DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

La vera storia di don Giovanni per ritrovare il senso e il vigore degli affetti



È da poco uscita una nuova traduzione italiana
del Miguel Mañara di Oscar Milosz,
poeta lituano vissuto in Francia nei primi
decenni del Novecento, accompagnata da
un ampio commento di Franco Nembrini,
e abbiamo colto l’occasione per parlarne
con lui.
Caro Franco, innanzitutto come mai
quest’interesse per un’opera poco nota ai
lettori italiani?
È vero, Milosz in Italia è un autore trascurato,
come alcune altre fra le voci più interessanti
del cattolicesimo francese del
Novecento – penso a Claudel, a Péguy -,
forse proprio perché sono autori di cui si
può dire – per usare l’espressione che von
Balthasar adopera per Péguy – che «non
si è mai parlato così cristiano». Però, proprio
per questo, è sempre esistito anche
un piccolo ma affezionato pubblico che è
stato costantemente legato alle loro opere.
Per quanto riguarda il mio rapporto col
Miguel Mañara, esso risale al tempo in cui
lo ascoltai più volte spiegato da don Luigi
Giussani, quando, sedicenne, fui affascinato
dall’esperienza che allora si chiamava Gioventù
Studentesca e sarebbe poi diventata
Comunione e Liberazione. Quando poi,
a partire dal 1976, divenni insegnante di
religione, diventò uno dei testi base delle
mie lezioni, e negli anni successivi fu un appuntamento
fisso di vacanze e incontri di
GS di Bergamo. In tempi più recenti sono
tornato a leggerlo agli alunni de La Traccia,
la scuola di cui oggi sono rettore, e mi sono
reso conto che, oggi come allora, parla al
cuore di tutti, forse perché i ragazzi di oggi
non sono diversi, al fondo, da quelli di quarant’anni
fa, e aspettano solo qualcuno che
li riveli a sé stessi, come dice don Miguel
in una delle battute chiave dell’opera: «Ah,
perché non ho scoperto prima di avere un
cuore buono?». Dunque un testo che è parte
integrante della mia storia.
D’accordo. Ma come mai proprio adesso
questa nuova edizione?
Come sempre, ho seguito quel che Dio fa
accadere. Le letture fatte negli anni scorsi
a La Traccia hanno avuto una certa risonanza,
e fratelli e amici più grandi, ormai fuori
dalla scuola, mi hanno chiesto di riprenderlo
anche con loro. Così alla fine è nato
un ciclo di sei incontri, uno per ciascuno
dei quadri in cui è articolata l’opera di Milosz.
Qualcuno ha registrato, qualcuno ha
trascritto le registrazioni, qualcun altro si
è preso la briga di ripulire il testo e ha cercato
di renderlo presentabile, molti hanno
insistito perché lo pubblicassi, minacciandomi
in caso contrario di far circolare le
trascrizioni grezze, piene di espressioni
dialettali, di frasi lasciate a metà, di formule
poco urbane… Alla fine ho sottoposto
le bozze a qualche amico più saggio e più
colto di me, mi hanno detto che poteva valere
la pena di farlo, e così mi sono deciso.
Perché il tuo commento, se capisco bene,
è piuttosto ampio e personale…
Sì, fin troppo ampio, me ne rendo conto.
Ma l’occasione era troppo ghiotta, e così
ne ho approfittato per accompagnare il
testo di Milosz anche con qualche altra
lettura, in primo luogo con gli echi che
inevitabilmente suscita in me di Dante, di
Leopardi… E naturalmente con un sacco di
episodi, lontani e recenti, della vita mia e
di tanti amici; perché il miracolo dell’arte,
delle vere opere d’arte, è che aiutano
a leggere l’esperienza che ognuno fa; così
mi è sembrato non inutile offrire a tutti la
possibilità che il Miguel Mañara è per ciascuno
di comprendere più profondamente
la propria vita.
Potresti farci qualche esempio?
Come faccio? Ci ho impiegato sei serate
da due ore ciascuna… Provo a sintetizzare.
Don Miguel è un uomo che dalla vita ha
tutto, ma si accorge che nulla basta a colmare
il suo desiderio di bene, di bellezza,
di felicità, che il suo cuore è – come dice in
una battuta straordinaria, una delle chiavi
dell’opera – «un desiderio di abbracciare
le infinite possibilità». Ed è a questo punto
che si imbatte in una ragazza, una giovane
donna di sedici anni dalla vita semplice ma
infinitamente più lieta della sua; e comincia

a intuire che il segreto di questa letizia
– una serena, incrollabile certezza che la
vita è abbracciata da un amore, da una misericordia
infinita – è ciò che anche lui va
cercando. La sposa, e inizia per lui una vita
nuova, proprio una Vita nova nel senso di
Dante, in cui tutto comincia ad acquistare
sapore e consistenza. Però improvvisamente,
poco dopo, Girolama muore; e Miguel
è costretto ad andare fino in fondo a
quel che ha incontrato, come Dante quando
muore Beatrice, come tutti noi, quando
ci accorgiamo che quel segno in cui abbiamo
vissuto un presentimento di felicità
non basta, vien meno, tradisce o finisce.
Così bussa alla porta di un convento, e lì
fa l’esperienza sconvolgente del perdono
della misericordia di Dio che lo abbraccia
e spazza via qualunque malefatta: «Tu
pensi a cose – gli dice l’abate che lo accoglie,
mentre lui è tutto preso dai suoi peccati
(con una sintesi fulminante che anche
a me ha ribaltato la vita) – che non sono
mai state». Quindi, in una vita di fedeltà
alla preghiera, alla regola – il dialogo con
l’abate che gli spiega il valore della fedeltà
e della pazienza è secondo me una della
pagine più belle di tutta la letteratura –,
impara ad amare tutti e tutto, ad amare la
realtà in tutti i suoi aspetti. Il testo si chiude
con la morte, meravigliosa, di Miguel
(come mi piacerebbe poter morire così…),
dopo che ha compiuto anche un miracolo,
ha guarito uno storpio; ma il miracolo
eclatante, il miracolo delle gambe raddrizzate,
non è che un’immagine del miracolo
vero che possiamo sperimentare tutti: è la
nostra anima rattrappita che torna diritta,
è la vita che, dentro l’esperienza del perdono,
torna a essere quel che deve essere,
come Dio l’ha fatta, piena di pace, di letizia,
di speranza, anche fra le tribolazioni
e le fatiche e i tradimenti di ogni giorno.
Ecco, questo in sintesi il testo, che poi è
una versione liberamente rielaborata della
storia vera di quel don Miguel Mañara che
realmente è vissuto a Siviglia nel Seicento
e che oggi la Chiesa considera venerabile.
Poi gli esempi a cui mi rifaccio sono mille,
impossibile sceglierne qualcuno…
E per queste serate hai realizzato anche
una nuova traduzione. Non ti bastavano
quelle che ci sono?
Devo confessare che ho anche fatto fatica
a cambiare, perché certe frasi le ho
proprio scolpite nella memoria. Però, più
andavo avanti con gli incontri più mi accorgevo
che tante espressioni erano un
po’ difficili per il mio pubblico, che era
fatto soprattutto di giovani; e allora, anche
con l’aiuto di qualche amico, ho cercato
di riscrivere il testo con un linguaggio
più diretto, più facilmente affine alla loro
sensibilità. Perché, come sempre, non ho
parlato a un pubblico generico, ma proprio
a quelle facce che avevo lì davanti, nella
maggior parte, come ho detto, giovani,
con le fatiche e le problematiche proprie
dei ragazzi di oggi.
E quali sarebbero le difficoltà dei ragazzi
di oggi?
Mi pare di poter dire fondamentalmente
due. La prima è la perdita del senso della
realtà. Come ha detto uno di loro a cui
stavo cercando di spiegare che cos’è stato
il Sessantotto: «a voi allora hanno portato
via soltanto la fede; a noi hanno portato
via la realtà». Cioè, quella che vedo diffusissima
oggi è un’incertezza, una diffidenza
nei confronti della realtà, il dubbio che
la realtà sia un’illusione, non sia quel che
sembra, sia sempre pronta a tradire; di qui
un timore ad affrontarla, una tentazione
terribile di rintanarsi in un mondo artificiale,
in una cerchia di soddisfazioni emotive
immediate, senza tenuta, senza capacità
di costruire nel tempo, senza scopo. E di
qui anche la seconda difficoltà, una terribile
debolezza affettiva. Siccome la realtà
tradisce, non bisogna affezionarsi a niente,
non bisogna legarsi stabilmente a niente,
l’unico criterio della vita è quello che don
Miguel ha all’inizio del dramma, abbandonarsi
a ogni attrattiva immediata e subito
dopo staccarsene; e anche in quelli che
magari provano a legarsi – penso a tante
coppie di fidanzati, di giovani sposi – incontro
spessissimo un’incapacità di accettare
la fatica e il sacrificio che inevitabilmente
occorrono per costruire il bene. Ma
non è colpa loro, evidentemente: come ho
già accennato, il loro cuore è esattamente
come il mio, come quello dei miei genitori,
come quello di Dante e degli uomini
dell’epoca di Gesù; il problema è che non
viene educato, non incontrano adulti che
sappiàmo guidarli a scoprire tutta la grandezza
che c’è in loro. Ecco, se questo libro
aiutasse qualche giovane a scoprire che
ha il cuore grande e che la realtà è buona,
che vale la pena seguire il cuore e la realtà,
vale la pena fare la fatica che inevitabilmente
comporta seguire la realtà senza
rinunciare al desiderio del proprio cuore,
forse non sarà un libro inutile. n