DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Gianna Nannini: “Io, mamma a ogni costo”

RINUNCIARE a un po’ di
rock per cantare una
filastrocca è una gioia.
D’altronde la ninna
ninna era nel suo dna.
«Ninna Nera, un testo
di De Gregori che misi
in musica nel ’95, era
quasi heavy, ma ai bambini piacque molto»,
racconta Gianna Nannini. All’epoca la
maternità era l’ultimo dei suoi pensieri, era
ossessionata da rime e melodie da strapazzare
con la voce ruvida della rockeuse che era voluta
diventare a ogni costi: Ninna nanna, ninnaò /
Questo figlio a chi lo do / Questo amore di una
notte / Questo figlio di mille botte.
«Ninna Nein che canto nell’album Inno,
pubblicato due anni fa, è invece più dolce e
tenera; la tenerezza è rivoluzionaria in un’epoca
in cui si cerca sempre di nasconderla».
Ninna Nein l’ha scritta per sua figlia Penelope,
che ora ha quattro anni. Maternità voluta a ogni
costo, esibita anche, per ribadire il diritto a
quelle libertà individuali troppo spesso
calpestate, soprattutto quando a scegliere sono
le donne. Fu criticata perché diventò mamma a
56 anni di una bimba che non aveva papà.
Una bizzarria rock in un’Italia troppo cattolica.
«Rock è solo un cliché», dice serena la Nannini
sorseggiando il suo caffè. Penelope è a scuola, la
governante si è presa un giorno di permesso.
Ma di cliché è pieno il mondo: una donna di
sessant’anni è meno rock di una di trenta;
un’artista è più rock di una mamma. Nannini è
in controtendenza: «In questi quattro anni ho

fatto una vita decisamente rock & roll


«MENO disciplina,
più
vino, più
pasta e pane,
poca
attenzione
al corpo.
Da
quando Penelope è diventata la mia priorità
tutte le altre abitudini sono passate in secondo
piano, la cura del fisico soprattutto. Mi sono
un po’ trascurata, devo riprendere col pilates,
la mia passione, ho un tour che parte fra due
mesi dalla Germania». Insiste: «Sembra un paradosso
ma, giuro, trasgredisco più ora di allora.
E faccio cose che non avevo mai fatto: le pulizie,
il bucato. Ma non mi lamento, sono stata
toccata dalla divinità; la maternità è una cosa
mistica, ti solleva, eleva lo spirito — problemi
quotidiani a parte. Non sono apprensiva, e
neanche preoccupata, cerco di prestare at-
tenzione alle sue inclinazioni e alle sue potenzialità.
I genitori devono solo incoraggiare le
inclinazioni dei figli, non scegliere per loro».
Riflette su questi ultimi quattro anni. Come
non ammetterlo? La presenza di Penelope ha
messo a soqquadro la sua routine, vede il mondo
da un’altra prospettiva. «Ho imparato a trascurare
me stessa», confessa. «La rock star è
per definizione egoista. Il nostro è un mestiere
competitivo, devi essere concentrato per
dare il meglio, tutto gira intorno a te. Ora invece
la mia giornata è per l’80% dedicata a lei.
Il pianoforte è rimasto a lungo muto. Mi restano
cinque minuti al giorno per le canzoni, ma
per fortuna quando l’ispirazione arriva riesco
a fare tutto in fretta». Miracolosamente, è riuscita
a trovare un equilibrio tra la casa e un lavoro
che non è esattamente quello nine to five
delle altre mamme. Per la prima volta ha pubblicato
un intero disco di cover (Hitalia) spulciando
tra gli evergreen della canzone italiana.
Come se tra una ninna nanna e l’altra si fosse
riacceso un bisogno di melodia, a sottolineare
questo momento intimo e familiare della
sua vita. «Le responsabilità del cantautore
sono maggiori di quelle dell’interprete», spiega.
«Non bisogna aver paura della melodia, né
della tenerezza, come ha detto il Papa “copiando”
un mio slogan (Quanta tenerezza /
Non fa più paura, in Sei nell’anima). È un messaggio
importante», scherza, scoppiando in
una di quelle sue risate contagiose. Torna a riflettere
sulla nuova vita: «Un cambiamento
che non immaginavo così radicale. La morte
di mia mamma Giovanna l’anno scorso (il padre
Danilo è morto nel 2007), ha significato
l’abbandono definitivo del nido, un punto di riferimento
che se n’è andato. Perdere i genitori
è comunque un trauma, anche per una che
in famiglia c’è stata poco. Non poter più telefonare
e dirle “ciao ma’ stasera sono in
tivvù” mi fa sentire un vuoto».
L’imminente partecipazione come super
ospite al Festival di Sanremo le riporta alla
mente la piccola Gianna in età prescolare. «In
casa mia non si ascoltava musica, c’era solo la
tivvù e Sanremo era un evento. Avevo i miei
idoli, Modugno, Ranieri, Nada. Ma con la musica
volevo fare a modo mio. A quattro anni
montai sul pianoforte della zia e cominciai a
cercare note e melodie. A cinque già inventavo
canzoni. Non ho mai fatto cover prima di Hitalia,
non mi divertiva cantare le canzoni degli
altri, a parte quella di Battisti (Un’avventura)
che presentai al concorso per voci nuove.
In casa dovevo cantare di nascosto, chiudevo
le porte e mi mettevo al pianoforte; oppure
uscivo in motorino e me ne andavo da
qualche parte in campagna; la musica mi metteva
in sintonia con un’altra dimensione».
Con Penelope è un’altra storia, la bambina è
sempre con lei. «Io invece sempre lontana dai
miei, in Maremma a far baldoria con i miei
amichetti. Ecco, in questo siamo uguali, ci piace
vivere. Quando è in casa c’è energia nell’aria.
Mi sono rimessa a leggere le favole, m’ispirano;
le reinvento per lei, cambio trame e
finali, le interpreto, faccio i versi e le smorfie,
divento il lupo e la nonna. Abbiamo gli occhi
dello stesso colore Penelope e io; lei guarda
lontano, proprio come me. Ho il carattere de la
mi nonna, mica facile. Mia figlia ha un carattere
migliore. Ero una bambina simpatica, volevo
darmi da fare, mettevo sempre il becco in
pasticceria, e anche le mani. Il mi babbo mi
aveva preparato un banchettino per farmi arrivare
al piano di lavoro. Ma io volevo un mestiere
mio. È quel che insegno quotidianamente
a Penelope, a essere indipendente».
Papà Nannini la pensava diversamente, era all’antica.
«Non s’andava d’accordo», ricorda.
«Andavo ai concorsi canori con la complicità
della zia Anna. Mio padre scoprì tutto e l’affrontò:
“Cosa stai facendo alla mi figliola, portarla
in quei troiai!”. Loro erano ostinati, mi vedevano
come insegnante di lettere o a occuparmi
dell’azienda di famiglia. Io più ostinata
di loro. Esisteva altra soluzione alla fuga?».
Penelope, dice, è attratta da tacchi e gonne,
esattamente il contrario del maschiaccio che
era lei. «Ci dovetti rinunciare a causa dell’immagine
androgina che mi ero creata. Mio padre
la minigonna me la tagliò a quattordici anni
e io per reazione da quel momento solo pantaloni.
Presi a ubriacarmi e ad andare in giro
per Milano a far provini (finché non incontrai
la Maionchi) e quando cercavano di farmi vestire
come Mina me la davo a gambe. Penelope
è il riscatto della mia femminilità».


La Repubblica 7 febbraio 2015