DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il paradiso di Galla Placidia. Di André Frossard


Pochi sanno che André Frossard, il giornalista francese noto in tutto il mondo per le sue interviste a Giovanni Paolo II, usava trascorrere le vacanze estive sul litorale romagnolo (per la precisione a Cervia). In quest’occasione, ebbe modo di visitare più volte Ravenna, e di innamorarsi dei suoi mosaici. Da questa esperienza nacque un libro, Il vangelo secondo Ravenna (1985), di cui proponiamo lo splendido capitolo dedicato al Mausoleo di Galla Placidia.

Se il vostro destino eterno vi interessa, andate a Ravenna. Esso sta scritto sui suoi muri. In conformità col detto «Se il seme non muore…», la messe luminosa comincia in una tomba, il mausoleo di Galla Placidia.
In genere lo si scopre dopo aver attraversato, come si passa un fiume, gli archi e le cascate azzurre e verdi della chiesa di San Vitale, costruta su un progetto di una complessità sconcertante in un’epoca in cui non pochi barbari raggiungevano ancora a nuoto il loro domicilio lacustre. In capo a uno spiazzo verde, sotto una torre bassa e quadrata, è una costruzione in mattoni a forma di croce latina, con gli archetti ciechi, un metro e mezzo sotto il livello del terreno. Il suo slancio contenuto gli dà l’aria d’una stazioncina di campagna con gli sportelli murati.
L’interno, che alcune strette finestre d’alabastro color del miele ricavano dalla penombra, è rivestito fino a mezz’altezza con marmo giallo di Siena, una qualità di marmo rara. Il resto, a partire dagli archi e fino al fondo della cupola, è azzurro, verde e oro, con quanto basta di bianco per orientare lo sguardo e dar ordine alla scena. Questo bianco, di cui tutti i personaggi sono rivestiti, il bianco che risulta dalla fusione di tutti i colori dello spettro solare, non è solo il simbolo della purezza, come si concorda nell’affermare, ma anche dello spirito che unisce tutte le immagini possibili nella sua luce.

Fin dal primo momento l’incantesimo di Ravenna agisce con la sua sovrana dolcezza: i suoi mosaici si aprono, accolgono, non si comportano al modo dello scudo d’oro che è l’icona. Essi esercitano l’irresistibile attrazione del divino su quanto in noi è rimasto sensibile alla grazia. Dirimpetto alla porta, alti sopra un umbraculum a forma di conchiglia, due apostoli si fronteggiano ai lati di una fontana la cui acqua attira due colombe.
Nella lunetta inferiore, il martirio di san Lorenzo testimonia che, insieme a un’altra costruzione, il mausoleo è stato in origine una cappella attigua alla chiesa di Santa Croce. Al centro, la graticola, che imprigiona dense trecce di fiamme, mentre il fuoco sembra attizzato dai quattro Vangeli disposti in un armadio con i battenti aperti.

Questo particolare fa pensare alla parola del Cristo: «Io sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che cos’altro posso desiderare se non che bruci?». A destra, con una lunga croce d’oro in spalla e un libro in mano, i lembi del mantello sollevati dal calore del braciere in un movimento già curiosamente barocco, il santo va al martirio di buon passo, e, cosa singolare, ci va da solo, senza che nessuna guardia o carnefice ve lo spinga.
Questo perché a Ravenna il male o la sventura e i loro agenti non sono mai rappresentati. Perché appartengono alla storia, e la storia qui è finita. Sono stati sciolti o riassorbiti dal bene, e la memoria stessa li ha persi di vista. In questo mondo che vive di grazia e di benedizione, non troverete affatto quei demoni, quei funzionari forcuti del peccato o della tentazione di cui è popolata l’arte medioevale.
Fra tante immagini di pace non si può osservare che una sola allusione – di qualche decimetro quadrato – ai «capri» del Vangelo, che simboleggiano la caparbietà nel peccato; tra l’altro poi, sono di un bell’azzurro, che non vieta del tutto una speranza di purificazione. Similmente, il martirio di san Lorenzo è la sola scena che evoca il ricordo di una violenza; ma que sti vortici di fiamme in gabbia ricordano forse meno il supplizio che l’amore da cui il santo era consumato ben prima di dare questa prova di fede «usque ad mortem» che è il martirio.
Sotto i piedi di san Lorenzo, un sarcofago monumentale dagli angoli rilevati, nel quale il defunto non stava disteso ma seduto, è forse il sarcofago che ha contenuto i resti di Galla Placidia. Non lo si saprà mai con certezza. Molto tempo fa, alcuni ragazzi troppo curiosi, infilando delle candele o della carta accesa in un’apertura praticata in una delle pareti, hanno appiccato il fuoco all’interno, sì che tutto fu ridotto in cenere, i resti umani, il seggio e gli oggetti. Questa combustione postuma sotto la graticola di san Lorenzo ha qualcosa di strano.
Tutto il resto è di una bella serenità azzurra, fino alla piccola cupola blu notte, disseminata di novecento stelle d’oro a otto raggi disposte dapprima in cerchi concentrici intorno a una croce. Ma a partire dal settimo cerchio, una leggera sfasatura imprime alle altre centinaia di stelle una sorta di movimento fatto di curve incrociate a forma di rosa.

Io suppongo che Dante abbia attinto da qui, forse senza esserne consapevole, l’idea dei nove cori angelici che egli ha visto disegnare come una rosa di neve in paradiso, «in forma dunque di candida rosa». Negli otto raggi di queste stelle lanciate nell’infinito e ricondotte alla croce quasi da un’incessante pulsazione, si possono leggere le iniziali greche di Gesù Cristo, I X, incrociate e attraversate dal braccio orizzontale della croce, il patibulum su cui furono inchiodate le mani del Redentore.
Detto questo, non è indispensabile vedere simboli ovunque, e basta forse constatare che questa croce d’oro, nel cuore della sua rotazione di stelle, agisce come un trasmettitore di onde spirituali che pacificano tutto l’edificio, graticola e san Lorenzo compresi. E tuttavia non si sfugge tanto facilmente ai simboli in un monumento cristiano.

Ecco dei cervi, attraverso volute d’acanto, che si avvicinano a uno specchio d’acqua: è l’anima assetata di Dio del Salmo 41; una vite si avvolge intorno a un’arca: è il Vangelo di Giovanni, «Io sono la vite, voi siete i tralci»; al termine di un tunnel azzurro e oro (il braccio maggiore dell’edificio) ricamato di fiori, di stelle e di improbabili cristalli di neve, l’allegoria del Buon Pastore, pecore bianche, verzura, cielo azzurro.

L’atteggiamento del Cristo, giovanissimo, seduto un po’ come un violoncellista mentre suona il suo strumento o il poeta antico che sollecita l’accordo della sua lira, l’ha fatto naturalmente paragonare a Orfeo, e certo da questa composizione si leva una tenera musica, come se tutti i desideri di armonia e di riconciliazione del mondo lacerato che sta intorno si fossero rifugiati nelle chiese e nelle tombe.
Due osservazioni, a questo punto. La prima è l’estrema abilità dei mosaicisti nel suggerire, con l’impiego di materiali quali pezzi di vetro e volgari pietruzze, la morbida densità della lana, la freschezza del lino, la trasparenza del cielo, il calore e la finezza un po’ ruvida di una pelle di cervo. Indubbiamente la memoria visiva e, se esiste, la memoria tattile si affiancano all’abilità dell’artigiano per completare ciò che egli si limita a indicare; ma certo quei mezzi bisogna saperli usare, e non credo che in quest’arte i mosaicisti di Ravenna siano mai stati uguagliati.
La mia seconda osservazione riguarda la pretesa inesperienza dei mosaicisti, che non avrebbero avuto nozione delle leggi della prospettiva. Basta, per convincerci del contrario, osservare i motivi decorativi di Galla Placidia, quei nastri attorcigliati, o quelle greche illusionistiche, quasi a trompe-l’oeil, e per di più semicircolare. La padronanza tecnica è evidente.
Se gli artisti di Ravenna non si curavano delle leggi della prospettiva è per una semplicissima ragione pratica: dato che i mosaici sono posti molto in alto sui muri, se voi disegnate a quattro o cinque metri da terra una tavola in prospettiva, nessuno saprà ciò che vi è lassù. E anche per una ragione spirituale che dirò in seguito. Ma quando si visita il mausoleo di Galla Placidia, ogni idea di ingenuità o di rozzezza dev’essere scartata. Siamo in un altro mondo, e quest’arte è una preghiera di lode, la più alta forma di attività dello spirito.
La visione mistica di ciò che si chiamava «l’altro mondo», al tempo in cui non si dissuadeva i cristiani dal crederci, è caratterizzata dalla luce e dalla densità. Questo «altro mondo» impossibile da localizzare, poiché si sottrae alle leggi che reggono il nostro, è un universo spirituale non disincarnato, astratto o fantomatico come troppo spesso si tende a rappresentarlo, ma al contrario prodigiosamente concreto; è un mondo senza vuoti, la cui luce riassume tutte le immagini, tutti i colori e tutti i pensieri possibili. È la realtà ultima, assoluta, di cui le più intense sensazioni di questo nostro mondo ci danno soltanto una vaga idea.

Questi due caratteri si ritrovano in parte nei mosaici di Ravenna, che sono la rappresentazione dell’altro mondo più approssimata che mai l’arte ci abbia proposto. Essa coniuga tre fonti di luce: quella del giorno, quando questa riesce a trapassare le finestre impiastricciate di falso alabastro, e ci viene restituita per scintillii o diffrazione; quella delle tessere, che sono di per se stesse dei piccoli condensatori di fotoni; e infine la luce spirituale, che permea ogni opera d’arte, certamente, ma che splende qui con una potenza eccezionale perché è ancora tutta impregnata di quello spirito d’infanzia indispensabile, dice il Vangelo, per chi vuole entrare nel regno di Dio.
Il mosaico dà l’impressione di un mondo senza vuoti, anche nel senso che non vi è praticamente nessun intervallo (se non una minuscola fessura di nulla) fra i suoi atomi, il più piccolo dei quali è assolutamente necessario alla coesione dell’immagine. La sensazione di entrare in un universo follemente concreto è resa ancor più viva dalla discrezione con cui si ricorre alla prospettiva, appena accennata qua e là da un segno d’ombra o da una lieve spiegatura geometrica. L’effetto primo della prospettiva è quello di suggerire uno spazio, dunque un vuoto potenziale, e il suo più grave inconveniente spirituale è quello di fare del soggetto umano il centro della composizione, che si organizza intorno a lui. Tutto ciò è contrario alla pienezza sfolgorante della visione mistica, fenomeno di obiettività pura il cui centro è ovunque.
Questa estrema densità del mosaico si manifesta fin nel particolare dei piccoli animali che i mosaicisti hanno incluso nelle promesse di eternità riservate altrove ai soli umani; ed ecco la famosa anatra di Ravenna, fatta di smeraldo e di lapislazzuli, che ha nell’occhio un resto di diffidenza e quel tanto di iro nia di chi si sa ormai fuori tiro.

Con qualche altro suo collega, questo celebre volatile, moltiplicato nelle cartoline e nelle tavolette di gesso smaltato, abita dal V secolo la volta dell’arcivescovado e sembra dire al visitatore:
«La pesante riga nera che mi contorna indica a sufficienza che io vengo dalla notte. Sono pronta a entrare in un’esistenza indistruttibile, ma, come potete constatare anche voi, i tempi non sono del tutto compiuti per me: se già tutto il resto emerge in una luce inedita, ho ancora nell’ombra una zampa e la metà del becco. Io non sono forse il personaggio principale di questa storia a colori, ma non commettete l’errore di sottovalutare la mia importanza. Anche se non ho mai avuto l’onore di fornire un paragone al nostro salvatore Gesù Cristo, che citava in vece le pecore, i cammelli, gli asini o gli uccelli del cielo, io sono un testimone come gli altri: con la mia presenza su questi venerabili muri io attesto la bontà del Creatore di tutte le cose, che ha voluto associarmi alla trasfigurazione generale mettendomi su questo tappeto d’oro fino, fra gigli e globi, affinché sappiate che anche i vostri fratelli inferiori, così come i pubblicani e le prostitute, vi precedono nel regno dei Cieli».


Il testo è tratto da A. Frossard, Il Vangelo secondo Ravenna, trad. it. di C. Greppi, Itacalibri, Castelbolognese 2004, pp. 31-37.


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