DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Riaccendiamo i Lumi

PANKAJ MISHRA

L’ILLUMINISMO divenne
possibile in Europa
quando, secondo la
definizione di Kant,
gli individui cominciarono
a «osare di sapere
» — a impiegare
la loro ragione, senza l’intercessione di una
qualsiasi autorità. La Rivoluzione francese
realizzò la grande svolta intellettuale dell’Illuminismo:
la separazione tra il politico
e il teocratico. La Rivoluzione contribuì anche
a creare quella che Jacob Burckhardt ha
chiamato la «volontà ottimista» — la fede
nel progresso, nella ragione e nel cambiamento,
che gli eserciti rivoluzionari francesi
diffusero in tutta Europa e perfino in Asia.
Con il progredire del XIX secolo, le innovazioni,
le norme e le categorie dell’Europa
raggiunsero un’egemonia universale. Istituzioni
politiche come lo stato-nazione, forme
estetiche come il romanzo, ideologie come
nazionalismo, liberalismo e socialismo,
e processi come la scienza, la tecnologia, il
capitalismo industriale divennero i punti di
riferimento per la valutazione di ogni altra
forma di vita umana, passata e presente.
La laicità è stata uno dei principi europei
moderni più influenti nel suo considerare la
religione tradizionale inferiore ai nuovi modi
razionali di comprendere e migliorare la società
umana. Di fronte a questa potenza europea
senza precedenti, morale e intellettuale,
ma anche militare, gli uomini nelle società
asiatiche e africane si sono adattati oppure
hanno opposto resistenza. In entrambi i casi,
hanno finito col disporre antichi modi di vita,
codici etici di condotta e culture, come il buddismo,
l’induismo e l’islam, secondo le linee
europee moderne. C’è stata molta più secolarizzazione
nel mondo dal XVIII secolo, quando
alcuni filosofi europei e americani proposero
un futuro nel quale gli individui, armati
di ragione e diritti, avrebbero portato il progresso.
Non tutto è andato come previsto. La storia
post-illuminista d’Europa ha reso inaccettabile
gran parte dell’intemerata mancanza di
rispetto di Voltaire per la religione — per
esempio, la sua denuncia degli ebrei come fanatici
nati che «meritano di essere puniti». Le
politiche di assimilazione nell’Europa secolarizzata
non sono riuscite a garantire i diritti
degli ebrei, o a salvarli dalla discriminazione
e dal disprezzo, inducendo un disperato Joseph
Roth a esclamare che preferiva la vecchia
«paura di Dio» europea al suo «cosiddetto
umanesimo moderno». L’astratta nozione
illuminista dell’uguaglianza di diritti si è rivelata
debole rispetto agli imperativi della sovranità
territoriale e nazionale.
Non c’è bisogno di essere cattolici o marxisti,
per rendersi conto che l’Europa è circondata
da problemi seri: disoccupazione alle
stelle, crisi irrisolta dell’euro, crescente ostilità
contro gli immigrati e una scioccante e diffusa
perdita di speranza nel futuro dei giovani
europei — eventi resi intollerabili per molti
da invisibili detentori di titoli, da banchieri
che godono di gratifiche esorbitanti e dal vizio
della venalità che si diffonde in tutta l’oligarchia
politica europea.
In queste circostanze, la supposizione non
detta che, mentre tutto il resto cambia nel
mondo moderno, le norme europee debbano
rimanere autosufficienti e immutabili, meri-
tandosi una sottomissione incondizionata da
parte degli stranieri arretrati, ci costringe a
fermarci un attimo. Come ha dimostrato Tony
Judt nel suo magistrale Dopoguerra, la nozione
dell’Europa come l’incarnazione della democrazia,
della razionalità, dei diritti umani,
della libertà di parola, dell’uguaglianza di genere
doveva sopprimere le memorie collettive
di crimini brutali nei quali quasi tutti gli stati
europei erano stati complici. Né non si può
dire che abbiano dato nuovo vigore ai valori
dell’Illuminismo negli ultimi anni. Gli statinazione
europei, anche quelli che non hanno
partecipato alle guerre e alle occupazioni anglo-
americane, hanno permesso esecuzioni
extragiudiziali, torture e estradizioni illegali,
che in origine erano sanzionati in nome della
ragione, della libertà e della democrazia.
La nostra epoca è caratterizzata da stati-nazione
pesantemente armati, da potenti corporazioni
e da ciò che sembra essere una disuguaglianza
strutturale inestirpabile, insieme
a una dilagante depoliticizzazione causata
da una ampiamente avvertita perdita della
sovranità individuale e collettiva. I valori illuministici
della libertà individuale si manifestano
meglio in singoli atti di critica e di sfida.
La maggior parte dell’arte e della letteratura
moderne emerge da questo ethos critico dell’Illuminismo,
dall’implacabile messa in discussione
delle rivendicazioni del progresso e
della civiltà.
Le élite egoiste, oggi ossessionate da premonizioni
di declino, e intrappolate nello
scontro tra la democrazia locale e il capitalismo
globale, devono affrontare un’altra sfida,
più esistenziale: è l’assenza, come disse lo storico
Mark Mazower nel 1998, di «un avversario
contro il quale i democratici possano definire
ciò che rappresentano». Gli attacchi terroristici
dell’11 settembre hanno fornito un
sostituto al nazismo e al comunismo: il «totalitarismo
islamico». Questo grande concetto
intellettuale è stato incautamente applicato a
un gruppo sciolto di megalomani, fanatici, delinquenti
e disadattati, la maggior parte dei
quali ha prosperato nell’ecosistema dell’estremismo
(scuole, moschee, giornali, canali
satellitari) originariamente istituiti dai cittadini
di un fedele sostenitore dell’alleanza con
l’Occidente e della teocrazia, l’Arabia Saudita.
Ha raggiunto un certo potere persuasivo
solo dopo l’invasione e l’occupazione angloamericana
dell’Iraq, che ha radicalizzato un
numero significativo di musulmani, provocando
attacchi di rappresaglia nelle città europee
e la devastazione di gran parte dell’Asia
e dell’Africa. Quella guerra disastrosa ora ha
generato una culto nichilistico della morte,
che ricorda gli Khmer Rossi, in Iraq e in Siria.
Il pericolo del totalitarismo islamico ha dimostrato,
almeno in Europa, di essere un mediocre
surrogato rispetto alla minaccia rappresentata
dal comunismo dotato di armi nucleari.
Putin, tornando ad assumere una posizione
anti-occidentale, si è preso più territorio
europeo e ha ucciso più persone; uno dei più
grandi attacchi terroristici in Europa è stato
messo in atto non da al-Qaeda, ma da un blogger
norvegese islamofobo.
I musulmani, come gli indù e i buddisti, hanno
intrapreso da tempo una transizione di tipo
illuminista dal mondo sacralizzato dei simboli
e dei segni significativi a un mondo disincantato
di fatti neutrali, in cui la ragione e il
giudizio individuali sono guide più affidabili
dell’autorità trascendente. Tutti i popoli di
quello che una volta era conosciuto come il
Terzo Mondo sono «condannati alla modernità
», come ha scritto una volta Octavio Paz. I
musulmani in Europa portano a compimento
questo destino non come una borghesia commerciale
che trionfa su un’élite religiosa e aristocratica,
ma come una povera minoranza
soggetta agli obblighi e ai pregiudizi di uno
stato laico aggressivo con cui condividono una
storia lunga e oscura. La morale razionale dell’Illuminismo,
come ammette
anche Jürgen Habermas, il
suo più eloquente difensore,
«è finalizzata alla comprensione
degli individui, e non

favorisce alcun impulso ver-
guidata dalla morale». In un’epoca in cui
il denaro è più che mai la misura di tutte le
cose, la secolarizzazione può apparire troppo
simile alla despiritualizzazione, se non
alla disumanizzazione: una ricetta per l’inautenticità.
E il conflitto è sempre probabile
se le minoranze asiatiche e africane sono
costrette a rispettare le norme europee
di secolarizzazione, che non solo comportano
la retrocessione di simboli di identità religiosa,
come il velo, allo «spazio privato»,
ma possono anche bruscamente stabilire
che, come dice uno slogan molto citato dopo
gli attentati di Parigi, «nessuno ha il diritto
di non essere offeso».
Il problema per le persone condannate alla
modernità «non è tanto sfuggire a questo destino
», ha scritto Paz, «ma scoprire una forma
meno disumana di conversione», che «non implichi,
come adesso accade, la doppiezza e la
scissione psichica». Riconoscere che ci sono
molti modi di passare alla modernità, ognuno
con le proprie complesse tensioni, è muoversi
verso una visione meno unilaterale dell’umanità,
e, forse, verso una forma più accomodante
di laicità e democrazia, sempre più necessaria
in un’Europa irrevocabilmente multietnica.
I tentativi di definire l’identità francese o
europea separandola violentemente dal suo
presunto «altro» storico, e con la creazione di
opposizioni — civili e arretrati, laici e religiosi
— non può avere successo in un’epoca in cui
questo «altro» possiede anch’egli il potere di
scrivere e di fare la storia. La globalizzazione
economica, inducendo all’interdipendenza,
sembrava in un primo momento minare il solipsismo
nazionalista o di civiltà. In realtà, come
rivela la recrudescenza del discorso sullo
scontro di civiltà, siamo lontani dal superare
nozioni obsolete e sempre più rigide di appartenenza
e di identità. La necessaria discussione
di nozioni flessibili di cittadinanza e di sovranità
o di identità fluide — imperative nell’era
della globalizzazione — è rapidamente
compromessa dal gettare la colpa sulla natura
incorreggibilmente medievale delle persone
religiose e sulla loro incapacità di apprezzare
le virtù della modernità laica.
Come scrive il filosofo canadese Charles
Taylor, «la nostra identità è in parte modellata
dal riconoscimento o dalla sua assenza,
spesso da un falso riconoscimento degli altri,
e così una persona o un gruppo di persone può
subire un danno reale, una vera distorsione,
se la gente o la società che li circonda gli rimanda
un’immagine limitata o un’immagine
umiliante o spregevole di se stessi». Non è necessaria
un’ampia esplorazione della differenza
tra la semiotica cristiana e quella islamica
per capire che se molti musulmani si offendono
personalmente per le immagini degradanti
del profeta è perché egli è per loro un
esempio di umanità nobile più che una figura
distante autorevole e severa — uno il cui più
piccolo atto è degno di emulazione. Vivendo in un mondo diverso
e instabile, e condividendo
un presente comune pur venendo
da retroterra diversi,
tanto i non-musulmani
che i musulmani sono chiamati
a rinunciare, come ha
scritto Hannah Arendt, non alla loro «tradizione
e al loro passato nazionale», ma «all’autorità
vincolante e alla validità universale
che la tradizione e il passato hanno
sempre preteso».
Senza questa rinuncia qualificata, il nostro
stato di solidarietà negativa può diventare
soltanto «un peso insopportabile», provocando
«apatia politica, nazionalismo isolazionista,
o una disperata ribellione contro tutti i poteri
costituiti». La triste profezia della Arendt
sembra realizzarsi oggi in molte rivolte e
esplosioni di violenza in tutto il mondo. Abbiamo
sentito parlare molto dopo l’11 settembre
di quella che Rushdie definisce la «mutazione
letale nel cuore dell’Islam». Ma abbiamo
sentito parlare relativamente poco dell’aumento
dell’odio tribale verso le minoranze
in tutto il mondo — la principale patologia
del capro espiatorio suscitata dalle crisi politiche
ed economiche — anche oggi che il mondo
è molto più legato dalla globalizzazione.
La rinascita di questi fanatismi confessionali
non implica tanto la vitalità della religione
medievale quanto delle tristi mutazioni nel
cuore della modernità laica. Michel Houellebecq
è colpevole di un’esagerata autocommiserazione
quando annuncia che «l’Illuminismo
è morto, riposi in pace» e che l’Islam è una
«immagine del futuro». Ma la società laica
contemporanea nei suoi cupi romanzi — caratterizzati
da estrema disuguaglianza, perdita
di comunità, egocentrismo narcisistico e
indifferenza al dolore — sembra un vicolo cieco
che molti di coloro che stanno attraversando
il loro Illuminismo e elaborando la transizione
verso il disincantato mondo moderno
cercano di evitare.
La vecchia promessa di stati-nazione europei
omogenei — dove se ti integri godrai del
privilegio di una società basata sul concetto
dei diritti individuali — non sembra più adeguata,
anche se può essere interamente recuperata.
Sembra indispensabile che queste diverse
società ridefiniscano i loro principi in
modo da ammettere esplicitamente visioni
diverse, religiose e metafisiche, del mondo. La
pensatrice francese Simone Weil, che non
ignorò mai le minoranze di Francia nelle sue
riflessioni di ampio respiro, riconobbe presto
che il vecchio modello standardizzato di progresso
doveva essere sostituito, perché i valori
dell’individualismo e dell’autonomia che in
origine avevano dato vita all’uomo moderno
erano giunti a minacciare la sua identità morale
e spirituale. In La prima radice, un libro
scritto nel 1943 per chiarire le lezioni della capitolazione
della Francia alla Germania nazista,
Weil giunse al punto di abbandonare il linguaggio
dei diritti. La difesa dei diritti individuali
era stata fondamentale per l’espansione
del commercio e di una società basata sul
contratto nell’Europa occidentale. All’indomani
della catastrofica sconfitta della Francia,
Weil sosteneva che una società libera e radicata
dovrebbe essere costituita da una rete
di obblighi morali. Abbiamo il diritto di ignorare
le persone che muoiono di fame, disse,
ma dovremmo essere costretti a non lasciarle
morire di fame.
Habermas è arrivato a credere che la «sostanza
dell’umano» può essere salvata solo da
società che «sono in grado di introdurre nel dominio
secolare i contenuti essenziali delle loro
tradizioni religiose». La profonda svolta di
Habermas è un segno tra i tanti che l’identità
dell’uomo laico moderno, che è stata costruita
sulle nozioni esclusiviste della laicità, della
libertà, della solidarietà e della democrazia in
Stati nazionali sovrani, si è disfatta, e richiede
una definizione più ampia. Bisogna rinegoziare
un nuovo spazio comune. Lo Stato militarmente
e culturalmente interventista, favorevole
alle imprese ma per il resto minimalista
e che vuole spacciare una certa ideologia
di crescita economica, non lo farà. Questa
mancanza potrebbe anche giocare un ruolo
nelle mani dei fanatici che vogliono distruggere
il più prezioso lascito dell’Illuminismo: il
distacco tra il teocratico e il politico.
Dovremmo recuperare l’Illuminismo, così
come la religione, dai suoi fondamentalisti. Se
l’Illuminismo è «l’emancipazione dell’uomo
dalla sua immaturità auto-imposta», allora
questo «compito» e «obbligo», come Kant lo
definì, non è mai definitivamente compiuto;
deve essere continuamente rinnovato da
ogni generazione nel continuo cambiamento
delle condizioni sociali e politiche. Sostenere
la necessità di maggiore violenza e di altre
guerre di fronte al fallimento ricorrente appartiene
più al fanatismo che alla ragione. Il
compito per coloro che hanno a cuore la libertà
è quello di ripensarlo — attraverso un ethos di
critica unita alla compassione e a un’incessante
consapevolezza di sé — nelle nostre società
irreversibilmente miste e fortemente disuguali
e nel più ampio e interdipendente
mondo in cui viviamo. Solo allora saremo in
grado di difendere la libertà dai suoi veri nemici.

Traduzione di Luis E. Moriones
© Pankaj Mishra