DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

La libertà è una cosa seria. Di Franco Nembrini



Da parte dell’adulto l’educazione
comporta sempre un rischio, comporta
sempre una misteriosità,
un’imprevedibilità, l’impossibilità di dare
alcunché per scontato. Il rischio è necessario
alla libertà dell’altro, e scommettere
tutto sulla libertà è la cosa più difficile e
più terribile.
Per questo sentiamo come scorciatoia la
regola, se riesco a imporre a mio figlio il
rispetto della legge penso di aver svolto il
mio compito di educatore; e invece ne ho
fatto un burattino, o un inadeguato, uno
che osserva le regole ma non ha un criterio
suo di libertà, una convinzione sua: lo hai
tirato su come un burattino, uno schiavo.
Quella delle regole è un tema diffusissimo
che ritrovo spesso nelle le domande che mi
sottopongono i genitori. Io vi invito solo a
riflettere su questo: Gesù nel Vangelo dice
due cose. Quando parla della legge dice
che Lui è venuto a liberarci dalla schiavitù
della legge e quando poi gli chiedono qual
è la regola d’oro della vita, apparentemente
in modo banale dice che è l’amore:
“Ama Dio”. Cioè “Abbiate un ideale grande
nella vita, imparate a riconoscere la grandezza
della vostra vita e della vostra persona,
che è quella infinita che vi ha dato
Dio. Riconoscete questa dipendenza da
Dio come dono che vi costituisce, perciò
siategli grati e riconoscenti, amate Dio e
amate il prossimo come voi stessi”.
Non si può pensare che la vita dell’uomo,
così legata al tempo e allo spazio, non abbia
bisogno leggi e regole. Viviamo dentro
alle leggi. Pensiamo alle leggi fisiche: uno
non può permettersi di saltare da cinque
metri, perché c’è una legge che si chiama
gravitazione per cui quando arrivi giù ti
spacchi la faccia.
Viviamo soggetti alla legge; ma la regola
deve essere strumento e mai scopo. Noi ci
mettiamo una buona intenzione che diamo
per scontata, e cioè che vogliamo bene ai
nostri figli; dopo di che lo scopo della vita
diventa che rispettino le regole, e questo è
inaccettabile. Se è una sostituzione, il più
delle volte inconsapevole, tra lo scopo e
lo strumento, è inaccettabile, diventa una
guerra di interessi contrapposti. Lo scopo
è che il figlio viva e cresca, che venga su in
tutta la sua libertà, che abbia anche la libertà
di sbagliare, perché è nello sbagliare
che ci corregge e che tante volte si prende
la misura sulla realtà.
La libertà è una cosa seria. Non è affatto
detto che a due genitori santi corrispondano
figli santi, perché c’è di mezzo la libertà;
vale anche il contrario, per la stessa
ragione. Il mistero della libertà, è una cosa
così seria che in educazione non si lavora
che per questo: per educare la libertà, per
salvare la libertà. Una volta mi trovavo a
Domodossola, in una assemblea, quando
si alza una mamma che scoppia a piangere
e racconta di sua figlia con un disagio
inenarrabile, una storia di devianza e
di droga. Quella donna mi chiedeva quale
fosse il punto in cui doveva intervenire
con la forza per bloccarla e salvarla, cosa
che riteneva parte del suo dovere di madre.
Sono rimasto interdetto da una madre
che raccontava una pena infinita per una
figlia che lei vedeva consumarsi, buttarsi
via; per qualche secondo sono rimasto
pensieroso, non sapevo bene cosa dirle.
Dalle prime file si alza la mano di una suora
molto anziana, la quale chiede di rispondere.
Racconta di quando portò da don Luigi
Giussani una donna che le aveva posto una
questione simile, cui nemmeno lei sapeva
rispondere, alla quale don Giussani aveva
detto che quel punto non esiste, perché se
Dio che ha dato suo figlio per noi, se Dio,
che ci ama infinitamente di più di quanto
noi possiamo immaginare, ci permette di
andare all’inferno, non ci salva per forza,
allora lei non poteva fare questo con sua
figlia. Questa risposta, da quando l’ho sentita
sei mesi fa, mi accompagna come una
domanda, perciò la riporto in questi termini.
Occorre lavorarci su per capire che se Dio
ci salvasse per forza, contro la nostra libertà,
otterrebbe dei burattini, dei gattini, dei

cagnolini, ma non degli uomini, non degli
uomini liberi. Noi con i nostri figli dobbiamo
probabilmente procedere nello stesso
modo.
Noi dobbiamo correre questo rischio della
libertà, questo rischio terribile di cui
parla la parabola del figliol prodigo, la più
grande parabola del Vangelo con a tema
l’educazione. Quel Padre, che è Dio stesso
ha due figli, e il più giovane - forse quello
che guardava con più affetto, come spesso
accade con il più piccolo - gli dice: “Bravissimo
papà, hai fatto tutto perfettamente,
ma non me ne importa niente, dammi
la parte di beni che mi spetta che vado
a spenderli con delle prostitute: voglio
buttare via la mia vita, la voglio bruciare,
voglio distruggermi”. Quel padre lo lascia
andare, permette che il figlio corra fino in
fondo il rischio della sua libertà.
Noi tendiamo a leggere male questa para-
bola perché pensiamo subito che in fondo
è finita bene perché il figlio è ritornato
a casa sano e salvo! Invece che dramma
dev’essere stato! Che cosa deve aver vissuto
quel Padre! Eppure Gesù ce lo indica
come modello dell’educazione. Che cosa
deve aver provato quel padre sentendosi
dire “Vado a buttar via la mia vita, voglio
andare a vivere con i porci” (che per la
cultura ebraica era la cosa più infame, la
più degradata, il peggio del peggio). Quel
Padre lo lascia andare. Quale reazione
avremmo noi? Quasi sempre, una di queste
due: la più istintiva, ci arrabbieremmo
dicendo: “Come ti permetti, guai a te, tu
non esci da questa casa!”, scegliendo per
la soluzione autoritaria, con il risultato
che così il figlio lo abbiamo già perso (e
si può stare sotto lo stesso tetto abitando
a distanze siderali: il figlio è perduto lo
stesso). Oppure, quella più in voga oggi, il
padre che fa l’amico del figlio, che ci pensa
su un attimo poi dice: “Vengo anch’io
con te, così ti tengo d’occhio, e poi sono
giovane, ho avuto anch’io la tua età”. Così
il povero figliol prodigo si trova nella bella
situazione che siccome suo padre ha
venduto tutto per seguirlo, il giorno in cui
decide di tornare, perché capisce di avere
sbagliato, non sa dove tornare, si alza, e
scopre che suo padre è lì con lui. Questo
ragazzo si spara, perché gli è stata portata
via ogni possibilità di ritorno, ogni possibilità
di perdono, è condannato alla disperazione
più nera, senza possibilità di tornare.
Il padre è venuto meno alla sua funzione di
coerenza ideale che lo doveva far rimanere
fermo nel suo ruolo, nelle sue scelte. Il
Padre del Vangelo è rimasto.
Sant’Agostino scrive: «È il Verbo stesso
che ti grida di tornare; il luogo della quiete
imperturbabile è dove l’amore non conosce
abbandoni».
Con tutto il dolore, con tutto lo strazio che
può avere patito, quel Padre è rimasto. Per
anni potrebbe essere salito all’ultima finestra
più alta della casa a scrutare l’orizzonte,
perché il Vangelo dice che il padre lo
vide da lontano tornare; e non dev’essere
passata una settimana, avrà passato anni a
scrutare l’orizzonte nella disperata attesa
che il figlio ritornasse, così lo vede proprio
in cima alla collina e gli corre incontro, Lui
era lì, era nella sua casa, al posto che aveva
scelto per se stesso. E l’essere lì, l’avere
mantenuto la casa sulla roccia, l’esserci
del padre e della madre è la grande condizione
per cui l’educazione possa sperare
in un compimento, anche di fronte agli
sbagli, ai tradimenti, ai capricci prima, poi
ai grandi “no” dell’adolescenza e della giovinezza.
Per un figlio la speranza che tutto
si compia nel bene tanto atteso è che
l’adulto stia, rimanga, che una casa ci sia,
che ci sia un perdono. La cosa di cui tutti
abbiamo bisogno per vivere è il perdono,
è sapere che c’è un posto dove possiamo
tornare. Quel Padre ha corso il rischio; e
questo non sarà risparmiato a nessuno di
noi, né insegnanti né genitori, se vogliamo
essere educatori.
Benedetto XVI su questa parabola durante
un Angelus in Piazza San Pietro diceva che
«solo sperimentando il perdono, riconoscendoci
amati di un amore gratuito, più
grande della nostra miseria, entriamo finalmente
in un rapporto veramente filiale
e libero con Dio e soprattutto contempliamo
il cuore del Padre».
C’è una possibilità di sperare del bene nella
vita dei nostri figli, un ultimo bene, se
si può confidare che alla fine comunque
il male non vinca (qualsiasi “no”, qualsiasi
negazione, qualsiasi tradimento abbiano
perpetrato), ed è guardando il Figlio di Dio
sulla Croce quell’uomo che ha assunto su
di sé ogni dolore, ogni tradimento, ogni ferita
e li ha vinti.
Ci vuole coraggio, perché l’educazione è
una di quelle cose che toccano l’intimità
della vita adulta, e lasciarsi mettere in discussione
su come trattiamo i figli è difficile.
È una questione che si fatica a condividere
anche con gli amici più intimi; però
bisogna provarci, bisogna avere il coraggio
di farlo.
La prossima sfida è a Roma dove con tanti
amici cercheremo di rispondere alle domande
sul mistero del dolore che ferisce
le nostre vite e quelle dei nostri figli.

La Croce 17 febbraio 2015