947, quasi il compendio di una vita
di studioso e credente (morirà nel 1955).
In Italia è famoso soprattutto perché proposto
e riproposto a intere generazioni da
don Luigi Giussani (è ininterrottamente
nel catalogo di Jaca Book dal 1975). Si intitola
La conversione al cristianesimo nei primi
secoli. Riletto oggi, come si rileggono i
classici, è un percorso rigoroso e pieno di
sorprese per comprendere quali furono i
motivi che resero affascinante il cristianesimo
fin dal suo primo apparire, in un
mondo mica tanto più accogliente di quello
di oggi. I motivi che causarono quel fenomeno
pressoché unico nella storia umana
di una religione che si è diffusa in gran
parte del mondo di allora (i confini dell’impero
e oltre) con una rapidità e una
pluralità di forme unica e strabiliante. Eppure
anche gli uomini di allora erano “bestiali
come sempre, carnali, egoisti come
sempre, interessati e ottusi come sempre
lo furono prima”, per lasciarlo dire a Eliot.
Eppure, scrive Bardy, “il mondo greco-romano
non si è convertito a nessuna delle
religioni orientali che, a turno o simultaneamente,
hanno sollecitato la sua adesione;
non si è convertito alla filosofia, malgrado
la predicazione e gli esempi degli
stoici e dei cinici; non si è convertito al giudaismo,
nonostante la propaganda della
legge mosaica; ma si è convertito al cristianesimo”.
Anzi: “E’ stato senza dubbio scritto
che, se il mondo non fosse diventato cristiano,
sarebbe diventato mitriaco. A dire
il vero noi non ne sappiamo niente e soprattutto
resta il fatto che non è divenuto
mitriaco, mentre è divenuto cristiano e lo
è rimasto per secoli”. Com’è potuto accadere
che nel giro di pochi secoli, decenni, un
mondo refrattario come e più del nostro
abbia cambiato di segno? Abbracciando
una religione che non si imponeva né per
sapienza (Paolo all’Areopago, col suo gran
discorso da retore, fu rimbalzato con risate
scettiche: “Su questo ti sentiremo un’altra
volta”), né per foga di tagliare la testa
ai nemici, ma anzi per il contrario?
Colpiscono, nel libro di Bardy, gli spunti
che avvicinano il mondo pagano di duemila
anni fa al nostro presente. Ad esempio
il desiderio di verità che pervade tutta
la cultura antica in quel grande meltin’
pot culturale che è l’impero. L’insoddisfazione,
il peso avvertito di un destino immodificabile,
delle colpe che nessun sacrificio
può purificare. Gli dèi pagani, la filosofia,
lo stesso giudaismo, non riuscirono
a rispondere del tutto. “Infatti sarebbe impossibile
far bene qualsiasi cosa interessa
agli uomini se non la si rapporta alle cose
divine e viceversa”, è un celebre Pensiero
di Marco Aurelio. Abbiamo la testimonianza,
per lo più di intellettuali e uomini di
classi sociali elevate, che abbracciarono il
cristianesimo facendo l’esperienza di una
risposta alle esigenze del proprio essere.
E’ la conversione degli intellò, quelli
che sapevano leggere e scrivere. Ma è soprattutto
l’annuncio della libertà e della liberazione
quello che provoca il grande
cambiamento. Scrive Bardy: “Noi daremmo
molto per sapere quello che hanno provato
gli schiavi, la povera gente, i commercianti,
i marinai, i coltivatori che ad Antiochia,
a Salonicco o a Corinto hanno udito
per la prima volta l’annuncio del Regno di
Dio e gli appelli alla libertà conquistata
dalla croce di Cristo. Nessuno di questi
umili si è preoccupato di scrivere”. “Poche
parole sono impiegate così di frequente
nel Nuovo testamento che quella della libertà
– annota Bardy – per cui il messaggio
evangelico suona agli orecchi degli uomini,
piegati sotto la schiavitù, come l’annuncio
gioioso della liberazione”.
Ci sono altre notazioni con cui Bardy
getta luce fino a noi. Ad esempio, il fatto
che nel mondo antico era quasi completamente
estraneo il concetto stesso di “conversione”.
La religione greco-romana era
una religione tradizionale, se ne faceva
parte in quanto cittadini, era inconcepibile
abbandonarla. Al massimo, si procedeva
per accumulo: ci si dedicava anche ai
culti di Iside, di Mitra. Oggi, oltre a un’identica
pratica dell’accumulo – dimensione
base del nostro modo di fare esperienze,
anche interiori – vige il concetto della
piena reversibilità delle scelte. Si può convertirsi
ma anche no, tornare a non credere
o fare altro. Dunque, come si diventa,
come si potrebbe (ri)diventare cristiani?
E’ stata soprattutto l’attrattiva della bellezza,
e lo spettacolo della santità, spiega
Bardy. Ad esempio c’è il caso di un certo
Arnobio, un retore avanti negli anni e che
resta “in una ignoranza quasi assoluta dei
dogmi cristiani”. Eppure dà testimonianza
della sua conversione, “non insulto più il
nome di Dio e rendo a ciascuno ciò che gli
è dovuto”. Bardy nota che “Arnobio è stato
condotto al cristianesimo anche per lo
spettacolo dei costumi dei cristiani”. Ne
dà conto in molte pagine, con splendida
erudizione. Ma non sarebbe lo studioso
che è, Bardy, se non riconoscesse che “soprattutto
dopo la pace con la chiesa il cristianesimo
è invaso da una folla di gente
che si converte sotto i pretesti più inconfessabili”,
e la chiesa si riempie di peccatori
di ogni sorta. Così come, altrove nel volume,
nota che “talmente numerose dovettero
essere le conversioni operate dall’esempio
dei martiri che finirono per diventare
un luogo comune della letteratura
agiografica”, e molte di “siffatte narrazioni
non meritano alcun credito”. Eppure,
scrive: “Ma se la leggenda si è potuta sviluppare
in questa maniera, la storia ci assicura
che fatti analoghi sono realmente
accaduti e nelle circostanze più diverse”.
Soprattutto, c’è il martirio. “Tra tutte le
virtù praticate dai cristiani, quella che colpisce,
e a ragione, maggiormente i pagani
e li guadagna più immediatamente alla religione
del vangelo è la fermezza davanti
alla morte e la costanza con la quale sopportano
i supplizi più crudeli”. Cose che
ovviamente scandalizzano intellettuali di
buon senso e uomini di mondo come Epitteto
o Marco Aurelio, ma non “la massa che
si lascia semplicemente conquistare”. Tertulliano
scrive nell’Apologetico: “Chi dunque,
di fronte allo spettacolo dato da tanti
martiri, non si sente scosso e non cerca ciò
che è al fondo di questo mistero?”. E’ probabile
che Tertulliano pensi “alla sua conversione
e ai motivi che l’hanno ispirata”.
Ignazio di Antiochia scrive: “Pregate continuamente
per gli altri uomini, perché si
può sperare di vederli arrivare a Dio mediante
la penitenza. Date a loro almeno la
lezione dei vostri esempi: alla loro collera
opponete la dolcezza, alla loro iattanza l’amabilità,
alle loro bestemmie la preghiera,
ai loro errori la fermezza nella fede; al loro
carattere selvaggio l’umanità, senza mai
cercare di rendere il male che vi fanno”. E’
dunque questo spettacolo che maggiormente
conquista, più ancora della vista dei miracoli
compiuti dai cristiani.
Persino l’apostasia, durante i cicli delle
persecuzioni, può miracolosamente trasformarsi
in testimonianza. E’ il caso della
grande persecuzione a Lione nel 177 d.
C., di cui dà conto Eusebio: “Abbassavano
gli occhi, erano abbattuti, costernati e ripieni
di una totale confusione; i pagani li
insultavano, li trattavano da vili”. Ma “il
resto dei nostri, vedendo questo, si
rafforzò. Per la misericordia di Dio molti
rinnegati si convertirono e, fra di essi, una
cristiana di nome Biblis. Il Cristo fu allora
magnificamente glorificato da coloro
che l’avevano rinnegato in un primo tempo:
contro l’attesa dei pagani, essi gli resero
testimonianza”. Così, scrive Bardy, fu
possibile la rottura e il rinnegamento di
ciò che si era in precedenza. Il battesimo
per immersione, “quest’acqua distrugge
una vita e ne suscita un’altra, annega l’uomo
vecchio e fa risorgere il nuovo”, com’era
di regola nell’antichità cristiana, rendeva
evidente negli adulti, l’immagine di tale
“annegamento” dell’uomo vecchio.
Oggi che il cristianesimo come ambiente
culturale, almeno in Europa, è finito, nel
cielo vuoto e nello spazio pubblico fattosi
neutro o peggio ostile, è utile riscoprire come
andarono le cose, come avvenne il non
preventivabile miracolo della conversione
di un intero mondo (senza la minaccia della
scimitarra e la pratica della sottomissione).
Il grande racconto di Bardy lascia intuire
una semplice, e non presuntuosa risposta.
La conversione al cristianesimo nei
nostri (ultimi?) secoli, potrà avvenire solo
come è avvenuta per i nuovi cristiani dei

primi secoli.