DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il Partito dell’amore capitolino



di Fabio Torriero

Il vero capo del “partito dell’amore”
non è Cicciolina o Moana Pozzi (ricordiamo
tutti la loro lista tanti anni
fa), nemmeno Silvio Berlusconi, indicato
come il suo massimo e compulsivo rappresentante,
ma il sindaco di Roma Ignazio
Marino, neo-sindaco di Amsterdam.
Ebbene sì, come da lui stesso evidenziato
in molti manifesti apparsi per le strade
della Capitale, “a Roma c’è l’amore”.
Magari non funzionano i servizi, le buche
sono ovunque, la città è sporca, è abbandonata
a se stessa, la legalità latita (come
le gazzelle della Polizia), le periferie sono
diventate il teatro e il palcoscenico di una
triste e violenta guerra tra poveri (si è visto
a Tor Sapienza, a Corcolle), italiani per
diritto di suolo contro italiani per diritto
di sangue… c’è Mafia capitale, ma i romani
hanno l’amore. E perché? Quale sarebbe
il metro di questo inaspettato, virtuoso
primato? La risposta è semplice: Marino
si è affrettato a registrare le unioni gay
(violando la legge italiana), e la sua città
potrebbe ospitare il primo modello urbano
di tolleranza civica nei confronti della
prostituzione.
L’idea ce l’ha avuta il mini-sindaco Santoro
ed è inutile, in questa sede, ricordare
le posizioni espresse sia dall’Osservatore
Romano, sia dal Comandante dei Vigili
Clemente, che ha ipotizzato il reato di
favoreggiamento della prostituzione, sia
dal prefetto della Capitale, Pecoraro, il
quale ha spiegato che le zone a luci rosse
a Roma «non si possono fare, perché
significherebbe ammettere la prostituzione,
dire cioè che è lecita. E nel momento
in cui si indicano delle zone si configura il
favoreggiamento».
Quello che ci preme sottolineare, entrando
nel dettaglio, e guardando la cosa in

modo approfondito, è l’ulteriore con-
creto tassello di una visione della città,
della polis e dell’amministrazione, che
discendono direttamente da un preciso
progetto ideologico di vita, che si intende
imporre a 360 gradi. Gradualmente, ma
inesorabilmente. E che ha a che fare con
le peculiarità culturali e politiche di una
sinistra, eternamente in bilico tra mondo
reale e altro mondo possibile.
Santoro parla di un piano in tre punti:
mandare per strada operatori che offrono
un’alternativa alle vittime del racket, rendere
più efficace la presenza delle Forze
dell’Ordine sul territorio interessato e,
infine, implementare un’educazione sentimentale
nelle scuole per far crescere i
bambini in quartieri più puliti.
È l’ennesimo buonismo pedagogico,
estremamente sofisticato, che va decodificato
e smascherato con forza.
Insomma, per combattere il racket della
prostituzione (la sinistra non l’ha sempre
considerata una terribile schiavitù?) la ricetta
è legalizzare, tollerare, per governare
un fenomeno negativo che si configura
come reato. Più o meno lo stesso
concetto che è stato usato in passato per
l’aborto (per arginare l’aborto clandestino),
e viene usato oggi per arginare la
droga e tante altre forme di devianza. L’obiettivo
non è quindi il valore della vita,
la sua dignità, la sua sacralità (finalità
che restano volutamente e scientemente
sullo sfondo), ma il principio economico,
il dato materiale per sottrarre il mercato
alla criminalità. Come se il mercato, in
quanto tale, possa svolgere una funzione
moralizzatrice.
Ergo, si legalizza, si tollera un reato (la
prostituzione) per correggerlo, limitarlo,
creando zone franche, di sospensione
della legalità al fine di combattere l’illegalità,
che invece, andrebbe combattuta
sul versante istituzionale proprio della
lotta alla criminalità (le Forze di Polizia
e tutti i soggetti interessati all’ordine
pubblico fortemente ridimensionati dalle
recenti politiche di risparmio). La questione
morale, come sempre, viene messa
di sfondo. Un pessimo e diseducativo segnale
che fa il paio, tra l’altro, con l’idea
bislacca dell’assessore Danese (guarda
caso, sempre dell’amministrazione Marino)
di premiare di fatto chi ruba: trovare
lavoro, assumere ufficialmente i rom (dimenticando
i tanti romani disoccupati)
«per assegnarli al compito di reperimento
e selezione dei rifiuti urbani e dei materiali
in disuso». Loro i rom, esperti di rifiuti
urbani e selezione quotidiana del rame. E
la ragione sociale è sempre la stessa: legalizzare
i rom per integrarli e limitare i
reati.
Senza contare poi (il punto 2 del piano
“zone a luci rosse”) che distogliere le Forze
dell’Ordine dalla presenza sul territorio,
già resa effimera dai tagli, a discapito
della sicurezza pubblica, per concentrarle
nella zona a luci rosse, a presidio dell’illegalità,
sembra più una battuta che una
decisione politica da commentare razionalmente.
Ma il riferimento ai quartieri più puliti
dove i bambini possano giocare in libertà,
deve far riflettere seriamente. E qui nessuno
nega il diritto dei piccoli e il diritto
di tutti i cittadini, di vivere in quartieri
tranquilli e verdi. Il tema diventa inquietante
ed emblematico di una certa filosofia
cinica e arida, egoista e pratica, se
lo colleghiamo proprio al progetto “luci
rosse”. In soldoni, se tutte le prostitute
andranno nella zona prescelta, spariranno
dagli altri quartieri e il problema sarà
risolto. Basta che gli occhi degli abitanti
degli altri quartieri non vedano più il miserabile
spettacolo notturno che al momento
sono costretti a vedere.
E il tema della prostituzione? Resta, resterà.
La verità in qualche modo va guardata
in faccia e va detta. Il tema non è
soltanto la pedagogia sociale, non è
soltanto il racket. Le donne, come i piccoli,
tutti i deboli, non vanno sfruttati o
nel caso specifico, obbligati a vendersi.
Vendere la propria dignità per vivere. La
società dovrebbe porre le condizioni per
evitare sul nascere tali drammi (politiche
del lavoro, di inserimento sociale, tutela
della famiglia etc). Il tema è la rivoluzione
antropologica in atto.
Questi elementi, queste idee amministrative
(l’abbiamo scritto all’inizio), sono
unicamente l’apripista, la mattonella di
una visione ben precisa della vita e della
società. Non è una novità: una certa cultura
libertaria, che parte dal nostro ’68,
considera la prostituzione (se sganciata
dalla schiavitù e dalla costrizione), come
la droga (nel senso di scelta individuale),
un diritto. Un desiderio che la legislazione
dovrà ratificare, certificare, normare.
È e sarebbe il trionfo della società delle
pulsioni dell’io, dove anche il diritto di
morire, di far morire per il nostro bene
(l’eutanasia, l’aborto) saranno le facce
della stessa medaglia.
Qualcuno ricorderà il noto slogan degli
anni Settanta: l’utero è mio e lo gestisco
io. Era il tempo del femminismo, della
cosiddetta “maternità responsabile”, appunto,
l’aborto; battaglie che connotavano
un “utero etico”, una soggettività
anche sessuale al servizio di lotte civili
e culturalmente ben caratterizzate (era
l’ideologia del “partito radicale di massa”
che stava approntando il suo armamentario).
Ora grazie alle nuove politiche di
sperimentazione civica (la tolleranza sulla
prostituzione), passeremo dall’utero
etico all’utero commerciale? O ci siamo
già passati?

La Croce 12 febbraio 2015