DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

OmoFamiglie figli svantaggiati Uno studio appena pubblicato sul British Journal of Education, Society & Behavioural Science dimostra che nei bambini allevati da coppie omosex “i problemi emozionali sono prevalenti per oltre il doppio rispetto ai bambini che sono allevati in famiglie eterossessuali”.



Uno studio appena pubblicato sul British Journal of Education, Society & Behavioural Science, una rivista scientifica peer-rewieved (cioè sottoposta a controlli incrociati di altri specialisti del settore) dimostra che nei bambini allevati da coppie omosex “i problemi emozionali sono prevalenti per oltre il doppio rispetto ai bambini che sono allevati in famiglie eterossessuali”. VediQui.  

Lo scopo della ricerca era verificare se la tesi secondo cui i bambini con genitori dello stesso sesso non soffrano di nessuno svantaggio nel benessere emozionale anche in una ricerca effettuata su un ampio strato di popolazione, e non con un campione limitato a quel genere di bambini. La ricerca è stata condotta su un campione di 207.007 bambini, inclusi 512 con genitori dello stesso sesso, ed è stata condotta dal U.S. National Health Interview Survey. Il risultato è che problemi emozionali sono apparsi con oltre il doppio della frequenza nei bambini con genitori omosessuali.   
La conclusione è stata che le coppie eterosessuali presentano un livello di rischio molto minore. L’autore della ricerca, il sociologo Paul Sullins afferma che “Non è più corretto affermare che nessuno studio ha rilevato che i bambini nelle famiglie con genitori dello stesso sesso siano svantaggiati in relazione a quelli delle famiglie eterosessuali”. 

Fino ad oggi gli studi su questo tipo di bambini si basavano su piccoli numeri. In uno studio pubblicato nel 2010 un ricercatire ha trovato che il campione medio di 39 studi sull'argoemtno era di 49 unità. E solo quattro erano campioni "random": negli altri casi erano state contattate coppie omosessuali. 



Abuso della credulità popolare

di Renzo Puccetti
Giuliano Guzzo

«In assenza di certezze scientifiche
o dati di esperienza, costituisce
mero pregiudizio la convinzione
che sia dannoso per l’equilibrato
sviluppo del bambino il fatto di vivere
in una famiglia incentrata su una coppia
omosessuale». Era quanto il tribunale dei
minori di Bologna metteva nero su bianco
per respingere l’appello del PM contro il
decreto di affido di un minore ad una coppia
omosessuale.
Se è sempre illusoriamente improprio
parlare di “certezze scientifiche”, tanto
più in scienze deboli come la medicina, la
psicologia e la sociologia, tuttavia il quadro
che progressivamente si va delineando
dai risultati della ricerca sui minori e
la struttura familiare è questo: i bambini
stanno meglio quando vivono con il loro
padre e la loro madre. L’altro dato che
sempre più assume solidità è questo: i
bambini che crescono in famiglie dove le
figure parentali appartengono allo stesso
sesso, manifestano condizioni peggiori
nell’ambito della salute e della performance.
L’ultima pietra posta nell’edificio
scientifico giunge dal British Journal of
Education, Society & Behavioural Science.
L’autore della ricerca, Donald Paul Sullins,
ha utilizzato come campione il National
Health Interview Survey (NHIS), un dataset
che con le sue 75.000-100.000 interviste
all’anno condotte su un campione rappresentativo
di famiglie, costituisce una delle
fonti primarie d’informazioni sulla salute
degli americani. Per ciascuna famiglia
intervistata viene scelto in modo casuale
un figlio riguardo al quale gli adulti sono
invitati a fornire le informazioni richieste.
In questo studio sono state esaminate le
risposte ottenute in 17 anni (1997-2013)
da 1.390.999 adulti che hanno fornito
informazioni su loro stessi e su 207.007
minori.
La metodologia dello studio ha consentito
di identificare 2.751 coppie dello stesso
sesso (2,304 conviventi e 447 sposate;
1.387 maschili e 1.384 femminili. Tra
queste, 582 coppie (406 femminili e 176
maschili) avevano dei figli minorenni a
casa, per un totale di 512 bambini e ragazzi
che vivevano in case dove gli adulti
erano legati da vincoli omosessuali. È
stata esplorata la presenza di eventuali
problemi emotivi, comportamentali o
relazionali attraverso l’uso combinato di
due procedure distinte. Le variabili di cui
è stato tenuto conto sono state il sesso,
l’età, la razza dei bambini, la scolarità dei
genitori, il reddito familiare, eventuali
episodi di bullismo di cui sono stati vittime
negli ultimi sei mesi, la proprietà o
meno della casa, la presenza di disturbi
mentali tra i genitori.
I risultati del lavoro di Sullins mostrano
che la probabilità di problemi psicologici
risulta due-tre volte maggiore tra i bambini
e i ragazzi che vivono con genitori
omosessuali; 8 dei 12 parametri psicometrici
indagati sono risultati deteriorati.
Il disturbo da deficit di attenzione ed iperattività
(ADHD) mostrava incidenza più
che doppia, i disturbi dell’apprendimento
erano più frequenti del 76%, i medici di
medicina generale erano stati interpellati
per problemi psichici dei minori con una
frequenza due volte e mezzo più elevata.
La proprietà o meno della casa, gli episodi
di bullismo e la presenza di seri disturbi
mentali tra i genitori risultavano incrementare
il rischio di problemi emotivi e
comportamentali tra i figli di coppie gay,
mentre i legami biologici tra minore ed
adulti sono risultati l’elemento preponderante
nella spiegazione delle differenze
tra minori in coppie etero od omosessuali.
Tra i figli biologici di coppie eterosessuali
sposate l’incidenza di disturbi psico-affettivi
è infatti risultata del 4,3% contro
il 7,1% dei figli dell’intero gruppo di genitori
eterosessuali e il 14,9% dei minori
che vivono con adulti omosessuali, tra cui
“non c’è corrispondente gruppo di bambini
con un livello parimenti basso di problemi
emotivi”, quindi anche quelli che
vivono con omosessuali sposati. Contra
riamente a quanto da qualcuno già messo
in giro, i figli con genitori dello stesso
sesso risultavano infatti avere maggiori
problemi non solo dei figli con genitori
eterosessuali sposati, ma anche di quelli
adottivi, conviventi e persino single (triplo
considerando i cofattori e del 50%
maggiore inserendo i legami biologici, a
indicazione, secondo il professor Sullins,
che la struttura familiare è significativa
nella misura in cui essa riflette principalmente
i legami biologici). Come ogni studio
trasversale anche lo studio di Sullins
non è in grado di spiegare le cause, ma
è già significativo evidenziare l’associazione
di famiglia biologica integra con
migliore condizione dei figli da una parte
e genitorialità omosessuale con peggiore
stato dei minori dall’altra. Un altro
limite consiste nella rilevazione indiretta
attraverso i genitori delle condizioni dei
bambini, elemento questo che verosimilmente
è assai meno rilevante in un campionamento
randomizzato come quello
dello studio di Sullins rispetto agli studi
non randomizzati.
Com’era prevedibile lo studio è già stato
messo nel mirino della gioiosa macchina
da guerra arcobaleno. L’autore è un prete
cattolico e pertanto lo studio è viziato,
hanno detto. Se si vuole sostenere che un
sacerdote non possa essere qualificato a
svolgere una ricerca scientifica, allora chi
lo fa dovrebbe essere disposto a considerare
inattendibili le leggi sulla trasmissione
genetica e il big bang, notoriamente
frutto della mente del Monaco agostiniano
Greg Mendel e del sacerdote Georges
Edouard Lemaître (per un’ampia rassegna
di scienziati religiosi si legga “Scienziati
in tonaca” di Francesco Agnoli e Andrea
Bartelloni, Lindau, 2013).
Il professor Sullins ha pubblicato decine
di studi sociologici su riviste peer review
ed è referre per numerose riviste
scientifiche tra cui l’American Journal of
Sociology, la più antica rivista di sociologia
d’America, collegata al dipartimento
di sociologia della Chicago University e
l’American Sociologica Review, organo
ufficiale dell’associazione dei sociologi
americani. Se invece si ritiene la fede religiosa
un conflitto d’interesse insanabile,
allora a seguirlo i preti non dovrebbero
parlare di teologia e gli ateologi di ateologia.
Ed è un argomento che si presta
ad un rovescio: la richiesta di rivelare
l’orientamento e le pratiche sessuali da
parte di tutti i ricercatori che affrontino
l’argomento dell’omosessualità, o la propria
posizione ideologica, tanto più in un
ambito come quello sociologico dove, secondo
il vice-cancelliere della Chapman
University, Richard Redding, i ricercatori
progressisti sono 8-30 volte più numerosi
dei conservatori.
Della professoressa Charlotte Patterson,
docente del dipartimento di
psicologia dell’Università della
Virginia, sappiamo invece che
nelle 25 pagine di curriculum
vitae pieno zeppo di attestati,
incarichi e premi, non c’è traccia
della sua omosessualità dichiarata
durante l’interrogatorio
in un processo in Florida, non
c’è traccia della sua ammissione
davanti alla corte che le proprie
ricerche erano viziate dall’impiego
come campione di amici
omosessuali (un campione sicuramente
neutro), non c’è traccia
del suo rifiuto di consegnare
la copia della documentazione
originale usata per le proprie
ricerche né dell’esclusione dei
suoi studi decisa dalla corte
d’accordo con i suoi stessi avvocati.
Eppure gli stessi lavori della
professoressa Patterson sono
inclusi numerosi nell’elenco
bibliografico dell’American Psychological
Association e dell’American
Academy of Pediatrics
concorrendo a provare che “è
Okay avere i genitori Gay”.
Qualcuno ha sollevato obiezioni
sulla rivista che ha pubblicato la
ricerca, considerata non scientifica.
Si tratta in realtà di una rivista
peer review con procedura
di revisione trasparente inclusa nell’Index
Medicus con altre 14 riviste dello stesso
editore. È stato detto che i risultati sono
contraddetti da quelli di un’altra ricerca
che ha esaminato lo stesso dataset NIHS
presentato all’ultima assemblea della Population
Association of America. Peccato
che in quel rapporto gli autori abbiano
preso in considerazione un solo indicatore,
lo stato generale di benessere riferito
dai genitori. Sarebbe stato sorprendente
trovarlo diverso tra i figli delle coppie gay
dal momento che si tratta di un parametro
che cambia assai poco tra le diverse
strutture familiari.
Si dice che si dovrebbero controllare situazioni
simili: coppie eterosessuali sposate
e stabili con coppie omosessuali
sposate e stabili e confrontare i rispettivi
figli. Piccolo problema: tra i 15.000 soggetti
di 18-39 anni esaminati dal professor
Regnerus (la cui ricerca ha subito un
impressionante tentativo di demolizione,
ma è infine stata riconosciuta corretta da
un’indagine interna della Texas University
e dall’editor della rivista scientifica che
l’ha pubblicata, rivelando, ancora secondo
il professor Redding, l’esistenza di un
“gruppo di pensiero sociopolitico operante
nella comunità delle scienze sociali”
che spinge a “giocare in modo politicamente
sicuro, evitare le domande controverse,
pubblicare le conclusioni giuste”),
solo 175 hanno dichiarato di avere una
madre che ha avuto una relazione omosessuale,
di questi solo 85 hanno vissuto
con la partner della madre, 31 per meno
di un anno, 20 per non più di due anni, 5
per 3 anni e 8 per 4 anni; solo 29 hanno
passato almeno 5 anni con la partner della
madre e solo due hanno trascorso con
essa tutta la minore età fino ai 18 anni.
Nessuno ha invece potuto affermare di
essere vissuto col padre e col suo partner
per tutti i primi 18 anni di vita.
L’instabilità è la regola delle unioni omosessuali,
la stabilità l’eccezione. I campioni
del New Family Structures Study
(NFSS), dell’Early Childhood Longitudinal
Study (ECLS), dell’US Census (ACS), del
Canadian Census e del NHIS confermano
ciò che i giudici bolognesi hanno definito
un pregiudizio e smentiscono quella
montagna di letteratura pseudoscientifica
volta ad ottenere fini politici: dimostrare
che i figli crescono bene, se non
meglio, con due adulti dello stesso sesso.
Per comprendere come l’obiettivo sia
tecnicamente raggiungibile si deve pensare
alla questione come ad una partita di
un campionato dove una squadra ha due
risultati utili su tre a disposizione. Il pareggio
corrisponde al risultato degli studi
che concludono che “non c’è differenza”.
Per potere dire che non c’è differenza
le vie più efficaci sono due: ignorarla, o
schivarla. Nel primo caso basta prendere
un campione molto piccolo grazie al quale
la differenza non può essere vista. Così
come potrete affermare che non vi sono
batteri in un tessuto in cancrena cercati
con strumenti d’ingrandimento usando
un binocolo, allo stesso modo quanto più
sarà piccolo il campione tanto più potrete
celare differenze grandi.
Prendo a caso uno dei numerosissimi studi
della premiata ditta di normalizzazione
omogenitoriale Golombok & Tasker pubblicato
su Developmental Psychology nel
1996 e leggo di appena 25 casi e 21 controlli.
Il secondo sistema è quello di annullare
le differenze selezionando il campione
oggetto di studio. Immaginate di
volere dimostrare che non esistono bambini
di colore in America, cosa ci sarebbe
di meglio per raggiungere il risultato che
arruolare nello studio solo le famiglie dei
membri del Ku Klux Klan? Prendo un altro
articolo di Susan Golombok & Co. pubblicato
su Child Development del 2013 e
leggo di “gruppi di supporto per famiglie
adottive gay e lesbiche che hanno fornito
informazioni per la ricerca dei loro
membri”. Il celebrato studio australiano
ACHESS (Australian study of child health
in same-sex families) che tanto ha eccitato
la fantasia di Roberto Saviano circa una
presunta superiorità della genitorialità
omoparentale, è stato condotto proprio
con questa modalità di arruolamento.
Quando leggete negli studi le parole
“snowball sampling” o “convenience sample”
potete essere certi che si tratta di
questa tecnica. Sommare studi di piccole
dimensioni e di infima qualità non conduce
ad altro che al cumulo della spazzatura
spacciata per una verità scientifica. Un
altro studio appena pubblicato ancora da
Sullins sul Journal of Scientific Research
& Reports offre convincenti conferme:
confrontando tre studi non randomizzati
con due studi rappresentativi della popolazione
generale è stato dimostrato che
mentre nei primi il 79,3% dei parametri
esaminati era migliore per i figli delle
coppie gay, negli studi randomizzati la
percentuale crollava a zero.
A ben vedere dunque ciò che può dire la
scienza, quella minimamente seria ed intellettualmente
onesta, è che avere una
mamma e un papà old style è la situazione
migliore che possa sperare un bambino. Il
direttore di questo giornale lo sta dicendo
in tutta Italia da oltre un anno. Si può
dire, deliberare e sentenziare ciò che si
vuole, ma la biologia conta. Con il dovuto
rispetto, continuare a diffondere idee
contrarie pare sempre più roba da articolo
661 del codice penale: abuso della
credulità popolare. 

La Croce 17 febbraio 2015