IL CALCIO COME METAFORA DELLA
NOSTRA SOCIETA' PRIGIONIERA DELLO SPETTACOLO VIRTUALE NEL QUALE SIAMO SEDOTTI E
ABBANDONATI. COME FA IL LAVORO CON MOLTISSIME DONNE, STRAPPANDOLE ALLA LORO
MISSIONE PER ABBANDONARLE ALLA SOLITUDINE DI UNA VITA FRUSTRATA.
Un articolo interessantissimo su Repubblica di oggi mostra una volta di più, stavolta partendo dalla realtà del calcio, l'emergenza
educativa di cui soffre questa generazione. I genitori non sanno gestire la sconfitta e
per questo i figli senza capacità di soffrire sfuggono il calcio autentico
(quello giocato) per rifugiarsi nella consolle della Play Station o
nascondendosi dentro una squadra al Fantacalcio: "Al cinema e in libreria
domina il fantasy, con maghi e dragoni. Il prato verde stravince la gara dei
videogame: Fifa, gioco di calcio per console prodotto dalla EaSports, è il più
venduto in Italia (per distacco) e ha fatto segnare un aumento delle vendite
negli ultimi 7 anni che sfiora il 300%. La stragrande maggioranza dei
consumatori ha meno di 20 anni". Ciò sta accadendo perché, spiega lo
psicologo Aldo Grauso, "se il bambino deve scegliere tra realtà e
fantasia, preferisce la seconda perché così è più difficile ricevere una ferita
narcisistica". E come accade nella vita, dal matrimonio alle amicizie,
allo studio e al lavoro, "è altissimo il cosiddetto “drop out”,
l’abbandono precoce dell’attività". "Drop out" perché non è la
Croce la spina dorsale su cui crescere e restare in piedi nella vita,
nonostante le sconfitte e i peccati. Non a caso latitano i bambini anche nelle
scuole calcio, perché, come afferma Marco Marchi, responsabile della Reset
Academy della Lodigiani, da dove è uscito anche Totti: "Bisogna saper
interagire con giovani che non riconoscono le autorità a casa, figurarsi in
campo".
E chissà che l'incapacità di
farsi una bella e spesso sanguinante partita a calcio nel campetto
dell'oratorio o sulla strada sotto casa non sia dovuto anche (e soprattutto)
all'inganno demoniaco che ha sedotto ormai tre generazioni di donne
strappandole alla loro insopprimibile vocazione di mamma per gettarle
nell'illusione dell'autodeterminazione; come già accadde ad Eva e a una
lettrice del Corriere della Sera e di Severgnini, a cui ha scritto una lettera
che è un segno tragico di questi tempi, parole che da sole valgono a frantumare
decenni di menzogne politicamente corrette su parità e pari opportunità: "Son finita a fare l’avvocato, neanche troppo brava, e provo anche
a fare la madre, ruolo cercato e voluto con lacrime e sangue (ho perso in
grembo ben due figli, ma ho due bimbe meravigliose). Ma proprio in
questo sta il mio fallimento. Ci ho provato, disperatamente,
a conciliare le due cose. Ho chiesto orari ridotti che mi consentissero
di portare le piccole al nido o alla scuola materna, mi sono avvalsa di tate,
di aiuti di ogni genere, e per qualche tempo mi sono anche illusa di poter fare
tutto. Ma la realtà è che è impossibile. Pur con tutti gli aiuti del
mondo, ti ritrovi con il conto in banca prosciugato dagli stipendi alle tate e
alle sostitute delle tate, dai folli costi dei nidi e delle attività
extrascolastiche (che, pur senza esagerare, ti paiono irrinunciabili, come ad
esempio un corso di nuoto, uno di inglese) e al contempo devi convivere con
enormi sensi di colpa che ti tormentano. Non riesci a recuperarle da
scuola tutti i giorni, non riesci a giocare con loro nel pomeriggio perché devi
preparare una cena possibilmente sana e devi organizzare la giornata successiva,
non sei abbastanza serena da assicurare loro un sorriso costante ed una parola
indulgente, affannata come sei da tanti pensieri. Ma i
sensi di colpa non sono solo questi. Ti sembra di essere una lavoratrice
meno solerte degli altri perché esci prima dallo studio rispetto ai colleghi
uomini; ti sembra di non essere una brava moglie perché tuo marito
ti chiede cosa hai fatto dalle 18 in poi e a te sembra troppo poco farfugliare
«Le ho portate al parco giochi, le ho lavate perché erano sporchissime e ho
preparato la cena con la piccola sempre attaccata alle gambe»; ti senti in
colpa per non riuscire ad avere un rapporto umano o addirittura amorevole con
una suocera criticona; ti senti in colpa a scaldarti il cuore con un bel piatto
di pasta serale perché sei fuori forma e non hai neppure il tempo di farti una
messa in piega; insomma, ti senti sempre e costantemente sotto
pressione... Sono stanca... Ti dico la verità, se è questo
quello che volevano le donne quando lottavano per i loro diritti, beh, penso
abbiano fallito. Sia loro nel prefiggersi uno scopo irrealizzabile,
sia noi che siamo state incapaci di realizzarlo. Non è possibile dover lavorare
come matte per guadagnarsi la minima credibilità professionale e allo stesso
tempo fare i salti mortali per tenere la gestione di una
famiglia".
Eh sì, dietro all'incapacità
dei figli di soffrire e accettare le sconfitte e le umiliazioni c'è sempre la
confusione di ruoli in famiglia, con un padre assente e una madre stressata dal
duplice fronte su cui deve combattere ogni giorno frustrando la sua maternità.
Non ci dobbiamo stupire allora se le nuove generazioni scappano dalla realtà e,
crescendo, si infilano nel Fantacalcio, amara metafora del Fantamatrimonio e
del Fantafidanzamento, unici luoghi dove ci si può illudere di gestire la
propria vita senza i traumi della sofferenza reale: "I numeri diventano
addirittura spaventosi se si parla di Fantacalcio: una vecchia stima parlava di
2 milioni di giocatori in tutta Italia. Oggi, soltanto le piattaforme on-line ospitano
oltre un milione di squadre, di cui 600mila circa amministrate dal brand
ufficiale. Un gioco che consente ai fanta allenatori di costruire una squadra
propria: un modo per vincere il campionato pure se la squadra del cuore
retrocede, o avere il campione dei sogni, quello che il club per cui fai il
tifo non comprerà mai. In Germania c’è persino chi come lo Schalke ha
acquistato una squadra di Fantacalcio giocato da giovanotti che sanno comandare
calciatori virtuali: il club paga loro uno stipendio e gli ha dato le maglie.
In giro per il mondo, capita già che migliaia di persone. si riuniscano in
stadi di Fantacalcio, in cui chi gioca non è Buffon, ma una sua proiezione
virtuale. Gli stadi reali invece, almeno in Italia, continuano a svuotarsi:
nelle grandi squadre soltanto il 5% del totale dei biglietti viene acquistato
da ragazzi sotto i 14 anni".
E' di certo vero quello che
afferma Costanza Miriano commentando la lettera della mamma che non ce l'ha
fatta a conciliare lavoro e famiglia: "E' ora che chiediamo di lavorare con tempi e modi da
mamma, per esempio stando a casa per anni quando i figli sono piccoli. Questa
donna non ce l'ha fatta non perché non sia brava, ma perché, semplicemente, è
impossibile essere su due fronti al meglio. E' ora di aprire la VERA questione
femminile. Non dobbiamo più pretendere che le mamme possano lavorare, ma che le
lavoratrici possano fare le mamme come il loro cuore profondamente desidera. E
basta di prendercela con gli uomini. Non è colpa loro se partoriamo noi".
Ma non basta. Un donna è antropologicamente diversa dall'uomo anche in base
alle conseguenze che il peccato ha su di loro: il lavoro e il sudore sulla
fronte per l'uomo, le gravidanze e il dolore che le accompagna per la donna.
Conseguenze che costituiscono e tracciano però il cammino di ritorno
(conversione) al Paradiso perduto.
Non è stato però possibile
percorrerlo sino a che non è apparso Dio con una carne identica alla nostra.
Sino a che il suo Figlio Gesù Cristo non è sceso nella morte di ogni uomo e di
ogni donna per risorgere con loro, facendo così della Croce la porta dischiusa
sul Paradiso e di ogni goccia di sudore e di ogni dolore un'orma su cui deporre
sicuri i passi verso il compimento della vita. Se dunque Dio non ha previsto
per la donna un cammino alla propria realizzazione attraverso il lavoro come
non ha pensato gravidanze per l'uomo un motivo ci sarà, no? Farsi Dio, cioè
peccare contro di Lui e contro se stessi, è anche pretendere di cambiare queste
carte che il Creatore ha messo a tavola... Certo, vi sono casi eccezionali,
come Edith Stein ad esempio, o le tante donne vedove e no che per mandare
avanti la famiglia si sono viste obbligate dalla storia a lavorare. Senza però
illudersi che quel lavoro le potesse realizzare, ovvero condurre al Cielo che è
l'unica vera realizzazione per ogni uomo. Anzi, lavoravano, e lavorano, solo
per poter essere spose e madri, e non viceversa.
Altro che Fantacalcio e play
station, la vita è seria come una partita di calcio: si prendono botte si cade,
ci si rialza, si vince e si perde, ma si combatte sul fronte reale del lavoro e
della maternità, nel matrimonio o in qualunque altra vocazione, abbracciati a
Cristo che ha aperto per noi un cammino di ritorno al Padre che dà senso
(direzione) e pienezza alla nostra vita.
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L'ARTICOLO DI REPUBBLICA SUL
CALCIO
Meno giovani arbitri,
meno baby calciatori e un esercito crescente di fanta allenatori. Il calcio
come lo abbiamo vissuto per anni non basta più: peggio, non piace. Soprattutto
ai giovanissimi. Protagonista dei sogni di milioni di bambini è ancora il
pallone, ma non quello che corre sul campo di calcio. L’emozione s’è trasferita
altrove, tra smartphone e playstation: così i protagonisti diventano loro, i
ragazzi. Gli stadi italiani si svuotano per motivi ormai noti: impianti vecchi,
biglietti cari, Maradona e Van Basten appartengono al passato. Ma anche le
iscrizioni alle scuole calcio segnano una flessione: intorno al 10 per cento
annuale. È arrivata una generazione che vive il calcio in modo nuovo. Non ci
gioca, lo usa. «Se il bambino deve scegliere tra realtà e fantasia, preferisce
la seconda perché così è più difficile ricevere una ferita narcisistica»,
spiega Aldo Grauso, psicologo dello sport con una lunga esperienza nel calcio
giovanile. «Dal punto di vista evolutivo, i ragazzi tra 7 e 14 anni hanno più capacità
di gestire la fantasia. E manifestano problemi con la gestione della
sconfitta, spesso perché i primi a non accettarla sono i genitori. Non a
caso è altissimo il cosiddetto “drop out”, l’abbandono precoce dell’attività».
Una situazione che molte scuole calcio stanno compensando nei numeri con
l’apertura alle bambine. Ma anche i corsi Aia per diventare arbitro,
accessibili dal sedicesimo anno d’età, sono in calo netto. Eppure c’è un calcio
che aumenta fatturati e numeri di fedelissimi: è quello virtuale. Al cinema e
in libreria domina il fantasy, con maghi e dragoni. Il prato verde stravince la
gara dei videogame: Fifa, gioco di calcio per console prodotto dalla EaSports,
è il più venduto in Italia (per distacco) e ha fatto segnare un aumento delle
vendite negli ultimi 7 anni che sfiora il 300%. La stragrande maggioranza dei
consumatori ha meno di 20 anni. I numeri diventano addirittura spaventosi se si
parla di fantacalcio: una vecchia stima parlava di 2 milioni di giocatori in
tutta Italia. Oggi, soltanto le piattaforme on-line ospitano oltre un milione
di squadre, di cui 600mila circa amministrate dal brand ufficiale. Un gioco che
consente ai fanta allenatori di costruire una squadra propria: un modo per
vincere il campionato pure se la squadra del cuore retrocede, o avere il
campione dei sogni, quello che il club per cui fai il tifo non comprerà mai. In
Germania c’è persino chi come lo Schalke ha acquistato una squadra di F
TPD DFS, giocato da giovanotti che sanno comandare calciatori virtuali: il club
paga loro uno stipendio e gli ha dato le maglie. In giro per il mondo, capita
già che migliaia di persone. si riuniscano in stadi di F TPDDFS, in cui chi
gioca non è Buffon, ma una sua proiezione virtuale. Gli stadi reali invece,
almeno in Italia, continuano a svuotarsi: nelle grandi squadre soltanto il 5%
del totale dei biglietti viene acquistato da ragazzi sotto i 14 anni. Per
riportare i giovanissimi allo stadio le società hanno iniziato a inventare
formule alternative. Il Bologna ha raddoppiato le presenze dei ragazzini al
Dall’Ara dedicandogli un settore: «È un successo che arriva grazie ai servizi
che offriamo - spiega Christoph Winterling, direttore marketing del club
rossoblù - abbiamo un angolo ai piedi del settore dove i calciatori si mettono
a disposizione per salutare e firmare autografi, e in cui gli sponsor possono
offrire i propri servizi. I giovani sono attratti perché si
aggiunge all’esperienza della partita anche un’altra forma di
intrattenimento». Riportare i ragazzi nelle scuole calcio è anche più
difficile. Marco Marchi, responsabile della Reset Academy della Lodigiani, da
dove è uscito anche Totti, ci sta provando: «Bisogna selezionare i coach, non i
ragazzi. Bisogna saper interagire con giovani che non riconoscono le autorità a
casa, figurarsi in campo. C’è una carenza generica di cultura sportiva e
chi promuove attività di avviamento deve essere attento alle esigenze dei
bambini: non basta insegnare il passaggio o il tiro, ma assicurarsi che
l’esercizio venga appreso dal ragazzo. L’obiettivo non può essere migliorare il
gesto tecnico, ma migliorare i singoli bambini. E comunicare, spiegando cosa si
sta facendo. Tanti allenatori però sono arroccati a difesa dei vecchi
principi». Come sempre, basta trovare un’idea. È solo una questione di fantasia.
(La Repubblica, 23 settembre 2016)
E LA LETTERA DI UNA DONNA CHE
HA SPERIMENTATO COME SIA IMPOSSIBILE CONCILIARE CARRIERA E MATERNITA'
Caro Beppe, Dopo giorni di lacrime e dubbi scrivo a te, rendendoti
destinatario di un flusso di coscienza ma anche di una dichiarazione di
fallimento... Mi sono iscritta a giurisprudenza perché, figlia di
magistrato, ho seguito il consiglio paterno, quel genere di consigli che ti
pesano come macigni ma che ti sembrano ineluttabili, perché non riesci a contraddire
la persona che per te è l’essenza della ragionevolezza. Son finita a fare
l’avvocato, neanche troppo brava, e provo anche a fare la madre, ruolo cercato
e voluto con lacrime e sangue (ho perso in grembo ben due figli, ma ho due
bimbe meravigliose). Ma proprio in questo sta il mio
fallimento. Ci ho provato, disperatamente, a conciliare le due cose. Ho
chiesto orari ridotti che mi consentissero di portare le piccole al nido o alla
scuola materna, mi sono avvalsa di tate, di aiuti di ogni genere, e per qualche
tempo mi sono anche illusa di poter fare tutto. Ma la realtà è che è
impossibile. Pur con tutti gli aiuti del mondo, ti ritrovi con il conto in
banca prosciugato dagli stipendi alle tate e alle sostitute delle tate, dai
folli costi dei nidi e delle attività extrascolastiche (che, pur senza
esagerare, ti paiono irrinunciabili, come ad esempio un corso di nuoto, uno di
inglese) e al contempo devi convivere con enormi sensi di colpa che ti
tormentano. Non riesci a recuperarle da scuola tutti i giorni, non riesci
a giocare con loro nel pomeriggio perché devi preparare una cena possibilmente
sana e devi organizzare la giornata successiva, non sei abbastanza serena da
assicurare loro un sorriso costante ed una parola indulgente, affannata come
sei da tanti pensieri.
Ma i sensi di colpa non sono
solo questi. Ti sembra di essere una lavoratrice meno solerte degli altri
perché esci prima dallo studio rispetto ai colleghi uomini; ti sembra di non
essere una brava moglie perché tuo marito ti chiede cosa hai fatto dalle 18 in poi
e a te sembra troppo poco farfugliare «Le ho portate al parco giochi, le ho
lavate perché erano sporchissime e ho preparato la cena con la piccola sempre
attaccata alle gambe»; ti senti in colpa per non riuscire ad avere un rapporto
umano o addirittura amorevole con una suocera criticona; ti senti in colpa a
scaldarti il cuore con un bel piatto di pasta serale perché sei fuori forma e
non hai neppure il tempo di farti una messa in piega; insomma, ti senti sempre
e costantemente sotto pressione... Sono stanca... Ti dico la verità, se è questo quello che volevano le donne quando
lottavano per i loro diritti, beh, penso abbiano fallito. Sia loro
nel prefiggersi uno scopo irrealizzabile, sia noi che siamo state incapaci di
realizzarlo. Non è possibile dover lavorare come matte per guadagnarsi la
minima credibilità professionale e allo stesso tempo fare i salti mortali per
tenere la gestione di una famiglia. Certo, i mariti aiutano, ma il loro
apporto è sempre marginale ed il carico fisico ed emotivo è nostro. Non
abbiamo nessun aiuto dai Comuni, dallo Stato, nessuna comprensione (se non di
facciata) dai colleghi uomini, nessun supporto neppure tra di noi. Anche tra
mamme lavoratrici, millantiamo comprensione e condivisione, ma poi siamo sempre
pronte a giudicarci vicendevolmente. Ho il nodo alla gola da giorni e non
vedo soluzione, se non una nuova chiave di lettura di questa ormai esasperata
condizione. (Corriere della Sera, 22 settembre 2016)