DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Come la Croce ha redento i bambini. Manlio Simonetti ha raccolto in un libello anche un rapporto sullo stato sociale e giuridico dell’infanzia tra i classici. Desta un doloroso stupore riconoscere nei nostri giorni alcune delle aberrazioni precristiane



di Emiliano Fumaneri

Tema quanto mai attuale, quello
dell’infanzia negata. Efferate atrocità,
come le decapitazioni e le crocifissioni
di bambini perpetrate dal sedicente
Stato Islamico, attirano la nostra
attenzione sullo strazio della condizione
infantile, che mai come nel nostro tempo
sembra essere divenuta luogo prediletto di
sadiche sevizie.
Eppure sembra mancare la chiara percezione
dell’origine di una tale repulsione. Non
ci si avvede forse a sufficienza di quanto
la nostra sensibilità, ancora plasmata dal
benefico influsso del cristianesimo, sia incline
a stigmatizzare pratiche e atteggiamenti
adottati per millenni, e anche più,
nell’indifferenza totale e generalizzata. La
pietà per le vittime e gli inermi, deve constatare
René Girard, è l’ingiunzione d’una
coscienza cristiana.
Nell’agile libretto Classici e cristiani (Medusa,
2007) a firma dello storico e filologo
Manlio Simonetti trova conferma l’impressione
che nel complesso le civiltà arcaiche,
primitive o meno, non fossero certamente
tenere nel trattare la gioventù. Il pensiero
corre in primo luogo alle torture inflitte
ai ragazzi durante le iniziazioni tribali. Lo
scopo di questi crudeli rituali, sottolinea
Simonetti, era di assicurare una scrematura
degli elementi più deboli della società.
È indubbio che l’atteggiamento antico nei
confronti dell’infanzia non può certo dirsi improntato
alla compassione. Il bambino, salvo
casi eccezionali riguardanti per lo più le famiglie
d’alto lignaggio, è normalmente considerato
e trattato quale entità inconsistente,
tale da non meritare particolari riguardi.
Particolare sconcerto, tuttavia, dovevano
suscitare anche allora i cruenti sacrifici
umani praticati dai Fenici e dai loro eredi
Cartaginesi. Sacrifici che avevano nei più
piccoli la propria materia prima. Gli storici
antichi ricordano come in occasione
dell’assedio di Cartagine (310 a.C.) gli abitanti
della città avessero immolato un centinaio
di bimbi per propiziarsi i favori del
dio Crono (che i Greci ricordavano come
divinità divoratrice dei figli). Le ceneri e le
ossa dei fanciulli suppliziati venivano poi
deposte, alla stregua di talismani protettori,
in urne funerarie all’ingresso delle città.
La crudeltà verso i bambini è peculiarità
anche di quella che reputiamo la culla, la
matrice culturale della civiltà occidentale:
il mondo classico, per il quale questo atteggiamento
è ampiamente documentato.
Nemo miseratur pueros («Nessuno ha pietà
per i fanciulli»). Sant’Agostino riassume
così, in tre parole, la disposizione antica
verso i bambini. Effettivamente la cultura
greco-latina prolifera di aspetti oscuri
a questo riguardo. Il campionario delle
brutalità riservate all’infanzia comprende
pratiche quali esposizione, infanticidio,
compravendita dei neonati, riduzione in
schiavitù, ricorso indiscriminato all’aborto.
Ostetriche e medici operano già una drastica
selezione eliminando i più deboli. A
Sparta i neonati “scartati” vengono gettati
nella voragine del Taigeto, a Tebe sono abbandonati
sul monte Citerone.
Arbitro del destino del figlio, nel mondo
romano, è il pater familias. Il suo potere
giuridico è pressoché illimitato. Una distinzione
fondamentale del diritto romano è
quella tra soggetti sui iuris, dotati di piena
capacità giuridica e di azione, e soggetti
alieni iuris, privi di autonomia e alla mercé
dell’autorità altrui. Quest’ultimo è il caso
del filius familias.
L’autorità totale del padre si esercita attraverso
quattro diritti fondamentali. Innanzitutto
lo ius exponendi, che assegna al

genitore la possibilità di scegliere tra due
dei figli.
L’ultima prerogativa del padre di famiglia,
lo ius vitae et necis (diritto di vita e di morte),
è quella che più ha colpito, per durezza,
la coscienza moderna. In realtà pare
che tale diritto non fosse esercitato con
frequenza, se non nei casi in cui a essere
lesa, più che l’auctoritas paterna, risultava
essere una carica politica o militare. Non
bisogna infatti dimenticare la stretta analogia
tra famiglia e Stato sussistente presso
gli antichi romani.
L’aborto, come s’è detto, è prassi assai
diffusa, poiché l’antica legge romana non
considera il feto come soggetto di diritto.
L’atto abortivo viene condannato quando
è praticato dalla donna contro la volontà
del coniuge, ma solo perché così si sottrae
l’eventuale padre di una futura proprietà
(sulla quale in ogni caso avrebbe potuto
esercitare un insindacabile diritto di vita e
di morte).
A Roma vige anche l’uso di sopprimere i
bambini nati con menomazioni e malattie,
eventualità risolta
già dalla levatrice,
che provvede senza
indugi a eliminare il
neonato malformato
prima ancora dell’accettazione
da parte
del padre. Nel De
Ira (I, XV,2) Seneca
segnala questo costume
crudele come
prassi usuale e ragionevole,
mettendo
sul medesimo piano
i bambini malati e gli
animali.
Ma anche chi viene
allevato in famiglia
non gode di grande
considerazione. Si-
monetti ricorda il duplice significato del
greco népios, che sta tanto per “bambino”
quanto per “sciocco”, “ingenuo”. Ad Atene
il bambino non viene presentato in pubblico
prima di aver compiuto tre anni mentre
a Roma non venivano celebrati i funerali
di coloro che morivano prima di avere
cambiato i denti di latte e la famiglia non
prendeva il lutto. Sempre a Roma, i ragazzi
acquisiscono peso sociale soltanto con
l’assunzione della toga virile (intorno ai diciotto
anni) mentre per le ragazze questo
accade solo col matrimonio (già verso gli
otto/dodici anni).
Con l’avvento del cristianesimo assistiamo
a un radicale mutamento nell’atteggiamento
verso l’infanzia. La predicazione
liberante di Cristo eleva la figura del
bambino, scrive Simonetti, a «simbolo
dell’innocenza, della disposizione d’animo
necessaria per poter entrare in paradiso».
Nel Vangelo di Matteo (18, 3) troviamo un
invito sconvolgente per la mentalità del
tempo: «Se non diventerete come bambini
non entrerete nel regno dei cieli». Cristo
non ricusa certo i bambini. Li chiama anzi
presso di sé: Sinite parvulos venire ad me.
La croce è segno di riscatto: il bambino è
innalzato a un’insolita dignità.
La difesa dei fanciulli diventa un imperativo
per la nuova fede cristiana. L’orfano,
assieme alla vedova, da figura negletta si
trasforma così nel destinatario privilegiato
dell’assistenza comunitaria. Anche la Didaché,
il più venerando ed antico catechismo
cristiano, si fa carico di questa sollecitudine
e sancisce l’indisponibilità della vita
custodita nel ventre materno oltre che di
quella del neonato.
Quando l’impero diviene cristiano, nella legislazione
comincia a insinuarsi la tendenza
alla tutela dell’infanzia. Il cambiamento
non avviene in maniera repentina: è il frutto
di un lungo processo, che si manifesta
in maniera più evidente negli ultimi anni di
decadenza dell’impero. Reca in sé, la pazienza
storica del cristianesimo antico, una
preziosa lezione anche per i nostri giorni.
Un esempio del quale far tesoro in un tempo
angosciato dalla fretta che sempre suole
accompagnarsi all’estremismo.
Col passare dei secoli, lentamente si attenuano
le arbitrarietà concesse al pater
familias. Anche casi isolati e aneddotici,
come le condanne inflitte da Traiano e
Adriano a sanzione di alcune violenze paterne,
rappresentano una svolta significativa
giacché contrastano il plurisecolare
costume stabilito dal diritto romano.
In seguito Valentiniano I (365 d.C.) somministra
la pena capitale per l’infanticidio.
La riforma del diritto romano prosegue col
Codice teodosiano, che vieta la vendita
come schiavi dei propri figli in caso di carestia.
In seguito cristiani e imperatori del
Basso Impero si battono con vigore contro
lo ius exponendi e lo ius noxae dandi, abolito
esplicitamente da Giustiniano.
Certamente la morale cristiana, constata
Simonetti, sebbene abbia fatto molto in favore
dell’infanzia, non è riuscita a reprimere
ogni abuso soprattutto quando la sua influenza
è gradualmente regredita. Si pensi
solo allo sfruttamento lavorativo della
gioventù nell’Inghilterra dell’età vittoriana,
per non parlare degli innumerevoli bambini
uccisi nei lager nazisti. L’infanzia oltraggiata,
col suo corredo di soprusi, rappresenta
nel nostro tempo una piaga multiforme e
di dimensioni globali, che tocca ambiti assai
diversi come, solo per elencarne alcuni,
lo sfruttamento, la schiavitù e la prostituzione
minorili, la pedofilia, il fenomeno
dei bambini soldato, senza dimenticare
lo scandalo dell’aborto legale. Non sono,
in ultima istanza, che aspetti della stessa
spietata ferocia impegnata a oscurare lo
sguardo indifeso dei fanciulli.