La
grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà.
Tutto sarà negato.
Tutto diventerà un credo...
Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due
più due fa quattro.
Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono
verdi in estate.
Noi ci ritroveremo a difendere,
non solo le incredibili virtù
e l’incredibile sensatezza della vita umana,
ma qualcosa di ancora più
incredibile,
questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto.
Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili.
Guarderemo
l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio.
Noi saremo tra quanti
hanno visto eppure hanno creduto.
Chesterton, Eretici, 1905
GIOIELLI PREZIOSI
Nella
Sacra Scrittura, la misericordia di Dio è presente lungo tutta la storia del
popolo d’Israele. Con la sua
misericordia, il Signore accompagna il cammino dei Patriarchi, dona loro dei
figli malgrado la condizione di sterilità, li conduce per sentieri di grazia e
di riconciliazione, come dimostra la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli. E
penso ai tanti fratelli che sono allontanati in una famiglia e non si parlano.
Ma quest’Anno della Misericordia è una buona occasione per ritrovarsi,
abbracciarsi e perdonarsi e dimenticare le cose brutte. Ma, come sappiamo, in
Egitto la vita per il popolo si fa dura.Dio «non è indifferente» , non
distoglie mai lo sguardo dal dolore umano. Il Dio di misericordia risponde e si
prende cura dei poveri, di coloro che gridano la loro disperazione. Dio ascolta
e interviene per salvare, suscitando uomini capaci di sentire il gemito della
sofferenza e di operare in favore degli oppressi... Il Signore, mediante
il suo servo Mosè, guida Israele nel deserto come fosse un figlio, lo educa
alla fede e fa alleanza con lui, creando un legame d’amore fortissimo, come
quello del padre con il figlio e dello sposo con la sposa.
A tanto
giunge la misericordia divina. Dio propone un rapporto d’amore particolare,
esclusivo, privilegiato. Quando dà istruzioni a Mosè riguardo all’alleanza,
dice: «Se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi
sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta
la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa». Certo,
Dio possiede già tutta la terra perché l’ha creata; ma il popolo diventa per
Lui un possesso diverso, speciale: la sua personale “riserva di oro e argento”
come quella che il re Davide affermava di aver donato per la costruzione del
Tempio.
Ebbene,
tali noi diventiamo per Dio accogliendo la sua alleanza e lasciandoci salvare
da Lui. La misericordia del Signore rende l’uomo prezioso, come una ricchezza
personale che Gli appartiene, che Egli custodisce e in cui si compiace. Sono
queste le meraviglie della misericordia divina, che giunge a pieno compimento
nel Signore Gesù, in quella “nuova ed eterna alleanza” consumata nel suo
sangue, che con il perdono distrugge il nostro peccato e ci rende
definitivamente figli di Dio (cfr 1 Gv 3,1), gioielli preziosi
nelle mani del Padre buono e misericordioso. E se noi siamo figli di Dio e
abbiamo la possibilità di aver questa eredità - quella della bontà e della
misericordia - in confronto con gli altri, chiediamo al Signore che in
quest’Anno della Misericordia anche noi facciamo cose di misericordia; apriamo
il nostro cuore per arrivare a tutti con le opere di misericordia, l’eredità
misericordiosa che Dio Padre ha avuto con noi. (Papa Francesco, Udienza del 27
Gennaio 2016)
INDIFFERENZA (UN
APPELLO PER TUTTI NOI…)
"C’è
chi è ben informato, ascolta la radio, legge i giornali o assiste a programmi
televisivi, ma lo fa in maniera tiepida, quasi in una condizione di
assuefazione: queste persone conoscono vagamente i drammi che affliggono
l’umanità ma non si sentono coinvolte, non vivono la compassione. Questo è l’atteggiamento
di chi sa, ma tiene lo sguardo, il pensiero e l’azione rivolti a sé
stesso». Siamo invasi da notizie e informazioni ma questo non porta
all’«aumento di attenzione ai problemi, se non è accompagnato da un’apertura
delle coscienze in senso solidale. Anzi, esso può comportare una
certa saturazione che anestetizza e, in qualche misura, relativizza
la gravità dei problemi». In altri casi, prosegue Francesco
, «l’indifferenza si manifesta come mancanza di attenzione verso la realtà
circostante, specialmente quella più lontana. Alcune persone preferiscono non
cercare, non informarsi e vivono il loro benessere e la loro
comodità sorde al grido di dolore dell’umanità sofferente. Quasi senza
accorgercene, siamo diventati incapaci di provare compassione per gli altri,
per i loro drammi, non ci interessa curarci di loro, come se ciò che accade ad
essi fosse una responsabilità estranea a noi, che non ci compete" (Papa
Francesco)
IMPARARE DALLA
STORIA CHE COSA E' IN GIOCO
(IN PARLAMENTO
E IL 30 GENNAIO AL CIRCO MASSIMO)
DIVULGATE A
MANETTA…
HITLER E LA CHIESA CATTOLICA
PER LA MEMORIA DI QUESTE AGGHIACCIANTI PAROLE (E DEI FATTI
CHE NE CONSEGUIRONO) NESSUNA GIORNATA. MA C'E' IL FAMILY DAY DEL 30 GENNAIO, E
OGNI GIORNO DELLA STORIA IN CUI SI ANNUNCIA IL VANGELO. PERCHE' QUESTE PAROLE
LE LEGGIAMO E ASCOLTIAMO OGNI GIORNO NEL TRIPUDIO GENERALE DEI MEDIA, E LE
VEDIAMO DIVENTARE LEGGI CHE IL MONDO DEFINISCE CIVILI...
Cosa pensava Hitler della Chiesa cattolica? Andiamo alle
fonti. Partiamo dal celeberrimo Mein Kampf . Qui si possono rintracciare almeno due idee
interessanti: la Chiesa cattolica è, per il futuro dittatore
della Germania, “in conflitto con le scienze esatte e con l’indagine
scientifica”, mentre il cristianesimo si è imposto grazie ad una “fanatica
intolleranza”. “Oggi il singolo deve constatare con dolore, scrive
Hitler, che nel mondo antico, assai più libero del moderno, comparve
col cristianesimo il primo terrore spirituale” (Adolf Hitler, Mein
Kampf, Ed. Sentinella d’Italia, Monfalcone, 1990, p. 111, 105, 106). Adolf Hitler ritorna sul cristianesimo,
più e più volte, nel corso dei suoi Discorsi a tavola, con i
gerarchi nazionalsocialisti, tra il 1941 e il 1944. La sera dell’11 luglio
1941 Hitler afferma: “Il colpo più duro che l’umanità abbia ricevuto è
l’avvento del cristianesimo. Il bolscevismo è figlio illegittimo del
cristianesimo. L’uno e l’altro sono una invenzione degli Ebrei. E’ dal
cristianesimo che la menzogna cosciente in fatto di religione è stata
introdotta nel mondo. Si tratta di una menzogna della stessa natura di quella
che pratica il bolscevismo quando pretende di apportare la libertà agli uomini,
mentre in realtà vuol far di loro solo degli schiavi… Il cristianesimo è stata
la prima religione a sterminare i suoi avversari in nome dell’amore. Il suo
segno è l’intolleranza” (Adolf Hitler, Conversazioni a tavola di
Hitler, Goriziana, Gorizia, 2010, p. 45). Nella notte tra il 20 e il 21 febbraio 1942 Hitler afferma: “Il
cristianesimo (a differenza delle religioni animiste pagane,
ndr) promulga i suoi dogmi con la forza. Una simile religione porta con
sé l’intolleranza e la persecuzione. Non ce n’è di più sanguinose”. Subito
dopo parla dell’osservatorio astronomico che sta facendo costruire a Linz, per
combattere l’ignoranza scientifica (idem, p. 308). Il 9 aprile 1942, nel pieno
dei massacri di cui è colpevole, afferma: “La Chiesa si è piegata alla
necessità di imporre il suo codice morale con la massima brutalità. Non ha
indietreggiato neppure dinnanzi alla minaccia di rogo, dando alle fiamme, a
migliaia, uomini di grande valore. La nostra società attuale è più umana di
quanto non lo sia mai stata la Chiesa” (idem, p. 389). Ai cristiani e
alla Chiesa, nelle 680 pagine dei Discorsi, tra una dichiarazione
di vegetarianismo e una di animalismo, Hitler, rieccheggiando spesso Nietszche,
imputa almeno le seguenti colpe: di aver incendiato Roma all’epoca di Nerone;
di aver rovinato l’impero romano; di aver distrutto biblioteche e testi
antichi; di aver torturato i nemici; di aver bruciato milioni di streghe; di
aver negato “le gioie dei sensi”; di instillare una “ribellione
contro la natura, una protesta contro la natura” (promuovendo il matrimonio
monogamico e indissolubile…); di privilegiare i malformati e i malriusciti, i
poveri e gli ignoranti; di proporre un “paradiso insipido”, tutto canti e
alleluia; di minacciare la gente con l’inferno (Hitler non ci credeva proprio,
ad un giudizio finale); di basarsi su una “storia puerile”, “invenzione
di cervelli malati”, che inventa un Dio personale che non esiste,
l’assurdità della resurrezione, e un “preteso aldilà” che negherebbe
importanza alla vita terrena… Riguardo
ai preti essi sono immancabilmente “ripugnanti”, “perversi”
e i missionari “gli ultimi dei maiali”, mentre la Chiesa in generale “non ha
che un desiderio: la nostra rovina”. Ma non c’è alcuna dubbio: “La nostra
epoca vedrà indubbiamente la fine della malattia cristiana” (p. 326). Quanto al rapporto tra scienza e fede il
pensiero già espresso nel Mein Kampf ritorna anch’esso,
insistentemente. La sera del 24 ottobre 1941: “la religione è in perpetuo
conflitto con lo spirito di ricerca. L’opposizione della Chiesa alla scienza fu
talvolta così violenta da sprizzare scintille”, tanto che oggi l’Evoluzione
è in contrasto con la credenza puerile nella Creazione (idem, p. 110). Il mondo
antico, pre-cristiano, invece, “amava la chiarezza. La ricerca scientifica
vi veniva incoraggiata” (idem, p. 301). Cosa intende Hitler per “scienza”? All’epoca, non solo per
lui, sono “scientifici” l’eugenetica (con i suoi corollari: eutanasia di
persone malate e aborti di bambini malformati o nati da matrimoni misti), il
razzismo (i nazisti ritenevano di avere dalla loro la biologia e
l’evoluzionismo, nella sua versione materialista), e la produzione di bambini
tramite gli accoppiamenti stabiliti dal regime, tra ariani e ariane
certificati. Con annessa nascita di migliaia di bambini senza genitori.
(http://www.libertaepersona.org/. Per approfondire: F. Agnoli, Il
secolo senza croce, SugarCo)
FOLLIA GIACOBINA 2.0
I conservatori di oggi provano istintivamente il dovere di opporsi
all’ideologia gender per lo stesso motivo per cui i conservatori di tutta
Europa si erano immediatamente schierati compatti contro la Rivoluzione
Francese. A ogni latitudine infatti i fautori delle nozze gay e delle unioni
civili sono animati dagli stessi princìpi cardine che avevano spinto all’azione
più o meno sanguinaria i loro precursori, che al posto della bandiera arcobaleno
sfoggiavano la coccarda tricolore: il riconoscimento di un’eguaglianza onnicomprensiva
fra gli individui e la certezza di essere nel giusto in virtù di ragionamenti che
equiparano tutti gli uomini quindi valgono al di fuori di concreti contesti
storici e geografici. Rispetto ai rivoluzionari cromwelliani o jeffersoniani, i
giacobini nutrivano l’ambizione di non voler soltanto rinegoziare un patto
politico interno ai propri confini e avvantaggiare l’una o l’altra classe:
volevano affermare un principio universale eterno e infatti non scrivevano
locali dichiarazioni di indipendenza bensì planetarie, onnivore dichiarazioni
dei diritti dell’uomo e del cittadino, senza specificare quale tipo di uomo né
cittadino di cosa. Lavoravano per il beneficio del mondo intero – “la
rigenerazione del genere umano”, secondo Tocqueville – e il loro ecumenismo era
tale da non soffermarsi su qualche testa che rotolava per terra se non come
effetto collaterale di un miglioramento inarrestabile, inesorabile. Così i
sostenitori delle nozze gay, che in Italia si fanno più timidi sostenitori
delle unioni civili e della lana caprina. Lo slogan “love is love” significa
égalité fra tutti gli uomini, quale che sia la natura dei rapporti che li lega
agli altri e indipendentemente dal contesto sociale in cui i singoli individui si
ritrovano a operare e a rispondere delle conseguenze delle proprie azioni. Il diritto
a sposare chi si ama significa voler affermare su vasta scala la stessa liberté
che la Francia rivoluzionaria voleva esportare in Europa sulla punta delle
baionette. Per sostenersi e autoalimentarsi propugnano dunque deduzioni di
logicità tanto asettica da far spavento, a cominciare dalla tautologia per cui
l’amore è l’amore quindi si può sposare chiunque. Le loro idee sono ciò che
Hippolyte Taine definiva “il trionfo della ragione pura e dell’irragionevolezza
pratica”, il cui esercizio riduce la nazione a “malato preso dal delirio della
propria fantasia, in preda alle suggestioni della ragione ragionante, della
ragione che dimentica il mondo sul quale dovranno svolgersi i propri
esperimenti e manda in rovina le tavole dei vecchi valori”. I loro ideali
astrusi invocano un diritto naturale di carattere universale che cede a una
pulsione collettiva all’eguaglianza, basata sull’idea generica di uomo
nonostante De Maistre ammonisse che “l’uomo, considerato nella sua
universalità, non esiste; è un prodotto dello spirito classico, ossia dell’astrattismo
filosofico”. A furia di impeccabili rivendicazioni, come spiegava Edmund Burke,
“si allontanano dalla grande e diritta via della natura” e poi si arrabbiano perché
la traduzione concreta di princìpi astratti porta a risultati opposti a quelli
prefissi, come quando Robespierre calmierò i prezzi per favorire gli acquisti
in teoria ma in pratica rese tutti più poveri: per questo Burke scrisse subito
che “quando avranno portato a termine la propria opera, avranno portato a
termine anche la propria rovina”. Sarà; fatto sta che la coccarda tricolore divenne
obbligatoria nel 1792, per la bandiera arcobaleno attendiamo fiduciosi. (Antonio Gurrado, Il Foglio 28 Gennaio 2016)
SEDARE PER SEMPRE
Dopo un
lungo processo e accese discussioni cominciati nel 2012, la Francia ieri si è
dotata di una nuova legge sul fine vita, che supera la precedente “loi
Leonetti”. Come ricordato da diversi parlamentari al Palazzo di Lussemburgo,
viene introdotta «un’eutanasia
mascherata» sotto le mentite spoglie della sedazione
terminale. Il testo introduce un «diritto alla sedazione profonda e continua»
fino al decesso per i malati in fase terminale. Quando un paziente è «affetto
da una malattia grave e incurabile», e la sua «sofferenza è refrattaria alle
cure» e si è davanti a una «prospettiva di vita» molto breve,
allora può essere addormentato e tutti i sostegni vitali, come
alimentazione e idratazione, possono essere interrotti. Oggi negli
ospedali francesi si usa la sedazione terminale per accompagnare il paziente
negli ultimi momenti della sua vita cercando di non farlo soffrire. È una
decisione difficile da prendere e gravida di conseguenze, visto che così
si toglie al paziente la possibilità di essere cosciente negli ultimi momenti
della sua vita. Introdurre il diritto alla sedazione invece, con
la possibilità di interrompere alimentazione e idratazione, è un modo per
«provocare deliberatamente la morte», come spiegato da Tugdual Derville, del
movimento Soulager mais pas tuer (Alleviare
ma non uccidere). «Il criterio dell’intenzione qui è determinante. Sovrapporre
alla sedazione l’arresto di alimentazione e idratazione è un modo molto
pericoloso di dissimulare l’eutanasia. Questa morte lenta e che
sopraggiunge mentre dormiamo, che la legge ci garantisce, si rivela di una
violenza inaudita». È significativo in questo senso che i parlamentari si
siano rifiutati di inserire nel testo di legge una frase per specificare
che «l’intenzione della sedazione non deve essere quella di provocare la
morte». L’articolo 3, inoltre, è stata introdotta una dicitura molto ambigua.
Un paziente cioè potrà richiedere la sedazione profonda non solo quand’è in uno
stato di fine vita, ma anche quando l’interruzione dei trattamenti
richiesta per qualsiasi motivo «sia suscettibile di provocare una
sofferenza insopportabile». Questa formulazione ambigua, che usa il criterio
soggettivo della “sofferenza insopportabile”, secondo gli esperti farà da
anticamera all’introduzione del suicidio assistito. Basterà che qualcuno si
rivolga ai giudici chiedendo di specificare meglio i diritti garantiti da
questo articolo. (Tempi.it )
APPROFONDIMENTI
“REVENANT” E I MARTIRI
È un film strano,
anzi straniante The revenant, arrivato nelle sale
cinematografiche lo scorso fine settimana. La vicenda è ambientata nei
primi decenni dell’800, quando, dopo che l’antica e immensa Louisiana fu
venduta dai francesi agli Stati Uniti nel 1803, si aprì una fase di spedizioni
nel Nord-Ovest americano, fra le migliaia di chilometri quadrati che si aprivano
tra St. Louis e le Montagne Rocciose, seguendo il corso del fiume Missouri. Fu
un’epoca di avventure nell’ignoto, di pionieri in cerca di fama e commercianti
senza scrupoli. Fu anche e soprattutto l’epopea dei trapper, cacciatori
estremi, galvanizzati da una richiesta di pellicce da parte di americani ed
europei che d’un tratto trasformò gli inermi castori in pepite d’oro
ambulanti. Il regista Alejandro González Iñárritu ha voluto portare sul
grande schermo l’aspetto atroce di quel mondo, fatto di avida competizione, del
confronto impari con una natura capace di portare al collasso psichico
(Meriwether Lewis, grande esploratore di quegli anni, dopo un’impresa con cui
avrebbe potuto campare di rendita, per denaro e onori, finì depresso e
alcolizzato e si suicidò a 35 anni) e soprattutto degli infiniti scontri con
tribù indiane di cui oggi è facile dimenticarsi la ferocia: Arikara, Piedi
Neri, Mandan, Sioux, Teste Piatte… la vera spina nel fianco dei cercatori di
fortuna. Ma, appunto, quello fu solo un aspetto. Ce ne fu un altro che il
film tralascia completamente, anche se dà un piccolo appiglio per arrivarci. È
nella scena in cui il protagonista Hugh Glass (Leonardo Di Caprio) vede in
sogno il figlio – avuto da un’indiana Pawnee e che gli è stato ucciso dal
compagno traditore Fitzgerald – mentre si erge muto fra le rovine di una chiesa
cattolica. Insolito rimando. Perché una chiesa non sembrerebbe c’entrare nulla
con trapper, pellerossa né con il personaggio storico di Hugh
Glass, realmente esistito. È questo l’altro grande aspetto dimenticato di
quella storia: il ruolo che una serie di missionari eroici, soprattutto
cattolici e in specie gesuiti, ebbero pressappoco negli stessi anni e lungo gli
stessi fiumi e sentieri battuti dai protagonisti di The revenant. Sfoderando
un coraggio e una fortezza di spirito non inferiore alla loro, anzi. Con
una differenza: si mossero non in cerca di guadagni materiali, ma per la
salvezza delle anime, e riuscirono a penetrare e conquistare il mondo indigeno
come nessun altro prima. Secondo alcuni storici fu solo la velocità e la
brutalità dell’espansionismo statunitense che impedì il nascere di esperienze
come le reducciones dell’America del Sud. I gesuiti Jean
de Brébeuf (1593-1649), Isaac Jogues (1607-1646) e altri sei compagni, uccisi
in diverse località di quello che oggi è lo Stato di New York, erano arrivati
dalla Francia come pionieri dello Spirito in un mondo distante come Marte e
compirono un’efficace opera di evangelizzazione fra gli indiani Uroni: li
istruirono, li allontanarono da costumi disumani, li battezzarono... Padre
Jogues, catturato da una tribù nemica degli Uroni, i Mohawk, dopo un anno di
prigionia e torture ritornò in patria sfregiato e con le dita di una mano
amputate. Poco dopo volle tornare fra i suoi indiani. Padre De Brébeuf,
catturato dagli Irochesi, anche loro nemici giurati degli Uroni, subì un
supplizio lento: venne ustionato con acqua bollente e carboni ardenti, gli
furono spezzate una a una le articolazioni, quindi tagliati uno dopo l’altro naso,
lingua, orecchie, gli furono cavati gli occhi. Non essendo riusciti a
strappargli urla di dolore, né a impedirgli fino all’ultimo di bisbigliare
«Gesù, abbi pietà di loro», i suoi carnefici dopo averlo ridotto a un tronco
senza vita gli mangiarono il cuore e ne bevvero il sangue: segno di ammirazione
per il suo coraggio e un modo per impossessarsene. E qualcosa del genere
effettivamente accadde. Fu proprio un gruppo di Irochesi che finì a Ovest,
fra le Montagne Rocciose, a tramandare l’ammirato ricordo di Brébeuf e
compagni. Così, 150 anni dopo, venuti a conoscenza della presenza di gesuiti
nell’avamposto di St. Louis, quegli indiani compirono quattro spericolate
spedizioni, di migliaia di chilometri, per chiedere con insistenza che uno dei
grandi «veste nera» andasse ad abitare fra loro. All’appello rispose
Pierre-Jean De Smet (18011873), gesuita belga, sorriso paterno e tempra
d’acciaio, che divenne in breve, tra infiniti viaggi a piedi o in canoa su e
giù per il Missouri, e altri fiumi come il Platte e lo Yellowstone, uno dei
maggiori conoscitori di quelle terre. Imparò a dormire in mezzo alla neve, a
cavarsela in condizioni proibitive, scalò montagne, si addentrò da solo, munito
di breviario e del suo amato clarinetto, un po’ come il gesuita del film Mission, in
mezzo ad accampamenti dove altri sarebbero stati presi immediatamente a colpi
di tomahawk. Ma per gli indiani era l’uomo bianco che parlava
«senza lingua biforcuta», che li difendeva dai soprusi dei cacciatori, dei
trafficanti di whisky, vera e propria droga di allora. Il successo che riscosse
lo rese il diplomatico di punta del governo federale – non certo simpatetico a
quei tempi verso i papisti spesso francofoni – nel trattare con i pellerossa. E
così fu assoldato e portato in palmo di mano da generali dell’esercito come
William Harney e William Sherman. Convertì con il suo esempio e anche con la
sua prestanza. Uno degli indiani che battezzò cercò di ucciderlo in
un’imboscata: De Smet riuscì a disarcionarlo da cavallo, a sopraffarlo nel
combattimento corpo a corpo e a strappargli l’ascia di guerra: la prova della
sua abilità e la pietà che mostrò verso il vinto conquistarono quest’ultimo al
Dio forte e misericordioso dei cattolici. De Smet lasciò una traccia
profonda, su cui poi altri si inserirono altri confratelli. Nel 1862, a
Mankota, furono impiccati 38 Sioux, catturati in seguito a una sollevazione nel
Minnesota che aveva causato centinaia di morti fra gli americani. Al momento
della sentenza, il colonnello in capo alla prigione disse ai condannati che
potevano scegliere un accompagnamento spirituale alla morte: un santone della
loro tribù, i due pastori protestanti presenti o un sacerdote cattolico, il
gesuita francese Augustin Ravoux (1815-1906). I missionari protestanti
conoscevano la lingua indigena perfettamente, erano in missione da 25 anni fra
i Sioux, mentre padre Ravoux da 18 aveva lasciato l’apostolato fra di loro per
gli scarsi risultati e pochi sacerdoti cattolici avevano stabilito altri
contatti. Per la sorpresa di tutti, 33 tra i condannati scelsero di
seguire il «veste nera». Ravoux rimase con loro quattro giorni, spiegando i
fondamenti della fede. Impararono a recitare il Credo, il Padre Nostro, l’Ave
Maria, l’atto di contrizione. Di fronte alla loro serietà e pietà «le lacrime mi
bagnavano il viso», scrisse il gesuita nel suo diario. I nuovi battezzati
spesero l’ultima notte serenamente, mentre i due indiani animisti si agitarono
nervosamente fino all’alba. La mattina seguente, i 33 si avviarono al patibolo
«senza mormorii di resistenza… animati da una grande speranza per il futuro».
Un anno dopo, trecento famiglie Sioux chiesero di essere visitate da Ravoux e
duecento indiani si fecero battezzare. (Avvenire, 27 Gennaio 2016)