PREGARE
PER I MORTI E PER I VIVI
Quanti modi diversi ci sono
per pregare per il nostro prossimo! Sono tutti validi e accetti a Dio se fatti
con il cuore. Penso in modo particolare alle mamme e ai papà che benedicono i
loro figli al mattino e alla sera. Ancora c’è questa abitudine in alcune
famiglie: benedire il figlio è una preghiera; penso alla preghiera per le
persone malate, quando andiamo a trovarli e preghiamo per loro;
all’intercessione silenziosa, a volte con le lacrime, in tante situazioni
difficili per cui pregare. Ieri è venuto a messa a Santa Marta un bravo uomo,
un imprenditore. Quell’uomo giovane deve chiudere la sua fabbrica perché non ce
la fa e piangeva dicendo: “Io non me la sento di lasciare senza lavoro più di
50 famiglie. Io potrei dichiarare il fallimento dell’impresa: me ne vado a casa
con i miei soldi, ma il mio cuore piangerà tutta la vita per queste 50
famiglie”. Ecco un bravo cristiano che prega con le opere: è venuto a messa a
pregare perché il Signore gli dia una via di uscita, non solo per lui, ma per
le 50 famiglie. Questo è un uomo che sa pregare, col cuore e con i fatti, sa
pregare per il prossimo. E’ in una situazione difficile. E non cerca la via di
uscita più facile: “Che si arrangino loro”. Questo è un cristiano. Mi ha fatto
tanto bene sentirlo! E magari ce ne sono tanti così, oggi, in questo momento in
cui tanta gente soffre per la mancanza di lavoro; penso anche al ringraziamento
per una bella notizia che riguarda un amico, un parente, un collega…: “Grazie,
Signore, per questa cosa bella!”, anche quello è pregare per gli altri!.
Ringraziare il Signore quando le cose vanno bene. A volte, come dice San Paolo,
«non sappiamo come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede
con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). E’ lo Spirito che prega dentro
di noi. Apriamo, dunque, il nostro cuore, in modo che lo Spirito Santo,
scrutando i desideri che sono nel più profondo, li possa purificare e portare a
compimento. Comunque, per noi e per gli altri, chiediamo sempre che si faccia
la volontà di Dio, come nel Padre Nostro, perché la sua volontà è sicuramente
il bene più grande, il bene di un Padre che non ci abbandona mai: pregare e
lasciare che lo Spirito Santo preghi in noi. E questo è bello nella vita: prega
ringraziando, lodando Dio, chiedendo qualcosa, piangendo quando c’è qualche
difficoltà, come quell’uomo. Ma il cuore sia sempre aperto allo Spirito perché
preghi in noi, con noi e per noi. (PAPA FRANCESCO, CATECHESI GENERALE DEL 30
NOVEMBRE 2016)
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IN
SIRIA I BAMBINI E I GIOVANI CRISTIANI RISCHIANO LA VITA, IN ITALIA LA METTONO A RISCHIO PER NOIA
E VUOTO PNEUMATICO….
“Vi
testimonio la mia grazia: vivere al fianco dei martiri cristiani in Siria”
Suor Maria Guadalupe,
missionaria dell’Ive, racconta la sua esperienza e punta l’indice verso le
bugie dei media occidentali e quelle potenze “che parlano di diritti umani e
appoggiano l’Isis”
Tra le varie immagini che scorrono sullo
schermo dietro di lei, ce n’è una che ritrae un gruppo di famiglie durante un
pic-nic che sembra svolgersi in un parco di una pacifica città
occidentale. Gli abbracci amichevoli, i volti distesi e sorridenti, gli abiti
dignitosi suggeriscono che siano persone spensierate. Stupisce sapere invece
che quella foto è stata scattata a un gruppo di cristiani di Aleppo, in Siria,
non molti mesi fa. È gente, quella che sorride e che mantiene la schiena
dritta, che convive quotidianamente con la morte, consapevole che ogni giorno
potrebbe essere l’ultimo di vita.
Questa immagine racchiude il senso delle parole
pronunciate da suor Maria Guadalupe de Rodrigo, missionaria argentina
dell’Istituto del Verbo Incarnato (Ive), nel corso della conferenza che ha
tenuto ieri all’Università Europea di Roma a proposito della sua esperienza in
Siria.
La suora dell’Ive non esita a definire “una
grazia” il poter vivere al fianco di questi nuovi martiri della fede cristiana:
persone d’ogni età e censo, che affrontano la spada degli estremisti islamici
come un premio del Signore.
L’esperienza di suor Maria Guadalupe in Siria
ha inizio nel gennaio 2011, a seguito di un periodo in Egitto. Dopo aver
sperimentato la discriminazione che vivono i cristiani nel Paese delle sfingi,
la giovane vede come un’occasione per rilassarsi il trasferimento ad Aleppo, un
vero e proprio crogiolo inter-religioso, ove regna la pace, la convivenza, la
prosperità.
Passano appena due mesi dal suo arrivo,
tuttavia, e la situazione del Paese precipita inopinatamente. A marzo iniziano
le prime manifestazioni di protesta contro il Governo di Assad. “I media occidentali
parlavano di dimostrazioni pacifiche svolte da cittadini siriani per chiedere
democrazia, ma noi che eravamo lì possiamo testimoniare tutt’altro”, spiega la
suora.
La fase embrionale dei tumulti si è sviluppata
a Dar’a, nell’estremo sud del Paese. Alcune ragazze originarie di quel
villaggio, ospiti nel centro d’accoglienza per studentesse dell’Ive ad Aleppo,
testimoniano a suor Maria Guadalupe e alle sue consorelle che “gruppi di
stranieri, lo si notava dall’accento, entravano nei villaggi armati fino ai
denti per uccidere i cristiani”.
Fin da subito l’elemento religioso si
configura quindi come determinante. Eppure la stampa sembra non volersene
accorgersene. Anzi, suor Maria Guadalupe ravvede una precisa volontà a
disinformare l’opinione pubblica su quanto sta avvenendo in Siria.
Quando le proteste si estendono in tutto il
Paese e giungono anche ad Aleppo, spiega la religiosa, “abbiamo visto dalle
nostre finestre, con i nostri occhi, migliaia di persone scendere in strada per
manifestare solidarietà ad Assad. Ebbene, dopo poche ore quelle stesse immagini
nei media venivano fatte passare come sommosse contro il regime”.
Le accuse della suora sono rivolte a una
stampa connivente con la comunità internazionale, vera responsabile della
mattanza siriana. “La Siria era indipendente e ricca, per questo gente in
giacca e cravatta ha voluto servirsi di gruppi armati per disgregarla”,
denuncia. E lamenta inoltre che le sanzioni nei confronti di Damasco sono
servite soltanto a sfinire la popolazione, aggiungendo un dettaglio spinoso:
“Nel 2012 è stato rimosso l’embargo al petrolio, quando i pozzi erano in mano
ai ribelli, anche all’Isis. Forse è stato fatto per permettere a questi
gruppi di finanziarsi?”.
È una domanda che appare tristemente retorica
dinanzi alla realtà descritta subito dopo da suor Maria Guadalupe. La
coalizione a guida statunitense “ha fatto solo scena – accusa -, gli aerei
passavano sopra le postazioni dell’Isis ma non bombardavano”. E questo –
incalza – “vuol dire che li appoggiavano”.
Il terrorismo – spiega la religiosa – “è
sostenuto da chi ci parla di democrazia e diritti umani”. E poi – si domanda –
“perché dovremmo imporre la democrazia ai siriani? Perché dovremmo far cadere
un Governo che loro stessi hanno scelto e che garantisce convivenza e pace?”.
La riposta è presto detta: per interessi
economici e politici delle potenze occidentali. Questi scopi, per inciso,
“vanno a coniugarsi con gli interessi religiosi dei fondamentalisti islamici,
che vogliono eliminare tutti coloro che il Corano definisce come infedeli”.
Nel buio di una feroce persecuzione, si agita
però un bagliore di luce che dona speranza. È quello della moltitudine di
martiri che rafforza la fede cristiana. Si illuminano gli occhi di suor
Maria Guadalupe, quando descrive la determinazione dei siriani fedeli a Cristo
nel non rinnegare la propria fede dinanzi ai loro boia.
La religiosa parla di “miracoli” che stanno
avvenendo nella Siria falcidiata dal conflitto. Spiega che “prima della
guerra, molta gente di Aleppo, città del divertimento e degli eccessi, viveva
una fede un po’ superficiale, mondana. E la decisione, la disponibilità al
martirio di quegli stessi cristiani oggi, è veramente un miracolo”. Si tratta –
soggiunge – “di una grazia che il Signore sta dando loro”.
Considerare la morte come una possibilità
concreta, di ogni giorno, “ci fa tornare all’essenziale”. Suor Maria Guadalupe
spiega che i cristiani siriani investono la gioia non più su qualcosa che
chiunque può toglier loro, bensì “nella vita eterna”.
“Questo spirito – prosegue – ci contagia,
possiamo partecipare stando lì alla grazia dei martiri e non abbiamo paura,
nonostante siamo ormai abituati ad ascoltare costantemente il suono delle
bombe”.
Un contagio che dovremmo auspicare anche noi,
per reagire . “Loro subiscono una persecuzione cruenta – osserva -, ma ce
n’è una incruenta, che vivono i cristiani in Occidente, a causa di leggi contro
la vita, il matrimonio, la famiglia, la libertà di esprimere la propria fede”.
A tal proposito suor Maria Guadalupe racconta
che un cristiano siriano, profugo in Spagna con moglie e figli, lo scorso anno
è rimasto impressionato dal fatto che l’amministrazione comunale di Madrid volesse vietare
l’esposizione in pubblico di presepi. “Se questa è la vostra
democrazia, meglio il nostro dittatore”, le parole dell’uomo.
E forse non è un caso che – come ha ribadito
la religiosa – in Siria i cristiani li stanno difendendo non i Paesi europei, ma
la Russia e l’esercito siriano. Questi ultimi stanno strappando Aleppo ai
jihadisti proprio nelle ultime ore. (ZENIT)
L'ULTIMA FOLLIA, SDRAIATI DI NOTTE ALL’INCROCIO. NELLA SFIDA GLI ADOLESCENTI SI GIOCANO LA VITA
SENIGALLIA - La fotocamera
dello smartphone è accesa, pronta a immortalare prove di coraggio da esibire
sui social. Capita così che un giorno un genitore, sbirciando tra le
frequentazioni del figlio, si imbatta in una foto che ritrae un suo amico
sdraiato sullo Stop della segnaletica stradale. Un 18enne ripreso in quella che
voleva essere una goliardata, esibita su Facebook forse per strappare qualche
risata agli amici. Uno scatto che ha finito però per allarmare i familiari. Da
qualche mese nella zona industriale della Cesanella, frazione di Senigallia,
c’è chi si diverte a farsi immortalare in fotografie con le pose più assurde.
Il traffico è scarso e i ragazzi possono fare di tutto indisturbati, anche
sdraiarsi per strada e scattare una foto. La polizia municipale ha appreso
solo ieri di quanto si sta verificando da qualche mese in quella zona e ha già
previsto di intensificare i controlli. Goliardate sporadiche che potrebbero
però rivelarsi pericolose. I giovanissimi della Cesanella nelle scorse
settimane hanno fatto parlare di sé quando, sorpresi da un residente lungo la
pista ciclabile del quartiere, sono stati visti picchiarsi. All’apparenza una
lite ma di fatto solo un modo per provocarsi qualche graffio, così da poterlo
poi immortalare e postare su Instagram. Il coraggio che si misura con i lividi.
Negli stessi giorni a Marzocca alcuni ragazzini aspettavano sdraiati sulle
strisce pedonali l’arrivo delle auto per poi spostarsi all’ultimo minuto in
viale Maratea oppure accovacciati pronti a saltare sul marciapiede, per evitare
di essere investiti in viale della Resistenza. Una lunga serie di aneddoti
assurdi ma tristemente reali che annovera anche i giovani che piombano
all’improvviso in mezzo alla strada in via Berardinelli, fermando le auto, come
fosse una richiesta di aiuto, ma che poi scappano quando queste si fermano per
non travolgerli. Pratiche folli dove spesso c’è il branco che incita a provare,
come chi si è rifiutato, venendo emarginato, ha raccontato ai genitori. Dove in
palio c’è la paghetta dei genitori.
(LEGGO.IT)
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P OS T - T RU T H
Post-verità
Aggettivo.
Denota circostanze
in cui, nel
formare l’opinione
pubblica, i
fatti oggettivi sono
meno influenti
delle emozioni
e delle
credenze personali.
Oxford English
Dictionary
ECCO UNA PRIMA RASSEGNA DI POST-TRUTH (NON QUELLE
CHE CI SMERCIA IL PENSIERO UNICO…)
1) VIOLENZA
SULLE DONNE? SILVANA DE MARI
Nel marzo del 2012 ha fatto molto scalpore un
dato rivelato da Ritanna Armeni, secondo la quale la violenza sulle donne
"è la prima causa di morte in tutta Europa per le donne tra i 16 e i 44
anni". Un paio di mesi dopo Barbara Spinelli, sul Corriere della Sera,
aveva fatto una rivelazione simile: "La prima causa di uccisione [morte]
nel mondo delle donne tra i 16 e i 44 anni è l'omicidio (da parte di persone
conosciute)". Nel giugno dello stesso anno è intervenuta sul tema Rashida
Manjoo, special rapporteur dell'ONU sulla violenza contro le donne, secondo la
quale "[...] in Italia la violenza domestica è la prima causa di morte per
le donne fra i 16 e i 44 anni di età".
A queste affermazioni se ne sono aggiunte
innumerevoli altre. La signora Boldrini parla di strage continua e appende
drappi rossi. La signora Cirinnà ha affermato a un corso di aggiornamento
dell'ordine dei giornalisti ( settembre 2016) che padre e madre sono uno
stereotipo e un pregiudizio e ha aggiunto che le donne assassinate da un uomo
sono più numerose di quelle morte di cancro ( 77000).
Dio , in cui credo profondamente, mi dia
testimonianza del fatto che la mia stima per le capacità cognitive delle suddette
signore sta a un granellino di sabbia come il granellino di sabbia sta
all'universo, ma nemmeno loro possono credere alla veridicità di questi
numeri.
Per coloro che si siano persi le puntate
precedenti le donne assassinate ogni anno sono circa 130, gli uomini
assassinati 400, gli uomini suicidi circa 3200, non mille come ho scritto io
sbagliando in un precedente post. Le le donne suicide sono circa 800 e il
suicidio è doppio nelle donne sole. L'emergenza di questo paese quindi è il
suicidio, dovuto alla spaventosa situazione economica che strangola la gente,
che obbliga uomini perbene a essere disoccupati, donne che vorrebbero essere
madri a non osare farlo, famiglie a perdere la casa per pignoramento,
imprenditori costretti a fallire per eccesso di crediti, anziani a cercare
qualcosa nei cassonetti. Ci sono 208 pratiche mediche cui è stato tolto il
carattere di gratuità: una di queste è la terapia antalgica per metastasi ossee
e l'altra è la risonanza magnetica anche nei bambini a rischio di idrocefalo.
L'emergenza è il suicidio di un paese morto, assassinato e venduto che sta
chiaramente morendo senza un futuro. Perché hanno tutti mentito? Perché si sono
tutti inventati che l'emergenza è il femminicidio e i medici obiettori ? Per
distrarre l'attenzione dal suicidio, dalla disperazione, dall'impossibilità di
vivere, dai 12 miliardi di euro spesi in un'accoglienza indiscriminata che sta
causando disastri e morti in mare, certo, ma non è solo questo. Un regime per
poter diventare in tutto e per tutto dittatoriale , anche a fronte di un'ancora
apparenza di democrazia elettiva, deve scardinare di un popolo il passato e
l'istituzione familiare. Contro il femminicidio la vera sfida è il cambiamento
culturale, hanno affermato i geni: quindi la nostra cultura non va bene, va
cambiata, la scuola, gli insegnanti, persone che eseguono le circolari del
ministero spiegheranno il maschile e il femminile: l'etica dei figli
amministrata dallo stato, mi viene la nausea solo a scriverlo. Quella che deve
saltare è l'istituzione familiare, gli uomini che amano le donne, le donne che
amano gli uomini. Una volta saltata la famiglia un popolo diventa spazzatura,
lo zerbino. La vera violenza contro le donne è il suicidio. La vera violenza
contro le donne è una tassazione talmente atroce che impedisce di diventare
madri. La vera violenza contro le donne è la disoccupazione dei loro uomini. La
vera violenza contro le donne sono i miserabili 4 mesi di congedo per
maternità, il dover tornare al lavoro quando il piccolo ha 4 mesi e ha un
disperato bisogno di mamma. la vera violenza contro le donne è la pornografia,
la vera violenza contro le donne è la mostruosa nauseante filiazione di Vendola
e Lo Giudice.
Giù le mani dai nostri uomini. Giù le mani dalle
nostre famiglie. Giù le mani dai nostri figli. Andate al diavolo.
2) “FIDEL” AL PUEBLO O A SE STESSO? MA SAPPIAMO A CHI E’ DAVVERO FEDELE COLUI IL QUALE, NEL NOME DEL POPOLO O DELLA FIDANZATA, VENERA E SERVE SOLO SE STESSO…
2) “FIDEL” AL PUEBLO O A SE STESSO? MA SAPPIAMO A CHI E’ DAVVERO FEDELE COLUI IL QUALE, NEL NOME DEL POPOLO O DELLA FIDANZATA, VENERA E SERVE SOLO SE STESSO…
PERCHE’ ALL’INCUBO SOPRAVVIVE IL SOGNO
Michele Serra su Castro e la “revolucion”
….E’ il fascino della
rivoluzione come avventura di pochi che dirottano la
storia; come evento improbabile eppure possibile, come
se la storia fosse un romanzo ancora da scrivere, una trama ancora da decidere. L’esatto
contrario di quella «fine
della Storia» che divenne, sul
finire del millennio, la
deprimente ossessione di un
Occidente impigrito, spaventato dalla
sua propria inerzia, forse
un poco istupidito dal
benessere.
«Si
può fare», questo è il racconto di
Fidel; e si può fare persino
sotto il naso della superpotenza che
incombe a un tiro
di gommone, e che passerà i
decenni successivi nel tentativo al
tempo stesso protervo e
goffo di riportare all’obbedienza la
piccola isola ribelle, in
una delle più efficaci, impagabili
ripetizioni del mito di
Davide e Golia. Se Usa-
Urss
era Golia contro Golia, il
cozzo speculare tra due giganti ugualmente
convinti di
incarnare
la Verità, capitalismo contro
comunismo, Ovest
contro Est, Usa-Cuba è
il
gigante che scopre il topo proprio sotto casa, e
cerca di schiacciarlo; e non ci riesce,
perché
il topo è scaltro, il topo è coraggioso.
Tutto quello che è venuto dopo – i fallimenti dell’economia pianificata, la persecuzione dei dissidenti, l’opprimente conformismo di ogni dittatura – è importante; ma evidentemente non quanto quello che è avvenuto prima. La rivoluzione castrista è più rimarchevole e più affascinante, per l’immaginario del mondo, del regime castrista. E quando il giovane Fidel disse «mi giudicherà la storia», lo sapeva benissimo che è dei giovani ottanta del Granma che rimarrà la narrazione, e molto meno di quanto è accaduto dopo.
Tutto quello che è venuto dopo – i fallimenti dell’economia pianificata, la persecuzione dei dissidenti, l’opprimente conformismo di ogni dittatura – è importante; ma evidentemente non quanto quello che è avvenuto prima. La rivoluzione castrista è più rimarchevole e più affascinante, per l’immaginario del mondo, del regime castrista. E quando il giovane Fidel disse «mi giudicherà la storia», lo sapeva benissimo che è dei giovani ottanta del Granma che rimarrà la narrazione, e molto meno di quanto è accaduto dopo.
È
una delle (tante) cose che Donald Trump non può capire; e che Obama
aveva probabilmente capito. (VANITY FAIR)
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E
QUI UN POCHINO DI VERITA’, CELATA DIETRO ALLA SEDUZIONE DELLA PSEUDO-RIVOLUZIONE
Soldi, soldati
e stragi Fidel padre padrone di tutti i terrorismi
In più di mezzo secolo Cuba ha
appoggiato, armato e addestrato killer in tutto il mondo
Settantamila soldati inviati a
combattere in sanguinose campagne d'Africa e al fianco degli arabi contro
Israele, armi, addestramento e rifugio sicuro a Cuba per terroristi e
guerriglieri di mezzo mondo in nome del marxismo leninismo.
Il
libro nero del comunismo di Fidel Castro comprende un ampio capitolo
internazionale, che oggi tutti sembrano dimenticare. A cominciare dai messaggi
di cordoglio dei leader mondiali, compreso il nostro presidente della
Repubblica, Sergio Mattarella, che soffrono d'amnesia sul mezzo secolo di regno
di Fidel. E sulla destabilizzazione internazionale portata avanti da Castro in
nome delle revolucion mondiale.
Fra
gli anni Sessanta ed Ottanta le baionette cubane sono intervenute in mezzo
mondo cominciando con Che Guevara in Congo ed in Bolivia, dove è stato ucciso.
Nel 1973 durante la guerra dello Yom Kippur contro Israele, Castro inviò 4mila
consiglieri per dar man forte agli arabi. Nulla in confronto alle sanguinose
campagne d'Africa volute dal lider maximo su richiesta dell'Urss. Nel 1977 Cuba
intervenne con 15mila uomini e armi pesanti in Etiopia per difendere il
dittatore Menghistu nella guerra con la Somalia per l'Ogaden. Dieci anni dopo
55mila cubani con carri armati, elicotteri e caccia bombardieri hanno
puntellato il governo filo sovietico di Luanda, in Angola, combattendo contro i
ribelli appoggiati dagli Usa e truppe sudafricane. Il regime dell'apartheid è
stato condannato dal mondo, ma Castro viene ancora oggi lodato. Nonostante le
truppe cubane ed i loro alleati locali abbiano usato il napalm per distruggere
interi villaggi lungo il confine con la Namibia uccidendo tutti i maschi dai
dieci anni in su. L'area fu soprannominata «il corridoio di Castro».
A
guidare le truppe d'intervento in Africa in nome della fratellanza comunista si
era distinto il generale Arnaldo T. Ochoa Sánchez, detto «El Moro».
Rivoluzionario della prima ora assieme ai fratelli Castro è caduto in disgrazia
nel 1989. L'accusa di traffico di droga verso gli Usa in collaborazione con il
cartello di Medellin e tradimento lo hanno portato davanti ad un plotone di
esecuzione assieme ad altri alti ufficiali. Ancora oggi si sospetta che
l'accusa fosse un paravento e che in realtà l'eroe della rivoluzione volesse
opporsi a Castro in vista del crollo del muro di Berlino.
Solo
lo scorso anno Cuba è stata stralciata dalla lista nera Usa dei paesi canaglia,
sponsor del terrorismo. Nel mezzo secolo al potere il lider maximo ha
appoggiato, armato ed addestrato guerriglieri e gruppi terroristici in America
Latina, Africa e Medio Oriente. Negli ultimi anni il Dipartimento di stato
americano non smetteva di denunciare che «il governo cubano continua a fornire
un rifugio sicuro a diversi terroristi». Compresi gli spagnoli dell'Eta, ma in
passato anche i terroristi dell'Ira hanno trovato riparo all'Havana. Nel
dicembre 2015 Basil Ismail, rappresentante a Cuba del Fronte popolare per la
liberazione della Palestina (Fplp) ha tenuto un accorato intervento in appoggio
all'Intifada davanti ai rappresentanti del Partito comunista cubano come Clara
Pulido Escandel, del Comitato centrale e Rene Gonzalez, eroe delle rivoluzione,
a lungo incarcerato negli Stati Uniti. L'Fplp, che aveva contatti con lo
stragista Carlos è ancora nella lista nera dei gruppi del terrore di Usa,
Canada ed Unione europea.
Castro
in persona ai lavori della Conferenza tricontinentale a Cuba del 1966 aveva
annunciato il progetto di lotta armata internazionale dichiarando che «i
proiettili non le le urne» servono a prendere il potere. Secondo il lider
maximo il mondo era pronto «per una lotta armata rivoluzionaria» internazionale
e gli stessi leader comunisti dell'America latina che non volevano farsi
coinvolgere erano bollati come «traditori, destrorsi e deviazionisti». I cubani
aiutarono i sandinisti a conquistare il potere in Nicaragua. Fin dall'inizio
hanno dato man forte alle Farc colombiane e appoggiato le Pantere nere
americane. I palestinesi, anche nel periodo del terrore di Settembre nero, sono
sempre stati finanziati, addestrati e armati da Castro. (F. BILOSLAVO, IL GIORNALE 30 NOVEMBRE 2016)
CUBA CAPITALE DELL'ABORTO
Tra i tanti crimini commessi, anche questa è un’eredità di sessant’anni di comunismo imposto a tutta l’isola da Fidel Castro, morto novantenne lo scorso 25 novembre.
Mentre in molti – troppi, pure in Italia – celebrano la sua figura, bisognerà che qualcuno ricordi chi è stato davvero il “Comandante in Capo della Rivoluzione cubana”. E cosa continua ad essere il regime da lui instaurato e guidato ora dal fratello Raúl.
Per ovvie ragioni, ci concentreremo sui temi inerenti la nostra mission.
A parte l’oppressione esercitata contro i cattolici, Fidel Castro ed il bandito Ernesto Che Guevara hanno violentemente perseguitato gli omosessuali.
Non è un caso che a Cuba l’aborto sia gratuito e disponibile su richiesta, nonostante per le ragazze di età inferiore ai 16 anni ci sia bisogno del consenso dei genitori. E non è nemmeno un caso che il tasso di omicidi di bambini innocenti prima della nascita sia tra i più elevati del mondo ed il più alto tra i Paesi membri dell’ONU. Tempo fa abbiamo raccontato la storia del medico cubano Óscar Elías Biscet, arrestato e torturato (e ancora tenuto sotto controllo dalla polizia) per il solo fatto di essersi rifiutato di effettuare aborti.
InterPressNews Service nel 2013 riferì che il numero di adolescenti cubane che abortisce supera di tre volte quello di quante decidono di portare a termine la gravidanza. Inoltre sono numerosissime le donne che tra i 15 e i 19 anni hanno già avuto uno o più aborti.
Di fatto, l’aborto è usato come mezzo di controllo delle nascite.
E vantarsi, come fa il regime, di avere un basso tasso di mortalità infantile è una vera presa in giro. Ciò infatti è dovuto al gran numero di bambini ammazzati prima ancora di nascere. Cuba sta attraversando da tempo un vero inverno demografico, un problema solitamente tipico dei Paesi ricchi. Nel “paradiso” castrista però il motivo sta nella paura del futuro: i cubani temono di non poter sfamare i loro figli.
I danni morali portati dal comunismo sono incommensurabili. La mentalità abortista è ormai patrimonio comune. Anche a causa degli orribili programmi di educazione sessuale imposti nella scuola di regime.
Ecco il lascito di Fidel Castro a Cuba. Oltre – lo ripetiamo – a tutta la serie di morti, torture, persecuzioni perpetrate in sei decenni.
Destano dunque molta perplessità le parole di “profondo dolore” espresse per la morte del sanguinario dittatore dal Patriarca ortodosso di Mosca Kirill. Come mai in Russia promuove la campagna per l’abrogazione totale dell’aborto e poi piange l’abortista Fidel?
Federico Catani
Fonte: LifeSiteNews
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Apprendere solo osservando gli altri. Sartre
scoprì i «neuroni-specchio»
L'enfer, c'est
les autres, sosteneva Jean-Paul
Sartre nel dramma “A porte chiuse”,
intendendo con questo che
se i rapporti con gli altri sono
contorti, viziati, allora
l'altro per noi
è l'inferno. Vero è anche il
contrario perché, nel bene come
nel male, noi
ci specchiamo
nel volto degli altri e ciascuno ci
rimanda qualcosa della nostra
immagine contribuendo a farci pensare di
noi quel che pensiamo e
a diventare poi quello che
siamo. Gli altri rappresentano un elemento
essenziale per la
conoscenza di noi stessi e del nostro
stesso io, sosteneva Sartre che con il suo
pensiero filosofico era arrivato
esattamente là dove, anni dopo,
avrebbero portato le ricerche di
tre neuroscienziati dell'
Università di Parma: Giacomo Rizzolatti,
Vittorio Gallese e Leonardo
Fogassi con la scoperta «casuale» dei
neuroni specchio.
La chiamano
Serendipity e la storia della
Medicina, a cominciare dalla scoperta della
penicillina, ne è abbastanza
costellata ma, sicuramente,
nel mondo delle Neuroscienze, questa
scoperta ha rappresentato
una vera e propria rivoluzione
copernicana perché ha permesso di
indagare su questioni una volta
ritenute troppo soggettive e
quindi lontane dalla oggettiva
indagine scientifica, ponendo le basi neurofisiologiche dell'empatia,
dell'amore, del desiderio e della
bellezza, dell'identità e delle
interazioni sociali. Come dunque il
nostro cervello Ci mette in
relazione con gli altri? «I neuroni
specchio sono cellule motorie che si attivano
sia durante l'esecuzione di movimenti finalizzati, sia osservando
movimenti simili e seguiti
da altri individui» spiega Gallese «In pratica, lo stesso neurone che
controlla l'esecuzione di una propria
azione risponde anche all'
osservazione della stessa
azione eseguita da altri». Questo meccanismo, definito di
«rispecchiamento» è alla base dei
comportamenti mimetici e di apprendimento imitativo.
«Analoghi meccanismi sono presenti nel nostro cervello
anche per le emozioni e le
sensazioni» precisa il neuroscienziato
«le stesse aree cerebrali che si attivano quando
proviamo dolore o
disgusto, oppure esperiamo una
sensazione tattile, si attivano
anche quando vediamo gli altri
provare le stesse emozioni e sensazioni».
Secondo Gallese
grazie al meccanismo
della «simulazione incarnata» noi abbiamo la possibilità
di accedere in parte al mondo
dell'altro dall'interno.«L'altro è per
noi anche qualcosa di più
e di diverso da un oggetto da
comprendere e interpretare. L'altro è un
altro tu».
Gallese spiega
che le Neuroscienze cognitive ci
hanno fatto comprendere che
il confine tra ciò che
chiamiamo “reale” e il mondo immaginario
e immaginato è molto meno
netto di quanto si potrebbe
pensare e che la nostra naturale propensione mimetica si manifesta al
sommo grado proprio nell'espressione artistica e nella sua
fruizione.
«Quando ci disponiamo
a vivere un'esperienza
estetica (guardando un quadro, leggendo un romanzo o andando a
teatro o al cinema) in qualche modo noi abbassiamo la guardia nei
confronti del mondo reale
e liberiamo energie che investiamo
in emozioni e sentimenti nel
rapporto con la finzione narrativa che
paradossalmente può dimostrarsi
più vivida della realtà
della vita quotidiana.
Vedere e
immaginare di vedere, agire e
immaginare di agire, esperire un’emozione e
immaginarsela, si fondano
sull'attivazione di circuiti
cerebrali in parte identici, grazie alla
“simulazione incarnata”». Secondo Gallese, lo stesso vale per stimoli
veicolati da strumenti di
comunicazione di massa come schermi video,
computer, tablet e telefonini
che portano ad un ribaltamento
delle proporzioni tra reale e
virtuale.
«Per milioni di
uomini e donne il rapporto con
la realtà avviene sempre di più
attraverso la sua rappresentazione
mediatica ed è reale solo ciò che
i mezzi di comunicazione di massa rappresentano. Ciò vale per i
telegiornali o i reality shows,
come per i social
networks.
"Gli errori di valutazione che spesso
commettiamo su cosa pensino
gli altri derivano almeno in parte
dall'essere immersi in un mondo di
informazioni condivi se con persone
molto simili a noi, quasi
tutte scelte da noi.
Le Neuroscienze, avendo la possibilità di decostruire e comprendere le modalità con cui il corpo si interfaccia col mondo reale e con quello digitalizzato, possono " svelarne il gioco", fornendo strumenti per progettare nuovi contesti e nuove mediazioni e, forse in un futuro futuribile, persino i mattoni con cui realizzarli». (LIBERO, 1 DICEMBRE 2016)
Le Neuroscienze, avendo la possibilità di decostruire e comprendere le modalità con cui il corpo si interfaccia col mondo reale e con quello digitalizzato, possono " svelarne il gioco", fornendo strumenti per progettare nuovi contesti e nuove mediazioni e, forse in un futuro futuribile, persino i mattoni con cui realizzarli». (LIBERO, 1 DICEMBRE 2016)
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SCONNETTERSI SI PUÒ
Gli abitanti di Facebook sono 1,7 miliardi, 400 milioni in
più rispetto a quelli della Cina. Tre su quattro però
non sanno se resteranno ancora a lungo sul pianeta blu. È quanto emerge da una
ricerca di Kaspersky Lab
condotta su un campione di cinquemila persone in dodici Paesi, Italia compresa,
secondo cui
il 78 per cento degli utenti ha pensato di chiudere definitivamente il proprio
account. Tecnicamente è
semplice: per cancellarsi da Facebook basta andare nelle impostazioni e seguire
la procedura indicata
(stando attenti a rimuovere anche tutte le app collegate e i giochi). Nella
pratica è tutto un altro paio di
maniche:
chi ci prova è frenato da una serie di «alibi». Il 62 per cento degli utenti
teme di non essere più in contatto con
amici e parenti, il 21 ha paura di perdere foto e altri ricordi online, il 18
utilizza abitualmente le credenziali di
accesso al social per usufruire di servizi sul web. Il 30 per cento, infine, è
convinto che, qualsiasi cosa farà, continuerà
a
essere spiato dal grande fratello internettiano. Caso per caso, proviamo qui sotto
rassicurarli tutti. (VANITY FAIR)
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XAVIER DOLAN, SPECCHIO DEI TEMPI
«Senza lavoro,
senza soldi, solo, perennemente fatto, e con capelli orribili»: ecco a voi l’adolescenza di XAVIER DOLAN. Poi, a vent’anni, il successo con il suo
primo film.
Ho trascorso anni di niente: non avevo un lavoro, non
avevo soldi, vivevo in un piccolo
appartamento ed
ero perennemente fatto. I miei
amici erano all’università oppure recitavano. Ero
solo. Be’, a parte il gatto».
In un’intervista a Vanity Fair, un paio di anni fa disse che desiderava una relazione stabile con un uomo e avere figli. Ha fatto progressi in tal senso?
«Mi piacerebbe, ma a oggi non è successo. Sto cercando di capire se davvero abbia bisogno di stare con qualcuno per avere un bambino».
Potrebbe crescerlo da solo?
«Con
un amico. Entrambi desideriamo avere figli e
nessuno dei due ha una relazione. Ma è anche vero
che prima di potermi prendere cura di un altro
dovrei essere in grado di prendermi cura
di me stesso. Cosa che non ho
fatto negli ultimi otto anni». (VANITY
FAIR)
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LO TSUNAMI NEL ROMANZO DI LAURENT MAUVIGNIER…
11 marzo 2011, lo tsunami
provocato da un violentissimo terremoto
al largo del Giappone fece quasi trentamila morti. Quello
stesso giorno però, mentre la tragedia si abbatteva sull’isola
del Sol Levante e sulla centrale di Fukushima,
molte
altre persone in viaggio ai quattro angoli del pianeta amavano,
soffrivano o morivano, magari guardando alla televisione quanto stava
accadendo in Giappone. Proprio l’imprevedibile legame tra la catastrofe
giapponese e le piccole catastrofi
individuali
è al centro del nuovo
affascinante romanzo di Laurent
Mauvignier,
(Feltrinelli,
trad. di Yasmina Mélaouah,
pagg. 320, euro 18).
Un romanzo come un lungo viaggio
che snocciola una quindicina
di storie da Gerusalemme a
Mosca, dalla Tanzania alla
Florida, da Roma a Dubai, dal
Mare del Nord alle coste della Somalia.
Sfruttando una lingua sempre
carica di tensione, lo scrittore
francese propone una ricca
e variegata tela romanzesca in
cui si trova di tutto – amicizia, amore,
morte, sesso, follia, violenza,
sogni e frustrazioni – e i cui
personaggi sono colti nel momento in
cui le loro vite giungono a
un punto di svolta. Come se la
scossa del terremoto giapponese avesse
sconvolto anche il loro equilibrio
interiore. Insomma, sfruttando
il caso e la simultaneità, la
circolazione delle informazioni e
le differenze di condizione, l’ambizioso
romanzo-mondo di
Mauvignier si propone come uno
specchio di quella globalizzazione in
cui tutti siamo immersi.
«Il romanzo è nato qualche anno fa durante un soggiorno a Villa Medici, a Roma», racconta il romanziere. «Nella vostracapitale s’incrociano i destini di moltissime persone provenienti da tutto il mondo. Lo stesso accade in moltissimi altri luoghi del pianeta. L’umanità non si è mai spostata così tanto».
«Il romanzo è nato qualche anno fa durante un soggiorno a Villa Medici, a Roma», racconta il romanziere. «Nella vostracapitale s’incrociano i destini di moltissime persone provenienti da tutto il mondo. Lo stesso accade in moltissimi altri luoghi del pianeta. L’umanità non si è mai spostata così tanto».
I
continui spostamenti cambiano la
nostra relazione con i luoghi
e la geografia? «Paradossalmente,
la condizione itinerante
annulla lo spazio. La
velocità e la facilità dei viaggi
rendono gli spostamenti quasi
inutili, riducendo il mondo a
una sequenza di scenografie intercambiabili. Anche
nei posti più
belli o interessanti i turisti
pensano
innanzitutto a farsi i selfie, dimostrandosi
spettatori distratti incapaci
di cogliere la verità dei
luoghi. Quello che però m’interessa
è la soggettività dei viaggiatori
del XXI secolo, i quali, ovunque
vadano, si portano dietro
storie, desideri, nevrosi». Come
scrive nel romanzo, dietro l’esotismo
ritroviamo i nostri terrori...
«Sì,
dietro il bisogno di altrove, ci
sono le nostre paure. In viaggio
poi siamo lontani dai nostri riti
quotidiani, perdiamo punti
di riferimento e abitudini. Ci
ritroviamo in una situazione di
vuoto indefinito che favorisce la
perdita di equilibrio, l’instabilità, la
trasformazione. Forse il viaggio
è il sintomo di una svolta possibile».
Molte
delle storie presenti nelle sue
pagine implicano la fine delle
illusioni... «Spesso
è così. Si viaggia per colmare
un vuoto, per trovare qualcosa
che ci manca nella vita, ma
non è detto che lo si trovi in un
altrove. Dietro i viaggi dei turisti c’è
spesso una lacuna o un fallimento da
cancellare. C’è qualcosa di
misterioso».
Il
suo romanzo sembra indicare che
nel mondo della circolazione frenetica
delle informazioni siamo
tutti legati a uno stesso
destino? «Certamente.
Siamo tutti immersi
nella
globalizzazione, anche se
ciascuno per conto proprio. Siamo
soli e spesso isolati, ma
sempre dipendenti gli uni dagli altri.
Per questo le storie del mio
romanzo non sono singoli racconti
indipendenti ma una suite
di storie più o meno collegate le
une alle altre. Senza dimenticare che
in fondo abbiamo tutti le
stesse paure, gli stessi desideri, le
stesse incertezze. Il denominatore comune
dell’umanità e proprio
il terreno un po’ arcaico delle
sensazioni e dei sentimenti. Che
poi è quello che ci permette di
capire gli altri anche quando sono
molto diversi da noi, a patto però
di mostrarsi aperti e disponibili».
Perché
ha scelto lo sfondo del terremoto
del 2011?
«Quel
terremoto spostò di qualche
centimetro l’asse della terra
e l’onda dello tsunami impiegò un
anno a spegnersi completamente dall’altra
parte del pianeta.
Al di là della catastrofe e delle
migliaia di morti, queste due
conseguenze esemplificano perfettamente
il fatto che siamo tutti
legati a un’unica realtà dove tutto
circola. Quello che accade in
Giappone ha un impatto sulla vita
di chi sta dall’altra parte del
pianeta».
Il
denominatore comune è la tragedia? «Più
che la tragedia m’interessava la
sensazione di un’urgenza che
nasce dalla possibilità di una catastrofe
imminente, sensazione oggi
molto diffusa. Viviamo come se
ad ogni istante la terra potesse venirci
a mancare sotto i piedi,
proprio come durante un terremoto».
La
globalizzazione oggi fa sempre più
paura, tanto che si moltiplicano i
muri reali e simbolici che
cercano di limitarne gli effetti... «La
cosa più inquietante è che si
sta tornando all’idea che le differenze siano
insormontabili, motivo
per cui non sarebbe più
possibile
comprendere gli altri».
Sulla
scrivania ha una frase di Kafka:
«Se un libro non ci sveglia con
una botta sulla testa, perché
leggere?». «Mi
sembra una bella frase. I libri devono
essere esperienze forti.
Devono
lasciare una traccia in noi,
devono cambiarci almeno un
po’. Molti libri appena letti vengono
subito dimenticati, altri però
ci aiutano a cambiare il nostro
modo di vedere il mondo e di
resistergli. Mi piacerebbe che i miei
romanzi appartenessero almeno in
parte a questa seconda categoria».
(LA REPUBBLICA, 1 DICEMBRE 2016)
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I bambini intelligenti? Non usano il tablet ma si
sporcano nel fango e sI arrampicano sugli alberi
Secondo una ricerca condotta di
recente, è emerso che un bambino su dieci oltre ad ignorare i comunissimi
giochi come un-due-tre stella, campana, palla avvelenata, non sa andare in bici
e non si è mai arrampicato su di un albero.
Tantissimi bambini passano, piuttosto, interi pomeriggi in casa, davanti al computer o alla televisione, perdendo tutta una serie di esperienze all’aperto estremamente importanti per la loro crescita. Nello specifico, la ricerca si è concentrata sulle abitudini di 12.000 famiglie con bambini di età compresa tra i 5 e i 12 anni; in più di dieci paesi è risultato che i bambini giocano all’aria aperta in media 30 minuti al giorno.
Tantissimi bambini passano, piuttosto, interi pomeriggi in casa, davanti al computer o alla televisione, perdendo tutta una serie di esperienze all’aperto estremamente importanti per la loro crescita. Nello specifico, la ricerca si è concentrata sulle abitudini di 12.000 famiglie con bambini di età compresa tra i 5 e i 12 anni; in più di dieci paesi è risultato che i bambini giocano all’aria aperta in media 30 minuti al giorno.
Negli Stati Uniti quasi il 50%
dei bambini in età prescolare esce a giocare fuori casa solo alcuni giorni a
settimana. Non cambia di molto la situazione sposandosi nel Regno Unito: il 20%
dei bambini non ha mai provato ad arrampicarsi su un albero e il 64% gioca
all’aperto anche meno di una volta alla settimana. Secondo quanto messo in luce,
non esiste alcuna correlazione tra il tempo trascorso a giocare all’aperto, il
reddito delle famiglie o la percezione del livello di sicurezza del vicinato. È
una tendenza generale che esula dallo status socio-economico: sostanzialmente,
i genitori non vogliono che i propri figli si sporchino nel fango, giochino da
soli con altri bimbi o si arrampichino sugli alberi.
I bambini di oggi, diversamente
dai bambini di un tempo, da adulti, sicuramente, non avranno ricordi d’infanzia
legati al divertimento e giochi all’aria aperta. Allo stato attuale, soltanto il
21% dei bambini gioca all’aria aperta tutti i giorni, nonostante al 71% dei
loro genitori veniva concesso.
Purtroppo, questa privazione è realmente penalizzante per i bambini. Giocare
all’aperto con altri coetanei, sporcarsi di terra e fango, sono attività che,
oltre a rendere i bambini più felici e attivi, hanno una positiva incidenza
sulla loro salute e sul loro sviluppo fisico-emotivo. La sedentarietà dei bambini non
è una loro scelta. In moltissimi casi, si tratta di genitori stanchi di mille
altre attività che, per pigrizia, preferiscono restare in casa con i loro figli
per occuparsi della gestione della casa e della vita familiare in generale. I bambini, piuttosto, devono
essere spronati, quanto più possibile, a vivere e a giocare a contatto con la
natura e con i coetanei, devono poter esplorare e sperimentare nuove attività.
La sicurezza, la salute, la
pulizia sono soltanto scuse dei genitori per evitare ai bambini di fare
particolari attività. Se i vestiti si sporcano…a casa si lavano! Il giusto
compromesso è sorvegliarli, lasciandoli liberi di fare nuove esperienze. La natura, con i suoi parchi e
boschi, rappresenta per i bambini, senza alcuna ombra di dubbio, un ambiente
sano, ricco di stimoli e sfide, in grado di dare libero sfogo alla loro
fantasia, grazie alla quale riusciranno a creare una moltitudine infinita di
giochi e attività.
Perché i bambini devono giocare
all’aria aperta e con i coetanei? Ci sono tantissime buone e
valide ragioni perché i più piccoli trascorrono del tempo a giocare all’aperto
con i loro coetanei. Giocare all’aperto rappresenta
un’ottima lezione di vita per il bambino: può imparare ad autocontrollarsi, a
risolvere i problemi, a prendere decisioni, a seguire le regole… Ad esempio, comprenderà che per
essere accettato dal gruppo dovrà, non solo rispettare determinate regole, ma
dovrà anche controllare alcuni dei suoi comportamenti. Con i coetanei, giocando all’aria
aperta, spesso il bambino si troverà in situazioni difficili. Se vorrà uscirne
a testa alta, deve necessariamente imparare a gestire le emozioni. Se esempio,
vorrà arrampicarsi su un albero, inizialmente avrà paura, ma se sarà di fronte
ai suoi amici, riuscirà a dominarla.
Quando un bambino gioca fuori
casa sicuramente si sente molto più libero, ecco perché preferisce dedicarsi a
giochi esclusivamente frutto della immaginazione, creatività ed intelligenza. Tutto quello che si incontra
nella natura stimola l’immaginazione dei bambini: non si tratta di giocattoli
concepiti per un uso specifico, piuttosto di cose che possono essere utilizzate
a seconda della creatività di ognuno. Ecco perché i bambini che giocano
all’aria aperta imparano ad apprezzare sin da subito le piccole cose della vita
e ad essere responsabili e indipendenti. Quando il bambino gioca
all’aperto con i coetanei, è lontano dai genitori; mancando la figura del
mediatore adulto, imparerà a risolvere i suoi problemi da solo ma a sbagliare a
sue spese, almeno finchè non troverà la soluzione giusta ai suoi bisogni. Tutto
questo lo aiuterà a diventare un adulto più sicuro e consapevole. Nel gioco libero e non guidato,
i bambini possono esplorare i loro interessi senza alcuna pressione.
Il bambino, senza la continua
supervisione degli adulti, potrà sviluppare, più facilmente, le sue competenze
sociali, sarà più empatico e sensibile. Il gioco sociale sarà un modo
naturale per fare nuove amicizie, permetterà lui di imparare a stare con gli
altri, di relazionarsi con gli altri in modo equo; gli permetterà di capire che
per divertirsi ha bisogno di stare con i suoi compagni di gioco. Il gioco non è soltanto
un’attività importante per lo sviluppo, è la fonte primaria della felicità, del
benessere e della soddisfazione. Il gioco all’aperto libera
l’energia del bambino e crea in lui una piacevole sensazione di serenità e
tranquillità. Secondo quanto emerso da uno studio condotto presso la Cornell
University, i bambini che vivono in città e che trascorrono poco tempo a
contatto con la natura hanno livelli più elevati di ansia e stress, rispetto a
quelli che vivono in zone rurali, i quali, a loro volta, anche molto più
resistenti alle avversità.
A tal proposito, due scrittrici
britanniche, Jo Schofield e Fiona Danks, hanno scritto di recente un libro
intitolato “Go Wild -101 things to do outdoors before you grow up” (che
tradotto significa “101 cose da fare all’aria aperta prima di diventare troppo
grande”). Nel libro sono raccolte tutte le attività che i bambini possono fare
usando la natura come vera e propria area giochi. Le attività spaziano da
quelle più tradizionali a quelle più innovative quali nascondino, campana,
palla avvelenata, mosca cieca, un- due -tre stella, ecc. Inoltre, per convincere i
bambini a schiodarsi dal divano, pc e/o tv, gli Esperti del National Trust
(Fondazione britannica nata per tutelare gli spazi verdi e i luoghi storici del
Regno unito), considerate le basse percentuali di bambini che giocano
all’aperto (1 su 10), hanno stilato un divertente elenco di attività da fare
assolutamente prima dei 12 anni, tutte rigorosamente all’aperto.
Solo per citarne qualcuna:
● Arrampicarsi su un albero;
● Costruire un rifugio,
● Far volare un aquilone,
● Correre sotto la pioggia,
● Lanciare palle di neve,
● Rotolarsi giù per una collina,
● Organizzare una caccia al tesoro
● Mantenersi in equilibrio sul tronco di un albero caduto,
● Correre a braccia aperte a mo’ di deltaplano….ecc.
● Costruire un rifugio,
● Far volare un aquilone,
● Correre sotto la pioggia,
● Lanciare palle di neve,
● Rotolarsi giù per una collina,
● Organizzare una caccia al tesoro
● Mantenersi in equilibrio sul tronco di un albero caduto,
● Correre a braccia aperte a mo’ di deltaplano….ecc.
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