DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

28 GENNAIO 2016



La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. 
Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo... 
Fuochi verranno attiz­zati per testimoniare che due più due fa quattro. 
Spade sa­ranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. 
Noi ci ritroveremo a difendere, 
non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, 
ma qualcosa di ancora più incredibile, 
questo immenso, impossibile uni­verso che ci fissa in volto. 
Combatteremo per i prodigi visi­bili come se fossero invisibili. 
Guarderemo l’erba e i cieli im­possibili con uno strano coraggio. 
Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto. 

Chesterton, Eretici, 1905



GIOIELLI PREZIOSI

Nella Sacra Scrittura, la misericordia di Dio è presente lungo tutta la storia del popolo d’Israele. Con la sua misericordia, il Signore accompagna il cammino dei Patriarchi, dona loro dei figli malgrado la condizione di sterilità, li conduce per sentieri di grazia e di riconciliazione, come dimostra la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli. E penso ai tanti fratelli che sono allontanati in una famiglia e non si parlano. Ma quest’Anno della Misericordia è una buona occasione per ritrovarsi, abbracciarsi e perdonarsi e dimenticare le cose brutte. Ma, come sappiamo, in Egitto la vita per il popolo si fa dura.Dio «non è indifferente» , non distoglie mai lo sguardo dal dolore umano. Il Dio di misericordia risponde e si prende cura dei poveri, di coloro che gridano la loro disperazione. Dio ascolta e interviene per salvare, suscitando uomini capaci di sentire il gemito della sofferenza e di operare in favore degli oppressi... Il Signore, mediante il suo servo Mosè, guida Israele nel deserto come fosse un figlio, lo educa alla fede e fa alleanza con lui, creando un legame d’amore fortissimo, come quello del padre con il figlio e dello sposo con la sposa.
A tanto giunge la misericordia divina. Dio propone un rapporto d’amore particolare, esclusivo, privilegiato. Quando dà istruzioni a Mosè riguardo all’alleanza, dice: «Se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa». Certo, Dio possiede già tutta la terra perché l’ha creata; ma il popolo diventa per Lui un possesso diverso, speciale: la sua personale “riserva di oro e argento” come quella che il re Davide affermava di aver donato per la costruzione del Tempio.
Ebbene, tali noi diventiamo per Dio accogliendo la sua alleanza e lasciandoci salvare da Lui. La misericordia del Signore rende l’uomo prezioso, come una ricchezza personale che Gli appartiene, che Egli custodisce e in cui si compiace. Sono queste le meraviglie della misericordia divina, che giunge a pieno compimento nel Signore Gesù, in quella “nuova ed eterna alleanza” consumata nel suo sangue, che con il perdono distrugge il nostro peccato e ci rende definitivamente figli di Dio (cfr 1 Gv 3,1), gioielli preziosi nelle mani del Padre buono e misericordioso. E se noi siamo figli di Dio e abbiamo la possibilità di aver questa eredità - quella della bontà e della misericordia - in confronto con gli altri, chiediamo al Signore che in quest’Anno della Misericordia anche noi facciamo cose di misericordia; apriamo il nostro cuore per arrivare a tutti con le opere di misericordia, l’eredità misericordiosa che Dio Padre ha avuto con noi. (Papa Francesco, Udienza del 27 Gennaio 2016)


INDIFFERENZA (UN APPELLO PER TUTTI NOI…)

"C’è chi è ben informato, ascolta la radio, legge i giornali o assiste a programmi televisivi, ma lo fa in maniera tiepida, quasi in una condizione di assuefazione: queste persone conoscono vagamente i drammi che affliggono l’umanità ma non si sentono coinvolte, non vivono la compassione. Questo è l’atteggiamento di chi sa, ma tiene lo sguardo, il pensiero e l’azione rivolti a sé stesso». Siamo invasi da notizie e informazioni ma questo non porta all’«aumento di attenzione ai problemi, se non è accompagnato da un’apertura delle coscienze in senso solidale. Anzi, esso può comportare una certa saturazione che anestetizza e, in qualche misura, relativizza la gravità dei problemi». In altri casi, prosegue Francesco , «l’indifferenza si manifesta come mancanza di attenzione verso la realtà circostante, specialmente quella più lontana. Alcune persone preferiscono non cercare, non informarsi e vivono il loro benessere e la loro comodità sorde al grido di dolore dell’umanità sofferente. Quasi senza accorgercene, siamo diventati incapaci di provare compassione per gli altri, per i loro drammi, non ci interessa curarci di loro, come se ciò che accade ad essi fosse una responsabilità estranea a noi, che non ci compete" (Papa Francesco)



IMPARARE DALLA STORIA CHE COSA E' IN GIOCO
(IN PARLAMENTO E IL 30 GENNAIO AL CIRCO MASSIMO)
DIVULGATE A MANETTA…


HITLER E LA CHIESA CATTOLICA 

PER LA MEMORIA DI QUESTE AGGHIACCIANTI PAROLE (E DEI FATTI CHE NE CONSEGUIRONO) NESSUNA GIORNATA. MA C'E' IL FAMILY DAY DEL 30 GENNAIO, E OGNI GIORNO DELLA STORIA IN CUI SI ANNUNCIA IL VANGELO. PERCHE' QUESTE PAROLE LE LEGGIAMO E ASCOLTIAMO OGNI GIORNO NEL TRIPUDIO GENERALE DEI MEDIA, E LE VEDIAMO DIVENTARE LEGGI CHE IL MONDO DEFINISCE CIVILI... 

Cosa pensava Hitler della Chiesa cattolica? Andiamo alle fonti. Partiamo dal celeberrimo Mein Kampf . Qui si possono rintracciare almeno due idee interessanti: la Chiesa cattolica è, per il futuro dittatore della Germania, “in conflitto con le scienze esatte e con l’indagine scientifica”, mentre il cristianesimo si è imposto grazie ad una “fanatica intolleranza”. “Oggi il singolo deve constatare con dolore, scrive Hitler, che nel mondo antico, assai più libero del moderno, comparve col cristianesimo il primo terrore spirituale” (Adolf Hitler, Mein Kampf, Ed. Sentinella d’Italia, Monfalcone, 1990, p. 111, 105, 106). Adolf Hitler ritorna sul cristianesimo, più e più volte, nel corso dei suoi Discorsi a tavola, con i gerarchi nazionalsocialisti, tra il 1941 e il 1944. La sera dell’11 luglio 1941 Hitler afferma: “Il colpo più duro che l’umanità abbia ricevuto è l’avvento del cristianesimo. Il bolscevismo è figlio illegittimo del cristianesimo. L’uno e l’altro sono una invenzione degli Ebrei. E’ dal cristianesimo che la menzogna cosciente in fatto di religione è stata introdotta nel mondo. Si tratta di una menzogna della stessa natura di quella che pratica il bolscevismo quando pretende di apportare la libertà agli uomini, mentre in realtà vuol far di loro solo degli schiavi… Il cristianesimo è stata la prima religione a sterminare i suoi avversari in nome dell’amore. Il suo segno è l’intolleranza” (Adolf Hitler, Conversazioni a tavola di Hitler, Goriziana, Gorizia, 2010, p. 45). Nella notte tra il 20 e il 21 febbraio 1942 Hitler afferma: “Il cristianesimo (a differenza delle religioni animiste pagane, ndr) promulga i suoi dogmi con la forza. Una simile religione porta con sé l’intolleranza e la persecuzione. Non ce n’è di più sanguinose”. Subito dopo parla dell’osservatorio astronomico che sta facendo costruire a Linz, per combattere l’ignoranza scientifica (idem, p. 308). Il 9 aprile 1942, nel pieno dei massacri di cui è colpevole, afferma: “La Chiesa si è piegata alla necessità di imporre il suo codice morale con la massima brutalità. Non ha indietreggiato neppure dinnanzi alla minaccia di rogo, dando alle fiamme, a migliaia, uomini di grande valore. La nostra società attuale è più umana di quanto non lo sia mai stata la Chiesa” (idem, p. 389). Ai cristiani e alla Chiesa, nelle 680 pagine dei Discorsi, tra una dichiarazione di vegetarianismo e una di animalismo, Hitler, rieccheggiando spesso Nietszche, imputa almeno le seguenti colpe: di aver incendiato Roma all’epoca di Nerone; di aver rovinato l’impero romano; di aver distrutto biblioteche e testi antichi; di aver torturato i nemici; di aver bruciato milioni di streghe; di aver negato “le gioie dei sensi”; di instillare una “ribellione contro la natura, una protesta contro la natura” (promuovendo il matrimonio monogamico e indissolubile…); di privilegiare i malformati e i malriusciti, i poveri e gli ignoranti; di proporre un “paradiso insipido”, tutto canti e alleluia; di minacciare la gente con l’inferno (Hitler non ci credeva proprio, ad un giudizio finale); di basarsi su una “storia puerile”, “invenzione di cervelli malati”, che inventa un Dio personale che non esiste, l’assurdità della resurrezione, e un “preteso aldilà” che negherebbe importanza alla vita terrena… Riguardo ai preti essi sono immancabilmente “ripugnanti”, “perversi” e i missionari “gli ultimi dei maiali”, mentre la Chiesa in generale “non ha che un desiderio: la nostra rovina”. Ma non c’è alcuna dubbio: “La nostra epoca vedrà indubbiamente la fine della malattia cristiana” (p. 326). Quanto al rapporto tra scienza e fede il pensiero già espresso nel Mein Kampf ritorna anch’esso, insistentemente. La sera del 24 ottobre 1941: “la religione è in perpetuo conflitto con lo spirito di ricerca. L’opposizione della Chiesa alla scienza fu talvolta così violenta da sprizzare scintille”, tanto che oggi l’Evoluzione è in contrasto con la credenza puerile nella Creazione (idem, p. 110). Il mondo antico, pre-cristiano, invece, “amava la chiarezza. La ricerca scientifica vi veniva incoraggiata” (idem, p. 301). Cosa intende Hitler per “scienza”? All’epoca, non solo per lui, sono “scientifici” l’eugenetica (con i suoi corollari: eutanasia di persone malate e aborti di bambini malformati o nati da matrimoni misti), il razzismo (i nazisti ritenevano di avere dalla loro la biologia e l’evoluzionismo, nella sua versione materialista), e la produzione di bambini tramite gli accoppiamenti stabiliti dal regime, tra ariani e ariane certificati. Con annessa nascita di migliaia di bambini senza genitori. (http://www.libertaepersona.org/. Per approfondire: F. Agnoli, Il secolo senza croce, SugarCo)

FOLLIA GIACOBINA 2.0

I conservatori di oggi provano istintivamente il dovere di opporsi all’ideologia gender per lo stesso motivo per cui i conservatori di tutta Europa si erano immediatamente schierati compatti contro la Rivoluzione Francese. A ogni latitudine infatti i fautori delle nozze gay e delle unioni civili sono animati dagli stessi princìpi cardine che avevano spinto all’azione più o meno sanguinaria i loro precursori, che al posto della bandiera arcobaleno sfoggiavano la coccarda tricolore: il riconoscimento di un’eguaglianza onnicomprensiva fra gli individui e la certezza di essere nel giusto in virtù di ragionamenti che equiparano tutti gli uomini quindi valgono al di fuori di concreti contesti storici e geografici. Rispetto ai rivoluzionari cromwelliani o jeffersoniani, i giacobini nutrivano l’ambizione di non voler soltanto rinegoziare un patto politico interno ai propri confini e avvantaggiare l’una o l’altra classe: volevano affermare un principio universale eterno e infatti non scrivevano locali dichiarazioni di indipendenza bensì planetarie, onnivore dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, senza specificare quale tipo di uomo né cittadino di cosa. Lavoravano per il beneficio del mondo intero – “la rigenerazione del genere umano”, secondo Tocqueville – e il loro ecumenismo era tale da non soffermarsi su qualche testa che rotolava per terra se non come effetto collaterale di un miglioramento inarrestabile, inesorabile. Così i sostenitori delle nozze gay, che in Italia si fanno più timidi sostenitori delle unioni civili e della lana caprina. Lo slogan “love is love” significa égalité fra tutti gli uomini, quale che sia la natura dei rapporti che li lega agli altri e indipendentemente dal contesto sociale in cui i singoli individui si ritrovano a operare e a rispondere delle conseguenze delle proprie azioni. Il diritto a sposare chi si ama significa voler affermare su vasta scala la stessa liberté che la Francia rivoluzionaria voleva esportare in Europa sulla punta delle baionette. Per sostenersi e autoalimentarsi propugnano dunque deduzioni di logicità tanto asettica da far spavento, a cominciare dalla tautologia per cui l’amore è l’amore quindi si può sposare chiunque. Le loro idee sono ciò che Hippolyte Taine definiva “il trionfo della ragione pura e dell’irragionevolezza pratica”, il cui esercizio riduce la nazione a “malato preso dal delirio della propria fantasia, in preda alle suggestioni della ragione ragionante, della ragione che dimentica il mondo sul quale dovranno svolgersi i propri esperimenti e manda in rovina le tavole dei vecchi valori”. I loro ideali astrusi invocano un diritto naturale di carattere universale che cede a una pulsione collettiva all’eguaglianza, basata sull’idea generica di uomo nonostante De Maistre ammonisse che “l’uomo, considerato nella sua universalità, non esiste; è un prodotto dello spirito classico, ossia dell’astrattismo filosofico”. A furia di impeccabili rivendicazioni, come spiegava Edmund Burke, “si allontanano dalla grande e diritta via della natura” e poi si arrabbiano perché la traduzione concreta di princìpi astratti porta a risultati opposti a quelli prefissi, come quando Robespierre calmierò i prezzi per favorire gli acquisti in teoria ma in pratica rese tutti più poveri: per questo Burke scrisse subito che “quando avranno portato a termine la propria opera, avranno portato a termine anche la propria rovina”. Sarà; fatto sta che la coccarda tricolore divenne obbligatoria nel 1792, per la bandiera arcobaleno attendiamo fiduciosi. (Antonio Gurrado, Il Foglio 28 Gennaio 2016)

SEDARE PER SEMPRE
Dopo un lungo processo e accese discussioni cominciati nel 2012, la Francia ieri si è dotata di una nuova legge sul fine vita, che supera la precedente “loi Leonetti”. Come ricordato da diversi parlamentari al Palazzo di Lussemburgo, viene introdotta «un’eutanasia mascherata» sotto le mentite spoglie della sedazione terminale. Il testo introduce un «diritto alla sedazione profonda e continua» fino al decesso per i malati in fase terminale. Quando un paziente è «affetto da una malattia grave e incurabile», e la sua «sofferenza è refrattaria alle cure» e si è davanti a una «prospettiva di vita» molto breve, allora può essere addormentato e tutti i sostegni vitali, come alimentazione e idratazione, possono essere interrotti. Oggi negli ospedali francesi si usa la sedazione terminale per accompagnare il paziente negli ultimi momenti della sua vita cercando di non farlo soffrire. È una decisione difficile da prendere e gravida di conseguenze, visto che così si toglie al paziente la possibilità di essere cosciente negli ultimi momenti della sua vita. Introdurre il diritto alla sedazione invece, con la possibilità di interrompere alimentazione e idratazione, è un modo per «provocare deliberatamente la morte», come spiegato da Tugdual Derville, del movimento Soulager mais pas tuer (Alleviare ma non uccidere). «Il criterio dell’intenzione qui è determinante. Sovrapporre alla sedazione l’arresto di alimentazione e idratazione è un modo molto pericoloso di dissimulare l’eutanasia. Questa morte lenta e che sopraggiunge mentre dormiamo, che la legge ci garantisce, si rivela di una violenza inaudita». È significativo in questo senso che i parlamentari si siano rifiutati di inserire nel testo di legge una frase per specificare che «l’intenzione della sedazione non deve essere quella di provocare la morte». L’articolo 3, inoltre, è stata introdotta una dicitura molto ambigua. Un paziente cioè potrà richiedere la sedazione profonda non solo quand’è in uno stato di fine vita, ma anche quando l’interruzione dei trattamenti richiesta per qualsiasi motivo «sia suscettibile di provocare una sofferenza insopportabile». Questa formulazione ambigua, che usa il criterio soggettivo della “sofferenza insopportabile”, secondo gli esperti farà da anticamera all’introduzione del suicidio assistito. Basterà che qualcuno si rivolga ai giudici chiedendo di specificare meglio i diritti garantiti da questo articolo. (Tempi.it )


APPROFONDIMENTI


“REVENANT” E I MARTIRI


È un film strano, anzi straniante The revenant, arrivato nelle sale cinematografiche lo scorso fine settimana. La vicenda è ambientata nei primi decenni dell’800, quando, dopo che l’antica e immensa Louisiana fu venduta dai francesi agli Stati Uniti nel 1803, si aprì una fase di spedizioni nel Nord-Ovest americano, fra le migliaia di chilometri quadrati che si aprivano tra St. Louis e le Montagne Rocciose, seguendo il corso del fiume Missouri. Fu un’epoca di avventure nell’ignoto, di pionieri in cerca di fama e commercianti senza scrupoli. Fu anche e soprattutto l’epopea dei trapper, cacciatori estremi, galvanizzati da una richiesta di pellicce da parte di americani ed europei che d’un tratto trasformò gli inermi castori in pepite d’oro ambulanti. Il regista Alejandro González Iñárritu ha voluto portare sul grande schermo l’aspetto atroce di quel mondo, fatto di avida competizione, del confronto impari con una natura capace di portare al collasso psichico (Meriwether Lewis, grande esploratore di quegli anni, dopo un’impresa con cui avrebbe potuto campare di rendita, per denaro e onori, finì depresso e alcolizzato e si suicidò a 35 anni) e soprattutto degli infiniti scontri con tribù indiane di cui oggi è facile dimenticarsi la ferocia: Arikara, Piedi Neri, Mandan, Sioux, Teste Piatte… la vera spina nel fianco dei cercatori di fortuna. Ma, appunto, quello fu solo un aspetto. Ce ne fu un altro che il film tralascia completamente, anche se dà un piccolo appiglio per arrivarci. È nella scena in cui il protagonista Hugh Glass (Leonardo Di Caprio) vede in sogno il figlio – avuto da un’indiana Pawnee e che gli è stato ucciso dal compagno traditore Fitzgerald – mentre si erge muto fra le rovine di una chiesa cattolica. Insolito rimando. Perché una chiesa non sembrerebbe c’entrare nulla con trapper, pellerossa né con il personaggio storico di Hugh Glass, realmente esistito. È questo l’altro grande aspetto dimenticato di quella storia: il ruolo che una serie di missionari eroici, soprattutto cattolici e in specie gesuiti, ebbero pressappoco negli stessi anni e lungo gli stessi fiumi e sentieri battuti dai protagonisti di The revenant. Sfoderando un coraggio e una fortezza di spirito non inferiore alla loro, anzi. Con una differenza: si mossero non in cerca di guadagni materiali, ma per la salvezza delle anime, e riuscirono a penetrare e conquistare il mondo indigeno come nessun altro prima. Secondo alcuni storici fu solo la velocità e la brutalità dell’espansionismo statunitense che impedì il nascere di esperienze come le reducciones dell’America del Sud. I gesuiti Jean de Brébeuf (1593-1649), Isaac Jogues (1607-1646) e altri sei compagni, uccisi in diverse località di quello che oggi è lo Stato di New York, erano arrivati dalla Francia come pionieri dello Spirito in un mondo distante come Marte e compirono un’efficace opera di evangelizzazione fra gli indiani Uroni: li istruirono, li allontanarono da costumi disumani, li battezzarono... Padre Jogues, catturato da una tribù nemica degli Uroni, i Mohawk, dopo un anno di prigionia e torture ritornò in patria sfregiato e con le dita di una mano amputate. Poco dopo volle tornare fra i suoi indiani. Padre De Brébeuf, catturato dagli Irochesi, anche loro nemici giurati degli Uroni, subì un supplizio lento: venne ustionato con acqua bollente e carboni ardenti, gli furono spezzate una a una le articolazioni, quindi tagliati uno dopo l’altro naso, lingua, orecchie, gli furono cavati gli occhi. Non essendo riusciti a strappargli urla di dolore, né a impedirgli fino all’ultimo di bisbigliare «Gesù, abbi pietà di loro», i suoi carnefici dopo averlo ridotto a un tronco senza vita gli mangiarono il cuore e ne bevvero il sangue: segno di ammirazione per il suo coraggio e un modo per impossessarsene. E qualcosa del genere effettivamente accadde. Fu proprio un gruppo di Irochesi che finì a Ovest, fra le Montagne Rocciose, a tramandare l’ammirato ricordo di Brébeuf e compagni. Così, 150 anni dopo, venuti a conoscenza della presenza di gesuiti nell’avamposto di St. Louis, quegli indiani compirono quattro spericolate spedizioni, di migliaia di chilometri, per chiedere con insistenza che uno dei grandi «veste nera» andasse ad abitare fra loro. All’appello rispose Pierre-Jean De Smet (18011873), gesuita belga, sorriso paterno e tempra d’acciaio, che divenne in breve, tra infiniti viaggi a piedi o in canoa su e giù per il Missouri, e altri fiumi come il Platte e lo Yellowstone, uno dei maggiori conoscitori di quelle terre. Imparò a dormire in mezzo alla neve, a cavarsela in condizioni proibitive, scalò montagne, si addentrò da solo, munito di breviario e del suo amato clarinetto, un po’ come il gesuita del film Mission, in mezzo ad accampamenti dove altri sarebbero stati presi immediatamente a colpi di tomahawk. Ma per gli indiani era l’uomo bianco che parlava «senza lingua biforcuta», che li difendeva dai soprusi dei cacciatori, dei trafficanti di whisky, vera e propria droga di allora. Il successo che riscosse lo rese il diplomatico di punta del governo federale – non certo simpatetico a quei tempi verso i papisti spesso francofoni – nel trattare con i pellerossa. E così fu assoldato e portato in palmo di mano da generali dell’esercito come William Harney e William Sherman. Convertì con il suo esempio e anche con la sua prestanza. Uno degli indiani che battezzò cercò di ucciderlo in un’imboscata: De Smet riuscì a disarcionarlo da cavallo, a sopraffarlo nel combattimento corpo a corpo e a strappargli l’ascia di guerra: la prova della sua abilità e la pietà che mostrò verso il vinto conquistarono quest’ultimo al Dio forte e misericordioso dei cattolici. De Smet lasciò una traccia profonda, su cui poi altri si inserirono altri confratelli. Nel 1862, a Mankota, furono impiccati 38 Sioux, catturati in seguito a una sollevazione nel Minnesota che aveva causato centinaia di morti fra gli americani. Al momento della sentenza, il colonnello in capo alla prigione disse ai condannati che potevano scegliere un accompagnamento spirituale alla morte: un santone della loro tribù, i due pastori protestanti presenti o un sacerdote cattolico, il gesuita francese Augustin Ravoux (1815-1906). I missionari protestanti conoscevano la lingua indigena perfettamente, erano in missione da 25 anni fra i Sioux, mentre padre Ravoux da 18 aveva lasciato l’apostolato fra di loro per gli scarsi risultati e pochi sacerdoti cattolici avevano stabilito altri contatti. Per la sorpresa di tutti, 33 tra i condannati scelsero di seguire il «veste nera». Ravoux rimase con loro quattro giorni, spiegando i fondamenti della fede. Impararono a recitare il Credo, il Padre Nostro, l’Ave Maria, l’atto di contrizione. Di fronte alla loro serietà e pietà «le lacrime mi bagnavano il viso», scrisse il gesuita nel suo diario. I nuovi battezzati spesero l’ultima notte serenamente, mentre i due indiani animisti si agitarono nervosamente fino all’alba. La mattina seguente, i 33 si avviarono al patibolo «senza mormorii di resistenza… animati da una grande speranza per il futuro». Un anno dopo, trecento famiglie Sioux chiesero di essere visitate da Ravoux e duecento indiani si fecero battezzare. (Avvenire, 27 Gennaio 2016)